Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12945 del 26/06/2020

Cassazione civile sez. I, 26/06/2020, (ud. 04/12/2019, dep. 26/06/2020), n.12945

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. LIBERATI Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 35014/2018 proposto da:

M.S., elettivamente domiciliato in Fermo, viale Carriera 10,

presso l’avvocato Lara Petracci del Foro di Fermo, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ANCONA, depositato il 11/11/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

04/12/2019 dal Cons. Dr. GIOVANNI LIBERATI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Ancona ha respinto la domanda del ricorrente, M.S., nato in Bangladesh, di riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria, in subordine della protezione umanitaria, confermando le conclusioni della Commissione territoriale di Ancona e di cui al provvedimento notificato al ricorrente il 5 aprile 2018.

Il Tribunale ha escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, per non avere il ricorrente allegato di essere affiliato a un partito politico, o di aver preso parte alla attività di associazioni per i diritti civili, nè di appartenere a una minoranza etnica o religiosa oggetto di persecuzione, nè di far parte di una categoria di persone esposte a violenze, torture o altre forme di trattamento inumano.

Quanto alla protezione sussidiaria il Tribunale ha rilevato che quanto esposto dal ricorrente attiene a vicende di vita privata (la necessità di aiutare economicamente la famiglia di origine, costituita dalla madre, una sorella disabile e un fratello di 14 anni), e a timori personali privi di elementi concreti di riscontro, escludendo di conseguenza l’esistenza di una situazione oggettiva di pericolo direttamente riferibile al ricorrente in relazione alla situazione del Bangladesh.

Ha infine escluso la protezione umanitaria, in mancanza di una situazione di elevata vulnerabilità all’esito del rimpatrio.

2. Il ricorrente chiede la cassazione del decreto del Tribunale di Ancona sulla base di tre motivi.

3. Il Ministero dell’Interno è rimasto intimato.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4. Il ricorso è articolato in tre motivi.

4.1. Dopo aver premesso di aver dovuto lasciare il Bangladesh a causa delle minacce ricevute dai fratelli della ragazza con cui si era fidanzato, contrari al matrimonio, che avevano posto in essere violenze fisiche e minacce di morte nei confronti del ricorrente, che era quindi stato consigliato dai saggi del paese di lasciare il Bangladesh, con il primo motivo si lamenta la nullità del provvedimento impugnato per mancanza o apparenza della motivazione, priva di effettiva considerazione della situazione del ricorrente e delle esperienze dallo stesso vissute.

4.2. In secondo luogo, si lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo, costituito dalla situazione di estrema povertà del Bangladesh e dall’inserimento lavorativo del ricorrente in Italia, che aveva anche frequentato un corso di lingua italiana.

4.3. Infine, con un terzo motivo, lamenta la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, per la mancata valorizzazione della attività lavorativa ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria.

5. Osserva il Collegio che i motivi proposti sono inammissibili perchè si risolvono in generiche deduzioni di fatto volte a sollecitare un riesame del merito della vicenda, non consentito in sede di legittimità.

6. Le doglianze formulate con il primo motivo, in ordine alla mancanza o apparenza della motivazione del provvedimento impugnato, che avrebbe, sostanzialmente, omesso di considerare sia la situazione del paese di origine del ricorrente (il Bangladesh), sia la condizione personale di quest’ultimo, sono inammissibili, sia a causa della loro genericità, consistendo nella generica esposizione della doglianza, disgiunta dalla illustrazione di situazioni di fatto e condizioni di vita idonee a consentire il riconoscimento di qualsivoglia forma di protezione internazionale (consistendo, in sostanza, nella generica affermazione della situazione di miseria e disordine sociale e mancanza di protezione esistente in Bangladesh); sia perchè il Tribunale, nel disattendere l’impugnazione del ricorrente, ha considerato sia la sua vicenda personale, sia la situazione del Banlgadesh, escludendo, a seguito di una approfondita analisi delle fonti informative, l’esistenza in tale Paese di pericoli per l’incolumità del richiedente o l’impossibilità di adeguata tutela giudiziaria in relazione alle minacce dallo stesso subite. Ne consegue che non è ipotizzabile il vizio denunciato in quanto le statuizioni contestate risultano sostenute da una chiara motivazione e la denuncia del vizio di mancanza o apparenza della motivazione risulta priva di decisività e tale da tradursi in una critica che investe la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito (vedi, per tutte: Cass. 13 agosto 2019, n. 21377; Cass. 13 marzo 2018, n. 6035; Cass. 21 gennaio 2004, n. 886; Cass. 5 giugno 2007, n. 13184; Cass. 5 maggio 1995, n. 4923).

7. Quanto al diniego della protezione umanitaria, cui il Tribunale sarebbe pervenuto omettendo di considerare la condizione di miseria esistente in Bangladesh e l’inserimento lavorativo in Italia del ricorrente, oggetto del secondo e del terzo motivo, va ricordato che la protezione umanitaria, prevista in generale dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, è un istituto di “protezione complementare”, come tale non direttamente ricompreso nel sistema della protezione internazionale, ma la cui istituzione è autorizzata dalla normativa UE – vedi, in particolare: Considerando 14, direttiva n. 95/2011/U nonchè art. 6, par. 4, della direttiva rimpatri n. 115/2008/CE in base ai quali gli Stati membri sono autorizzati a prevedere in favore dei migranti forme di protezione più favorevoli rispetto a quelle indicate nelle direttive, purchè non incompatibili con esse – che nel nostro ordinamento è stato introdotto dalla L. n. 40 del 1998 il cui contenuto è stato poi trasfuso nel predetto decreto legislativo.

Il D.L. n. 113 del 2018 convertito in L. n. 132 del 2018 ne ha profondamente modificato la struttura, ma come precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte tale novella, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 con le disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge, quale quella di cui si tratta nel presente giudizio. Secondo la giurisprudenza (vedi spec. Cass., Sez. 1, n. 4455/2018, Rv. 647298), nei “gravi motivi umanitari” contemplati dal citato art. 5, comma 6, sono ricomprese la tutela della salute, l’instabilità politica e sociale nel Paese d’origine, la povertà e l’integrazione sociale. L’inserimento sociale nel Paese, tuttavia, non è da solo sufficiente per giustificare il rilascio del permesso umanitario, essendo necessaria un’effettiva valutazione comparativa della situazione oggettiva del Paese d’origine e soggettiva del richiedente, alla luce delle peculiarità della vicenda personale.

Nella specie, nella decisione di rigetto del permesso per motivi umanitari correttamente si è escluso che l’esistenza di un regolare rapporto di lavoro e la frequentazione di un corso di lingua italiana possano essere sufficienti per ravvisare il requisito della integrazione sul territorio dello Stato, mancando anche qualsiasi vincolo familiare.

Le argomentazioni svolte sul punto nel ricorso risultano del tutto generiche e inidonee ad impugnare le suindicate rationes decidendi poste a base della decisione di rigetto de qua, tali rationes decidendi sono pertanto divenute definitive, sicchè in nessun caso se ne può più produrre l’annullamento (vedi, al riguardo: Cass. 7 novembre 2005, n. 21490; Cass. 26 marzo 2010, n. 7375; Cass. 7 settembre 2017, n. 20910; Cass. 3 maggio 2019, n. 11706).

Di qui l’inammissibilità del secondo e del terzo motivo.

7. Non vi è luogo a pronunzia sulle spese, essendo il Ministero dell’Interno rimasto intimato.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, il 4 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2020

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA