Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12941 del 26/06/2020

Cassazione civile sez. I, 26/06/2020, (ud. 04/12/2019, dep. 26/06/2020), n.12941

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. LIBERATI Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 34903/2018 proposto da:

C.F., elettivamente domiciliato in Fermo, viale Carriera 10,

presso l’avvocato Lara Petracci del Foro di Fermo, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ANCONA, depositato il 29/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

04/12/2019 dal Cons. Dr. LIBERATI GIOVANNI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Ancona ha respinto la domanda del ricorrente, C.F., nato in Gambia, di riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria, in subordine della protezione umanitaria, confermando le conclusioni della Commissione territoriale di Ancona e di cui al provvedimento notificato al ricorrente il 28 marzo 2018.

Il Tribunale ha escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, per non avere il ricorrente allegato di essere affiliato a un partito politico, o di aver preso parte alla attività di associazioni per i diritti civili, nè di appartenere a una minoranza etnica o religiosa oggetto di persecuzione, nè di far parte di una categoria di persone esposte a violenze, torture o altre forme di trattamento inumano.

Quanto alla protezione sussidiaria il Tribunale ha rilevato una condizione ostativa, costituita dal fatto che il ricorrente aveva ammesso di aver avvelenato un pozzo dove alcune persone andavano ad attingere l’acqua, provocandone la morte, e anche l’insussistenza di elementi da cui desumere l’esistenza di una grave e individuale minaccia nei confronti del richiedente. Ha infine escluso la protezione umanitaria, in mancanza di una situazione di elevata vulnerabilità all’esito del rimpatrio.

2. Il ricorrente chiede la cassazione del decreto del Tribunale di Ancona sulla base di tre motivi.

3. Il Ministero dell’Interno è rimasto intimato.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4. Il ricorso è articolato in tre motivi.

4.1. In primo luogo, si lamenta la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 32 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, per la carente valutazione dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, non essendo stata adeguatamente considerata la situazione di violenza indiscriminata esistente in Gambia.

4.2. Con un secondo motivo si lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo, costituito dal sistema di vendette private esistente in Gambia e dalla mancanza di protezione da parte delle autorità locali in caso di ritorno nel paese di origine; si lamenta anche la mancata considerazione del funzionamento della giustizia penale in tale paese e della situazione carceraria ivi esistente.

4.3. Con un terzo motivo lamenta la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8,D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, a causa della mancanza di una indagine sul sistema giudiziario del Gambia e su quello carcerario.

5. Osserva il Collegio che i motivi proposti sono manifestamente infondati perchè si risolvono in generiche deduzioni di fatto volte a sollecitare un inammissibile riesame del merito della vicenda.

6. Tutti e tre i motivi, esaminabili congiuntamente, essendo tutti relativi al mancato riconoscimento della protezione umanitaria e alla insufficiente considerazione della condizione personale del ricorrente e della situazione del Gambia, sono inammissibili.

Va ricordato che la protezione umanitaria, prevista in generale dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, è un istituto di “protezione complementare”, come tale non direttamente ricompreso nel sistema della protezione internazionale, ma la cui istituzione è autorizzata dalla normativa UE – vedi, in particolare: Considerando 14, direttiva n. 95/2011/U nonchè art. 6, par. 4, della direttiva rimpatri n. 115/2008/CE in base ai quali gli Stati membri sono autorizzati a prevedere in favore dei migranti forme di protezione più favorevoli rispetto a quelle indicate nelle direttive, purchè non incompatibili con esse – che nel nostro ordinamento è stato introdotto dalla L. n. 40 del 1998 il cui contenuto è stato poi trasfuso nel predetto decreto legislativo. Il D.L. n. 113 del 2018 convertito in L. n. 132 del 2018 ne ha profondamente modificato la struttura, ma come precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte tale novella, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 con le disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge, quale quella di cui si tratta nel presente giudizio. Secondo la giurisprudenza (vedi spec. Cass., Sez. 1, n. 4455/2018), nei “gravi motivi umanitari” contemplati dal citato art. 5, comma 6, sono ricomprese la tutela della salute, l’instabilità politica e sociale nel Paese d’origine, la povertà e l’integrazione sociale.

L’inserimento sociale nel Paese, tuttavia, non è da solo sufficiente per giustificare il rilascio del permesso umanitario, essendo necessaria un’effettiva valutazione comparativa della situazione oggettiva del Paese d’origine e soggettiva del richiedente, alla luce delle peculiarità della vicenda personale.

Nella specie, nella decisione di rigetto del permesso per motivi umanitari il Tribunale, oltre a sottolineare il dato della commissione da parte del ricorrente di un reato comune, ha escluso sia una condizione di vulnerabilità del ricorrente, non rappresentata neppure nel ricorso, sia l’esistenza di una situazione di pericolo o di insufficiente protezione nel paese di origine, alla luce delle sufficienti garanzie offerte, sulla base delle informazioni assunte, dal sistema giudiziario del paese di origine del ricorrente.

Il rischio di sottoposizione alla pena di morte nel Paese di origine per il reato commesso dal richiedente, o di subire torture o trattamenti inumani o degradanti nelle carceri di tale Paese, può avere rilevanza per l’eventuale riconoscimento sia della protezione sussidiaria, in base al combinato disposto del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g), con l’art. 14, lett. a) e b) dello stesso D.Lgs., sia, in subordine, della protezione umanitaria, in base all’art. 3 CEDU e al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (v. Cass. 17 gennaio 2020, n. 1033; Cass. 22 febbraio 2019, n. 5358), in quanto la causa ostativa al riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria costituita dalla commissione di un reato grave al di fuori del territorio nazionale ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 10, comma 2, lett. b), e art. 16, comma 1, lett. b), come modificati dal D.Lgs. n. 18 del 2014, art. 1, comma 1, lett. h) e l), n. 1, (giudicata ostativa anche al riconoscimento della protezione umanitaria da Cass. 20 ottobre 2018, n. 27504), non esclude che il giudice, nell’esaminare la richiesta di protezione umanitaria, tenga conto anche del tipo di trattamento sanzionatorio previsto nel Paese di origine per il reato commesso dal richiedente e il pericolo della sua sottoposizione a trattamenti inumani o alla pena di morte (v. Cass. 17 gennaio 2020, n. 1033, cit.).

Tuttavia, nel caso in esame, le argomentazioni svolte sul punto nel ricorso risultano del tutto generiche, in quanto il ricorrente ha del tutto omesso di illustrare le condotte che avrebbe realizzato nel proprio Paese di origine e di indicare le conseguenze che potrebbero derivarne, e sono quindi inidonee ad impugnare le suindicate rationes decidendi poste a base della decisione di rigetto de qua, cosicchè tali rationes decidendi sono divenute definitive e quindi in nessun caso se ne può più produrre l’annullamento (vedi, al riguardo: Cass. 7 novembre 2005, n. 21490; Cass. 26 marzo 2010, n. 7375; Cass. 7 settembre 2017, n. 20910; Cass. 3 maggio 2019, n. 11706).

Di qui l’inammissibilità dei motivi.

7. Non vi è luogo a pronunzia sulle spese, essendo il Ministero dell’Interno rimasto intimato.

Sussistono, infine, i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente stesso, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso per cassazione, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 4 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2020

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