Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12939 del 26/06/2020

Cassazione civile sez. I, 26/06/2020, (ud. 04/12/2019, dep. 26/06/2020), n.12939

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. LIBERATI Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 33108/2018 proposto da:

S.L., elettivamente domiciliato in Roma Piazza Mazzini 8,

presso lo studio dell’avvocato Salvatore Fachile, rappresentato e

difeso dall’avvocato Daniele Valeri;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’interno;

– resistente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ANCONA, depositato il 08/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

04/12/2019 dal Cons. Dr. GIOVANNI LIBERATI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Ancona ha respinto la richiesta di S.L., nato in Senegal, di riconoscimento della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria, confermando le conclusioni della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Ancona, di cui al provvedimento notificato al ricorrente in data 8 gennaio 2018. Il Tribunale ha ritenuto scarsamente credibile, a causa della sua genericità, il racconto del richiedente (di aver lasciato il Senegal nel 2014 a causa delle minacce di morte ricevute dal marito della propria madre, dopo che questi aveva scoperto che egli era figlio di un altro uomo), e ha escluso che la situazione della zona del (OMISSIS) determini la sussistenza di una grave e individuale minaccia per il ricorrente; è stata esclusa anche la riconoscibilità della protezione umanitaria, per la mancanza di una situazione di elevata vulnerabilità in caso di rimpatrio e anche per la mancanza di un serio processo di integrazione sociale e lavorativa; è stata poi esclusa la rilevanza dei problemi di salute allegati dal ricorrente.

2. Il ricorrente chiede la cassazione del decreto del Tribunale di Ancona sulla base di otto motivi.

3. L’intimato Ministero dell’Interno non ha resistito con controricorso, ma ha depositato atto di costituzione ai fini della eventuale partecipazione all’udienza di discussione ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 1, ultimo alinea, cui non è seguita alcuna attività difensiva.

RAGIONI DELLA DECISIONE

4. Il ricorso è articolato in otto motivi.

4.1. In primo luogo, si prospetta la illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, inserito dal D.L. n. 13 del 2017, art. 6, comma 1, lett. g, convertito dalla L. n. 46 del 2017 nella parte in cui non prevede un doppio grado di giurisdizione di merito per l’impugnazione dei provvedimenti di cui all’art. 35, per la illogicità di tale lacuna e il contrasto della stessa con l’art. 2, prot. addizionale n. 7, CEDU.

4.2. In secondo luogo, si prospetta la illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 13, nella parte in cui prevede il termine di 30 giorni per l’impugnazione anzichè di 60, come ordinariamente previsto per il ricorso per cassazione dall’art. 325 c.p.c., comma 2.

4.3. Con un terzo motivo si prospetta altro profilo di illegittimità costituzionale della medesima disposizione, nella parte in cui prevede che la procura alle liti per la proposizione del ricorso per cassazione deve essere conferita, a pena di inammissibilità del ricorso, in data successiva alla comunicazione del provvedimento impugnato.

4.4. Con un quarto motivo si lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e art. 27, comma 1 bis, nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, a causa della evidente confusione tra il caso del richiedente con quello di un altro, in quanto nella motivazione dell’ordinanza impugnata vi sono parti che riguardano un altro soggetto e un’altra vicenda (tra cui l’essergli state rivolte domande sugli accadimenti che in realtà non sarebbero state fatte e l’affermazione di scarsa attendibilità del ricorrente); si lamenta anche l’omessa considerazione della situazione personale del ricorrente e delle condizioni della Regione del (OMISSIS).

4.5. Con il quinto motivo si duole dell’omesso esame di un fatto decisivo e denuncia la apparenza della motivazione, in quanto riferita in modo del tutto generico a fatti che non corrispondono a quelli prospettati dal ricorrente.

4.6. Con il sesto motivo si lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2 e 14, per l’erroneità della valutazione della situazione di violenza che caratterizza la zona del (OMISSIS), che giustificherebbe il riconoscimento della protezione sussidiaria.

4.7. Con il settimo motivo si lamenta la violazione art. 10 Cost., a causa del mancato riconoscimento di un autonomo diritto di asilo costituzionale.

4.8. Infine, con l’ottavo motivo, si lamenta la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, con riferimento al diniego della protezione umanitaria, non essendo stata considerata la grave malattia cronica del ricorrente e il suo grado di inserimento, avendo compiuto gli studi in Italia fino a ottenere la licenza media ed essendo in corso la partecipazione a un tirocinio formativo, oltre che affetto da epatite cronica attiva HBV correlata.

5. Osserva il Collegio che i motivi proposti sono manifestamente infondati perchè si risolvono in generiche deduzioni di fatto volte a sollecitare un inammissibile riesame del merito della vicenda.

6. La questione di costituzionalità del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, inserito dal D.L. n. 13 del 2017, art. 6, comma 1, lett. g, convertito dalla L. n. 46 del 2017, nella parte in cui non prevede un doppio grado di giurisdizione di merito per l’impugnazione dei provvedimenti di cui all’art. 35, formulata con il primo motivo di ricorso, è manifestamente infondata.

Fermo il rilievo secondo cui non può costituire motivo di ricorso per cassazione la valutazione negativa che il giudice del merito abbia fatto circa la rilevanza e la manifesta infondatezza di una questione di legittimità costituzionale, in quanto il relativo provvedimento (benchè ricompreso nella specie, da un punto di vista formale, nel decreto oggetto dell’impugnativa) ha carattere puramente ordinatorio, essendo riservato il relativo potere decisorio alla Corte costituzionale (cfr., tra le altre, Cass. 18 febbraio 1999 n. 1358; Cass. 22 aprile 1999, n. 3990; Cass. 29 ottobre 2003, n. 16245; Cass. 16 aprile 2018, n. 9284; Cass. 24 febbraio 2014, n. 4406; Cass. 16 ottobre 2019, n. 29600), va ribadito che non esiste copertura costituzionale del principio del doppio grado ed il procedimento giurisdizionale di riconoscimento della protezione internazionale è preceduto da una fase amministrativa che si svolge davanti alle Commissioni territoriali deputate ad acquisire, attraverso il colloquio con l’istante, l’elemento istruttorio centrale ai fini della valutazione della domanda di protezione (vedi Cass. 30 ottobre 2018, n. 27700; Cass. 30 maggio 2019, n. 14821; Cass. 13 agosto 2019, n. 21375; Cass. 16 ottobre 2019, n. 29600).

7. Le questioni di costituzionalità del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 13, nella parte in cui prevede il termine di 30 giorni per l’impugnazione anzichè di 60, come ordinariamente previsto per il ricorso per cassazione dall’art. 325 c.p.c., comma 2, e nella parte in cui prevede che la procura alle liti per la proposizione del ricorso per cassazione deve essere conferita, a pena di inammissibilità del ricorso, in data successiva alla comunicazione del provvedimento impugnato, sono inammissibili per difetto di rilevanza, in quanto nulla è stato rilevato nel giudizio di merito circa la tempestività del ricorso del richiedente, nè quest’ultimo è stato in alcun modo pregiudicato dalle disposizioni della cui legittimità costituzionale dubita, avendo potuto proporre tempestivo e rituale ricorso per cassazione avverso la decisione di rigetto del Tribunale di Ancona, e non dovendo farsi di conseguenza applicazione pregiudizievole per il ricorrente di dette disposizioni.

8. Il quarto, il quinto, il sesto e il settimo motivo, esaminabili congiuntamente, in quanto tutti relativi alla errata applicazione delle disposizioni di legge relative alla protezione sussidiaria, sono inammissibili a causa della loro genericità intrinseca, consistendo nella mera enunciazione della censura e nel richiamo alle disposizioni di legge che si assumono violate, agli orientamenti interpretativi esistenti al riguardo e alla situazione del Senegal e della Regione del (OMISSIS), disgiunti dalla individuazione di violazioni di legge sostanziale ravvisabili nel caso specifico.

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, comma 1, identifica il danno grave, il cui concreto timore consente il riconoscimento della protezione sussidiaria, nelle ipotesi a) di condanna a morte o esecuzione della pena di morte, b) di tortura o altra forma di pena o trattamento umano o degradante ai danni del richiedente nel Paese d’origine, c) di minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto interno o internazionale secondo cui non sussistono i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato (Cass., Sez. 1, n. 11103/2019, con ampi riferimenti alla giurisprudenza Eurounitaria).

In estrema sintesi, il Tribunale ha ritenuto non fondato, per come rappresentato, il timore della persecuzione personale ed ha osservato che non era stato indicato l’agente persecutore nè erano stati esposti i motivi relativi alla mancanza di protezione nello Stato d’origine; inoltre, ha aggiunto che, sulla base delle ricerche condotte, il Senegal non era un paese afflitto da una violenza indiscriminata.

Va aggiunto, alla luce di quanto indicato nel ricorso circa le ragioni che avrebbero indotto il ricorrente a lasciare il Senegal (il timore di violenze da parte del patrigno), che le liti tra privati per ragioni proprietarie o familiari non possono essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di “vicende private” estranee al sistema della protezione internazionale, atteso che, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. c), i c.d. soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave soltanto se lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro le persecuzioni o i danni gravi suddetti adottando a tutela delle vittime le misure indicate nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 6, comma 2, (vedi, fra le tante: Cass. 1 aprile 2019, n. 9043 e Cass. 29 aprile 2020, n. 8367).

9. Quanto alle censure in ordine al diniego della protezione umanitaria, va ricordato che la protezione umanitaria, prevista in generale dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, è un istituto di “protezione complementare”, come tale non direttamente ricompreso nel sistema della protezione internazionale, ma la cui istituzione è autorizzata dalla normativa UE – vedi, in particolare: Considerando 14, direttiva n. 95/2011/U nonchè art. 6, par. 4, della direttiva rimpatri n. 115/2008/CE in base ai quali gli Stati membri sono autorizzati a prevedere in favore dei migranti forme di protezione più favorevoli rispetto a quelle indicate nelle direttive, purchè non incompatibili con esse – che nel nostro ordinamento è stato introdotto dalla L. n. 40 del 1998 il cui contenuto è stato poi trasfuso nel predetto D.Lgs.. Il D.L. n. 113 del 2018 convertito in L. n. 132 del 2018 ne ha profondamente modificato la struttura, ma come precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte tale novella, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 con le disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge, quale quella di cui si tratta nel presente giudizio. Secondo la giurisprudenza (vedi spec. Cass., Sez. 1, n. 4455/2018), nei “gravi motivi umanitari” contemplati dal citato art. 5, comma 6, sono ricomprese la tutela della salute, l’instabilità politica e sociale nel Paese d’origine, la povertà e l’integrazione sociale.

L’inserimento sociale nel Paese, tuttavia, non è da solo sufficiente per giustificare il rilascio del permesso umanitario, essendo necessaria un’effettiva valutazione comparativa della situazione oggettiva del Paese d’origine e soggettiva del richiedente, alla luce delle peculiarità della vicenda personale. Nella specie, nella decisione di rigetto del permesso per motivi umanitari correttamente si è escluso che l’infezione da HBV potesse essere considerata – alla luce delle allegazioni del richiedente – di tale entità, per natura, gravità e durata, da impedire il rimpatrio, e che l’esistenza di un regolare rapporto di lavoro e la frequentazione di un corso di lingua italiana possano essere sufficienti per ravvisare il requisito della integrazione sul territorio dello Stato, mancando anche qualsiasi vincolo familiare.

Le argomentazioni svolte sul punto nel ricorso risultano del tutto generiche e inidonee ad impugnare le suindicate rationes decidendi poste a base della decisione di rigetto de qua, tali rationes decidendi sono pertanto divenute definitive, sicchè in nessun caso se ne può più produrre l’annullamento (vedi, al riguardo: Cass. 7 novembre 2005, n. 21490; Cass. 26 marzo 2010, n. 7375; Cass. 7 settembre 2017, n. 20910; Cass. 3 maggio 2019, n. 11706).

Di qui l’inammissibilità dell’ottavo motivo.

9. Non vi è luogo a pronunzia sulle spese, essendo il Ministero dell’Interno rimasto intimato.

Sussistono, infine, i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente stesso, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso per cassazione, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 4 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2020

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