Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12938 del 26/06/2020

Cassazione civile sez. I, 26/06/2020, (ud. 04/12/2019, dep. 26/06/2020), n.12938

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. LIBERATI Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 33104/2018 proposto da:

H.N., elettivamente domiciliato in Roma Piazza Mazzini 8,

presso lo studio dell’avvocato Salvatore Fachile, rappresentato e

difeso dall’avvocato Daniele Valeri;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’interno;

– resistente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ANCONA, depositato il 13/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

04/12/2019 dal Cons. GIOVANNI LIBERATI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Ancona ha respinto la domanda del ricorrente, H.N., nato in Bangladesh, di riconoscimento dello status di rifugiato, in subordine della protezione sussidiaria, in ulteriore subordine della protezione umanitaria, confermando le conclusioni della Commissione territoriale di Ancona di cui al provvedimento notificato al ricorrente il 6 marzo 2018.

Il Tribunale ha ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, a causa della mancata allegazione della partecipazione del ricorrente ad attività politiche, o della sua appartenenza a una minoranza etnica o religiosa oggetto di persecuzione, o della possibile esposizione a violenze, torture o altre forme di trattamento inumano.

Ha poi escluso la sussistenza dei presupposti anche della protezione sussidiaria, in considerazione della natura strettamente personale e privata della vicenda narrata dal richiedente, che aveva dichiarato di essersi allontanato dal Bangladesh per poter pagare un debito contratto dal padre, non essendovi elementi concreti per ritenere che l’incendio che aveva interessato il negozio del richiedente, oltre ad altri vicini, fosse stato appiccato dal creditore e che da questi potessero provenire minacce o pericoli, tanto che i familiari del richiedente erano rimasti a vivere in Bangladesh.

Infine, ha escluso anche la protezione umanitaria, non ravvisando una condizione di elevata vulnerabilità del ricorrente conseguente al suo rimpatrio, non essendo segnalate nel paese di origine compromissioni all’esercizio dei diritti umani, nè aspetti sintomatici di una effettiva e seria integrazione del richiedente nel tessuto socio-economico nazionale.

2. Il ricorrente chiede la cassazione del decreto del Tribunale di Ancona sulla base di sei motivi.

3. L’intimato Ministero dell’Interno non ha resistito con controricorso, ma ha depositato atto di costituzione ai fini della eventuale partecipazione all’udienza di discussione ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 1, ultimo alinea, cui non è seguita alcuna attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4. Il ricorso è articolato in sei motivi.

4.1. Con il primo motivo si lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio l’apparenza della motivazione, perchè dalla motivazione non sarebbe possibile comprendere la ratio decidendi che aveva condotto il Tribunale a respingere la propria richiesta di riconoscimento della protezione internazionale.

4.2. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, per l’omessa cooperazione istruttoria e l’omessa valutazione degli elementi offerti dal ricorrente, con violazione dell’onere di integrazione probatoria d’ufficio da parte del giudice, a causa della insufficiente verifica della credibilità e attendibilità del richiedente.

4.3. Con il terzo motivo si lamenta la violazione dell’art. 10 Cost., comma 3, in riferimento al mancato riconoscimento del diritto di asilo, indipendentemente dalla sussistenza dei presupposti per il riconoscimento delle tre forme tipizzate di protezione internazionale.

4.4. Con il quarto motivo si denuncia la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7 ss., a causa del mancato riconoscimento dello status di rifugiato, di cui vi erano i presupposti alla luce del vissuto del richiedente, per le persecuzioni subite dai creditori, persone assai influenti in Bangladesh, sfociate nell’incendio del negozio di sua proprietà.

4.5. Con un quinto motivo lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 e ss., per il mancato riconoscimento della protezione sussidiaria, non essendo stato adeguatamente considerato che sarebbe sottoposto a condotte persecutorie in caso di ritorno in Bangladesh, essendo frattanto aumentato il suo debito; si lamenta anche l’insufficiente analisi della situazione del paese di origine, in particolare del fenomeno dell’usura ivi esistente e diffuso e della corruzione delle locali forze di polizia.

4.6. Infine, con il sesto motivo lamenta la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, per il mancato riconoscimento della protezione umanitaria, avendo compiuto sforzi seri per integrarsi nel tessuto socio-economico nazionale, come si ricava dal contratto di lavoro a tempo determinato che aveva stipulato e dalla frequentazione di un corso di lingua italiana.

5. Osserva il Collegio che i motivi proposti si risolvono in generiche deduzioni di fatto volte a sollecitare un inammissibile riesame del merito della vicenda.

6. Quanto ai primi cinque motivi, relativi al diniego del diritto di asilo, dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, e alla violazione dell’obbligo di cooperazione istruttoria, il Tribunale ha motivatamente escluso, in linea con il dato normativo, la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale e del diritto di asilo.

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 2, lett. e), definisce rifugiato il cittadino straniero che, per il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trovi fuori del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole, avvalersi della protezione di tale Paese, oppure, se apolide, che si trovi fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni suindicate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno, ferme le cause di esclusione dell’art. 10. Il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. d) ed e), replica le medesime disposizioni per l’ipotesi di non appartenenza dello straniero ad un Paese membro dell’Unione Europea. Il rifugiato politico, poi, ai sensi della Convenzione di Ginevra del 29 luglio 1951, ratificata in Italia con la L. 24 luglio 1954, n. 722, ed ai sensi della direttiva 2005/85/CE, attuata con il D.Lgs. n. 25 del 2008, è colui che non può o non vuole far ritorno nel Paese in cui aveva in precedenza la dimora abituale per il fondato timore di una persecuzione personale e diretta. Pertanto, la situazione socio-politica e normativa del Paese di provenienza rileva solo se si correla alla specifica posizione del richiedente e, più nello specifico, al fondato timore di una persecuzione personale e diretta, per l’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze e stili di vita, e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure sanzionatorie a carico della sua integrità psico-fisica.

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, comma 1, identifica il danno grave nelle ipotesi: a) di condanna a morte o esecuzione della pena di morte, b) di tortura o altra forma di pena o trattamento umano o degradante ai danni del richiedente nel Paese d’origine, c) di minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto interno o internazionale secondo cui non sussistono i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato (Cass., Sez. 1, n. 11103/2019, con ampi riferimenti alla giurisprudenza Eurounitaria).

In estrema sintesi, il Tribunale ha ritenuto non fondato, per come rappresentato, il timore della persecuzione personale ed ha osservato che non era stato indicato l’agente persecutore nè erano stati esposti i motivi relativi alla mancanza di protezione nello Stato d’origine; inoltre, ha aggiunto che, sulla base delle ricerche condotte, il Bangladesh non era un paese afflitto da una violenza indiscriminata, nè da considerare inefficiente dal punto di vista della tutela giudiziaria relativamente a vicende private quale quella narrata, peraltro genericamente, dal ricorrente. Va aggiunto che le liti tra privati sono estranee al sistema di protezione internazionale, come chiarito ex plurimis da Cass., Sez. 6-1, n. 11110/2019.

Ne consegue, in definitiva, l’inammissibilità delle censure sollevate in ordine al diniego del riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiario, sia perchè formulate in modo generico e assertivo, sia perchè volte a censurare valutazioni di merito, circa l’insussistenza dei presupposti di tali forme di protezione, di cui è stata fornita illustrazione con motivazione sufficiente.

7. Quanto al sesto motivo, va ricordato che la protezione umanitaria, prevista in generale dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, è un istituto di “protezione complementare”, come tale non direttamente ricompreso nel sistema della protezione internazionale, ma la cui istituzione è autorizzata dalla normativa UE – vedi, in particolare: Considerando 14, direttiva n. 95/2011/U nonchè art. 6, par. 4, della direttiva rimpatri n. 115/2008/CE in base ai quali gli Stati membri sono autorizzati a prevedere in favore dei migranti forme di protezione più favorevoli rispetto a quelle indicate nelle direttive, purchè non incompatibili con esse – che nel nostro ordinamento è stato introdotto dalla L. n. 40 del 1998 il cui contenuto è stato poi trasfuso nel predetto D.Lgs.. Il D.L. n. 113 del 2018 convertito in L. n. 132 del 2018 ne ha profondamente modificato la struttura, ma come precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte tale novella, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 con le disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge, quale quella di cui si tratta nel presente giudizio. Secondo la giurisprudenza (vedi spec. Cass., Sez. 1, n. 4455/2018), nei “gravi motivi umanitari” contemplati dal citato art. 5, comma 6, sono ricomprese la tutela della salute, l’instabilità politica e sociale nel Paese d’origine, la povertà e l’integrazione sociale. L’inserimento sociale nel Paese, tuttavia, non è da solo sufficiente per giustificare il rilascio del permesso umanitario, essendo necessaria un’effettiva valutazione comparativa della situazione oggettiva del Paese d’origine e soggettiva del richiedente, alla luce delle peculiarità della vicenda personale.

Nella specie, nella decisione di rigetto del permesso per motivi umanitari correttamente si è escluso che l’esistenza di un regolare rapporto di lavoro e la frequentazione di un corso di lingua italiana possano essere sufficienti per ravvisare il requisito della integrazione sul territorio dello Stato, mancando anche qualsiasi vincolo familiare.

Le argomentazioni svolte sul punto nel ricorso risultano del tutto generiche e inidonee ad impugnare le suindicate rationes decidendi poste a base della decisione di rigetto de qua, tali rationes decidendi sono pertanto divenute definitive, sicchè in nessun caso se ne può più produrre l’annullamento (vedi, al riguardo: Cass. 7 novembre 2005, n. 21490; Cass. 26 marzo 2010, n. 7375; Cass. 7 settembre 2017, n. 20910; Cass. 3 maggio 2019, n. 11706).

Di qui l’inammissibilità del sesto motivo.

8. Non vi è luogo a pronunzia sulle spese, essendo il Ministero dell’Interno rimasto intimato.

Sussistono, infine, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente stesso, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, ove dovuto.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 4 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2020

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