Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12936 del 13/06/2011

Cassazione civile sez. I, 13/06/2011, (ud. 26/01/2011, dep. 13/06/2011), n.12936

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – rel. Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

B.G., elettivamente domiciliato in Roma, via Timavo 3,

presso l’avv. Paolo Romano (studio avv. Mauro Livi), rappresentato e

difeso dall’avv. Cerabino Michele, del Foro di Bari, per procura in

atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende per legge;

– controricorrente –

avverso il decreto della Corte d’appello di Lecce in data 18 luglio

2007, nella causa iscritta al n. 183/2006 V.G.;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

26 gennaio 2011 dal relatore, cons. Dott. Stefano Schirò;

udito, per il ricorrente, l’avv. Michele Cerabino, che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

alla presenza del Pubblico ministero, in persona del sostituto

procuratore generale, dott. PATRONE Ignazio, che nulla ha osservato.

Fatto

FATTO E DIRITTO

LA CORTE:

A) rilevato che è stata depositata in cancelleria, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., la seguente relazione comunicata al Pubblico Ministero e notificata ai difensori delle parti:

“IL CONSIGLIERE RELATORE, letti gli atti depositati;

RITENUTO CHE:

1. B.G. ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di due motivi, avverso il decreto in data 18 luglio 2007 con il quale la Corte di appello di Lecce ha rigettato la domanda dal medesimo proposta per conseguire l’equo indennizzo L. n. 89 del 2001, ex art. 2 in conseguenza del superamento del termine di ragionevole durata di una procedura fallimentare promossa su sua istanza e ancora pendente alla data del 3 aprile 2007, dopo che con istanza del 5 giugno 1990 lo stesso B. aveva chiesto di essere ammesso al passivo fallimentare;

1.1. il Ministro della Giustizia intimato ha resistito con controricorso;

OSSERVA:

2. la Corte d’appello di Lecce ha rigettato la domanda, da un lato affermando che il tempo trascorso non poteva imputarsi ad inerzia del sistema giudiziario, perchè, nell’ambito della procedura fallimentare, era sicuramente più conveniente tentare di realizzare il maggior attivo possibile per fronteggiare le richieste dei creditori, piuttosto che chiudere la procedura stessa per carenza di attivo e, sotto altro profilo, rilevando che il danno richiesto dal B. in relazione alla cessazione dell’attività commerciale da lui intrapresa e alla lesione dell’immagine non aveva alcun collegamento causale con la durata della procedura, in quanto l’attività del B. era cessata a distanza di soli cinque anni dalla dichiarazione di fallimento e non poteva quindi dipendere dalla mancata riscossione di un credito esiguo, pari a L. 2.101.280, quale quello per il quale il B. stesso era stato ammesso al passivo;

3. con il primo motivo il ricorrente si duole che la Corte d’appello abbia ritenuto ragionevole la durata della procedura fallimentare, in quanto la stessa sarebbe stata condizionata dalla procedura esecutiva immobiliare portata avanti dalla curatela fallimentare, senza però estendere il suo sindacato anche sulla durata di detta procedura esecutiva e senza tener conto che nella specie la procedura fallimentare non poteva considerarsi complessa;

– con il secondo motivo il ricorrente si duole che la Corte di merito abbia escluso il danno non patrimoniale, senza considerare che nel caso di specie non erano ravvisabili situazioni concrete che potessero indurre ad escludere l’ansia ed il malessere correlati alla pendenza del procedimento;

4. i due motivi di ricorso appaiono manifestamente fondati; quanto al primo, infatti, ai fini dell’accertamento della violazione del termine ragionevole, si deve far riferimento ai criteri cronologici elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, le cui sentenze in ordine all’interpretazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo costituiscono per il giudice italiano la prima e più importante guida ermeneutica, consentendo la corretta applicazione di un criterio, quale quello della ragionevolezza, che ha insiti in sè indubbi margini di elasticità (Cass. 2005/1094);

in particolare, in tema di equa riparazione per irragionevole durata di una procedura fallimentare, non essendo possibile predeterminare astrattamente la ragionevole durata del fallimento, il giudizio in ordine alla violazione del relativo termine richiede un adattamento dei criteri previsti dalla L. 24 marzo 2001, n. 89, e quindi un esame delle singole fasi e dei subprocedimenti in cui la procedura si è in concreto articolata, onde appurare se le corrispondenti attività siano state svolte senza inutili dilazioni o abbiano registrato periodi di stallo non determinati da esigenze ben specifiche e concrete, finalizzate al miglior soddisfacimento dei creditori concorsuali; a tal fine, occorre tener conto innanzitutto del numero dei soggetti falliti, della quantità dei creditori concorsuali, delle questioni indotte dalla verifica dei crediti, delle controversie giudiziarie innestatesi nel fallimento, dell’entità del patrimonio da liquidare e della consistenza delle operazioni di riparto (Cass. 2008/8497); considerato quanto precede e tenuto conto che dai parametri cronologici elaborati dalla Corte europea è comunque possibile discostarsi soltanto in misura, a sua volta, ragionevole e sempre che la relativa decisione sia confortata da argomentazioni complete, logicamente coerenti e congrue (Cass. 2005/18686; 2006/9411), non può ritenersi conforme ai richiamati parametri della Corte europea, dai quali anzi si discosta in misura rilevante e secondo criteri di irragionevolezza, la decisione assunta nel caso di specie dalla Corte territoriale, la quale – senza provvedere a determinare con precisione quale fosse la durata ragionevole del processo in questione, costituente elemento imprescindibile, logicamente e giuridicamente preliminare, per il corretto accertamento della sussistenza del danno e per l’eventuale liquidazione dell’indennizzo (Cass. 2005/17999) – ha ritenuto che la procedura fallimentare in questione, per quanto riguarda la posizione del ricorrente, non si sia protratta oltre il termine ragionevole, atteso che il periodo trascorso dalla domanda di insinuazione al passivo (1990) fino all’udienza del 3 aprile 2007, si era reso necessario per realizzare il maggior attivo possibile e fronteggiare in tal modo le richieste dei creditori;

4.1. quanto al secondo motivo, deve ritenersi che il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorchè non automatica, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di modo che va ritenuto sussistente, senza bisogno di specifica prova (diretta o presuntiva), in ragione dell’obiettivo riscontro di detta violazione, sempre che non ricorrano circostanze particolari che ne evidenzino l’assenza nel caso concreto (Cass. S. U. 2004/1338); tali circostanze particolari non appaiono essere state evidenziate dalla Corte territoriale, che ha fatto non decisivo riferimento soltanto alla inesistenza della lesione all’immagine e alla cessazione dell’attività commerciale del B., intervenuta solo dopo pochi anni dalla dichiarazione di fallimento, nonchè alla esiguità del credito ammesso al passivo;

5. alla stregua delle considerazioni che precedono e qualora il collegio condivida i rilievi formulati, si ritiene che il ricorso possa essere trattato in camera di consiglio ai sensi degli artt. 375 e 380 bis c.p.c.”;

B) osservato che il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. e che, a seguito della discussione sul ricorso tenuta nella camera di consiglio, il collegio ha condiviso le argomentazioni esposte nella relazione;

1. ritenuto che pertanto, in base alle considerazioni che precedono, il ricorso merita accoglimento con conseguente annullamento del decreto impugnato; che, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2; che in particolare, determinata in diciassette anni la durata complessiva della procedura fallimentare di cui trattasi, a decorrere dal 5 giugno 1990, data di deposito dell’istanza con la quale il B. ha chiesto di essere ammesso al passivo fallimentare, fino al 3 aprile 2007, data dell’udienza fissata per il piano di riparto, e stabilito in sette anni il periodo di durata ragionevole della procedura fallimentare, secondo il criterio determinato dalla giurisprudenza di questa Corte allorquando il procedimento fallimentare si presenti particolarmente complesso (Cass. 2009/20549; 2009/22206; 2010/13041) – ipotesi questa che è ravvisabile nel caso di specie, in relazione all’esigenza di definire una procedura esecutiva immobiliare nella quale si era inserita la curatela fallimentare per tentare di recuperare almeno l’attivo derivante dalla vendita del bene e di realizzare il maggiore importo possibile per far fronte alle richieste dei creditori -, il periodo eccedente il termine ragionevole di durata del giudizio deve essere determinato in dieci anni;

2. che il parametro per indennizzare la parte del danno non patrimoniale subito in detto giudizio va individuato nell’importo non inferiore ad Euro 750,00 per anno di ritardo, alla stregua degli argomenti svolti nella sentenza di questa Corte n. 16086 del 2009;

secondo tale pronuncia, in tema di equa riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo e in base alla giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo (sentenze 29 marzo 2006, sui ricorsi n. 63261 del 2000 e nn. 64890 e 64705 del 2001), gli importi concessi dal giudice nazionale a titolo di risarcimento danni possono essere anche inferiori a quelli da essa liquidati, a condizione che le decisioni pertinenti siano coerenti con la tradizione giuridica e con il tenore di vita del paese interessato, e purchè detti importi non risultino irragionevoli, reputandosi, peraltro, non irragionevole una soglia pari al 45 per cento del risarcimento che la Corte avrebbe attribuito, con la conseguenza che, stante l’esigenza di offrire un’interpretazione della L. 24 marzo 2001, n. 89 idonea a garantire che la diversità di calcolo non incida negativamente sulla complessiva attitudine ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, evitando il possibile profilarsi di un contrasto della medesima con l’art. 6 della CEDU (come interpretata dalla Corte di Strasburgo), la quantificazione del danno non patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a Euro 750,00 per ogni anno di ritardo eccedente il termine di ragionevole durata;

tali principi vanno confermati in questa sede, con la precisazione che il suddetto parametro va osservato in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, dovendo invece aversi riguardo per quelli successivi, al parametro di Euro 1.000,00 per anno di ritardo, tenuto conto che l’irragionevole durata eccedente tale periodo comporta un evidente aggravamento del danno (Cass. 2009/16086;

2010/819); nel caso di specie si deve, di conseguenza, riconoscere al ricorrente, in relazione ad una durata non ragionevole di dieci anni, l’indennizzo di Euro 9.250,00, oltre agli interessi legali dalla domanda al saldo, al cui pagamento deve essere condannato il Ministero soccombente;

ritenuto che le spese del giudizio di merito e quelle del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo, in base alle tariffe professionali previste dall’ordinamento italiano con riferimento al giudizio di natura contenziosa (Cass. 2008/23397; 2008/25352).

PQM

LA CORTE accoglie il ricorso. Cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della Giustizia al pagamento in favore di B.G. della somma di Euro 9.250,oltre agli interessi legali a decorrere dalla domanda.

Condanna inoltre il Ministero della Giustizia al pagamento in favore del ricorrente delle spese del giudizio di merito, che si liquidano in Euro 1.140,00, di cui Euro 600,00 per competenze ed Euro 50,00 per esborsi, oltre a spese generali e accessori di legge, nonchè di quelle del giudizio di cassazione, che si liquidano in Euro 965,00 di cui Euro 865,00 per onorari, oltre a spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 26 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2011

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