Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12931 del 26/06/2020

Cassazione civile sez. III, 26/06/2020, (ud. 12/02/2020, dep. 26/06/2020), n.12931

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17882-2016 proposto da:

C.E., B.R., in proprio e quali esercenti la

potestà genitoriale sulla minore B.S., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA TUSCOLANA 9, presso lo studio dell’avvocato

ROSELLINA RICCI, rappresentati e difesi dall’avvocato EMILIO FESTA;

– ricorrenti –

contro

AZIENDA SANITARIA LOCALE DI VITERBO, in persona del suo legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

MONTE ZEBIO 28, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE CILIBERTI,

che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4038/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 06/07/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/02/2020 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

B.R. ed C.E., in proprio e quali titolari della responsabilità genitoriale nei confronti di B.S., ricorrono per la cassazione della sentenza n. 4038/2015 della Corte d’Appello di Roma, articolando due motivi, corredati di memoria.

Resiste con controricorso l’Azienda Sanitaria Locale di Viterbo.

I ricorrenti espongono in fatto di avere agito in giudizio nei confronti dell’Azienda ospedaliera di Viterbo, datrice di lavoro di T.C., dirigente dell’U.O. di Ostetricia e Ginecologia dell’Ospedale di (OMISSIS), per ottenerne la condanna al risarcimento di tutti i danni subiti e subendi in relazione alle gravi malformazioni da cui, al momento della nascita, era risultata affetta la figlia S., loro secondogenita: malformazioni non rilevate in occasione delle varie indagini chimico-cliniche e del triplo test per lo screening intrauterino precoce della sindrome di Down e dei difetti del tubo neurale, delle sette visite specialistiche e dei cinque esami ecografici eseguiti per valutare l’andamento della gravidanza e lo sviluppo del feto.

Il Tribunale di Viterbo, con sentenza n. 54/2009, rigettava le richieste risarcitorie, ritenendo di non poter ravvisare, sulla scorta delle risultanze della CTU medico-legale, alcuna responsabilità a carico di T.C..

Gli odierni ricorrenti impugnavano la decisione, ritenendone erronee le conclusioni, e instavano per la rinnovazione della CTU che aveva escluso l’esistenza di danni psico-fisici a carico di C.E..

La Asl chiedeva la conferma della sentenza di prime cure.

Con la sentenza qui impugnata, la Corte d’Appello di Roma rigettava il gravame, perchè escludeva che T.C., nell’attività di monitoraggio dello sviluppo del feto, avesse tenuto una condotta negligente e/o imprudente, considerando che la gravidanza rientrava, come era emerso dalla CTU espletata in primo grado, tra quelle a basso rischio, per le quali la prassi medica consolidata prescriveva di monitorare lo sviluppo fetale con almeno tre esami ecografici e atteso che anche un’eventuale diagnosi in utero, utilizzando il programma ed i metodi di monitoraggio applicati in tale tipo di gravidanza, non sarebbe stata praticabile nei primi novanta giorni di gravidanza e, ove eseguita successivamente, solo in casi eccezionali, sarebbe stata in grado di rilevare le patologie riscontrate in B.S.; negava, di conseguenza, ogni responsabilità del ginecologo per la lesione del diritto alla procreazione cosciente e responsabile e di quello di esercitare la facoltà di interrompere la gravidanza a carico degli odierni ricorrenti.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo i ricorrenti deducono “palese travisamento e/o omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., n. 5.

La tesi prospettata è che, non essendo contestata la esplicitazione da parte della gestante della volontà di porre termine alla gravidanza nel caso fossero state riscontrate malformazioni fetali, la Corte d’Appello avrebbe dovuto valutare l’incidenza che la conoscenza della esistenza di tali malformazioni avrebbe avuto sulla probabilità di cagionare un grave danno psichico alla madre tale da consentirle di interrompere la gravidanza anche successivamente al novantesimo giorno, soprattutto alla luce della CTP che aveva riconosciuto in capo ad C.E. una sindrome depressiva di media gravità conseguente alla nascita della piccola S., integrante pienamente il grave pericolo per la salute della donna che legittimava il ricorso, da parte sua, all’interruzione di gravidanza.

Per di più, il Giudice che, di norma, non è tenuto a giustificare diffusamente le ragioni che inducono a prestare adesione alle conclusioni della CTU, nel caso di specie, non avrebbe dovuto sottrarsi all’onere di una più puntuale motivazione, essendo state mosse alla CTU critiche specifiche e circostanziate.

2. Con il secondo motivo i ricorrenti censurano la sentenza gravata per “violazione degli artt. 2 e 13 Cost. nonchè degli artt. 1228 e 2236 c.c.”.

Oggetto di critica è la statuizione con cui il giudice a quo ha escluso che il ginecologo avesse violato l’obbligo di informare la paziente degli esami diagnostici effettuabili per conoscere preventivamente le patologie fetali che si pone a monte dell’esecuzione della prestazione medica ulteriore consistente nella verifica degli esiti di esami già effettuati.

La Corte territoriale avrebbe deciso in contraddizione con la giurisprudenza di questa Corte regolatrice, per la quale il sanitario che formula una diagnosi di normalità morfologica del feto anche sulla base di esami strumentali che non ne hanno consentito, senza sua colpa, la visualizzazione nella sua interezza, ha l’obbligo di informare la paziente della possibilità di ricorrere ad un centro di più elevata specializzazione, in vista dell’esercizio del diritto della gestante di interrompere la gravidanza, ricorrendone i presupposti.

3. In primo luogo, si ricorda che dovrebbe essere possibile disporre di una conoscenza del fatto sostanziale e processuale sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo, evincendola solo dal contesto del ricorso, essendo questa Corte regolatrice esonerata dall’obbligo di attingere le informazioni mancanti aliunde, attraverso la lettura degli atti processuali, dei documenti, della sentenza. Nel ricorso per cui è causa, la sintesi funzionale (Cass., Sez. Un., 11/04/2012, n. 5698) e l'”attività di narrazione” (Cass. Sez. Un., 17/07/2009, n. 16628) del contenuto degli atti dei giudizi di merito con fatica raggiungono lo standard della sommarietà e della sufficiente evidenziazione dei fatti sostanziali, vale a dire dei fatti su cui si fondano le pretese delle parti, e di quelli processuali, ossia la sintesi dello svolgimento dei gradi di merito (Cass. 12/11/2014, n. 24163), che metta la Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, nella condizione di effettuare una valutazione giuridica diversa da quella asseritamente erronea, compiuta dal giudice di merito (Cass. 31/07/2017, n. 18949; Cass. 03/02/2015, n. 1926).

4. Le quaestiones iuris poste dalla vicenda per cui è causa sono le seguenti:

a) la condotta inadempiente omissiva del medico rilevante sotto un duplice profilo: quello relativo all’esame eseguito e quello relativo alla omessa informazione circa la ricorrenza di malformazioni fetali;

b) l’avvenuta lesione di una o più posizioni giuridiche soggettive tutelate dall’ordinamento;

c) i danni conseguenti alla suddetta lesione.

Premesso che non è in discussione la ricorrenza della volontà abortiva della gestante, in presenza delle condizioni di legge, la questione di cui alla lett. a), risente della tecnica argomentativa utilizzata dai ricorrenti, la quale non permette di distinguere compiutamente quali argomenti siano ascrivibili al necessario sostegno del secondo motivo e quanto risulti introdotto a supporto del primo mezzo impugnatorio, giacchè le prospettazioni sono frammentatata mente formulate.

5. Ad ogni modo occorre partire dal fatto che Corte d’Appello ha negato che T.C. abbia tenuto un comportamento inadempiente con la seguente motivazione: “i consulenti tecnici d’ufficio hanno precisato come la gravidanza di C.E. rientrasse tra quelle c.d. a basso rischio, per le quali non vi sono elementi che indicano il sospetto di un aumento del rischio di insorgenza di problemi specifici e come in presenza di tale tipo di gravidanze la prassi consolidata in Italia sia quella di monitorare lo sviluppo del feto con tre esami ecografici”, T.C., adeguandosi alla prassi medica consolidata, correttamente inquadrò la gravidanza tra quelle a basso rischio e non reputò di programmare uno screening del feto che fosse rivolto in modo specifico alla diagnosi di determinate patologie. In aggiunta, la diagnosi in utero non era praticabile nei primi novanta giorni di gravidanza e nel periodo successivo essa si sarebbe rilevata estremamente difficoltosa e le specifiche patologie da cui era risultata affetta B.S. non sarebbero state diagnosticabili se non in ipotesi eccezionali, pur riconoscendo che per certi profili gli esami effettuati apparissero carenti, soprattutto nelle misurazioni e nei commenti.

6. Dal punto di vista logico, lo scrutinio del secondo motivo volto ad attingere proprio la conclusione riportata deve avere la precedenza, perchè solo ove risulti provato l’inadempimento a carico del sanitario dotrebbe prendersi in considerazione la eventuale lesione del diritto all’interruzione della gravidanza e di quello alla procreazione cosciente e responsabile lamentate dai ricorrenti, – come, peraltro, chiarisce la sentenza gravata.

7. In soccorso viene la decisione a Sezioni Unite di questa Corte, n. 25767 del 22/12/2015 e, in particolare, ai fini per cui è causa, sono determinanti le seguenti statuizioni:

– l’impossibilità della scelta di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza, pur nel concorso delle condizioni di cui all’art. 6, imputabile a negligente carenza informativa da parte del medico curante, è fonte di responsabilità civile;

– la gestante, profana della scienza medica, si affida, di regola, ad un professionista, sul quale grave l’obbligo di rispondere in modo tecnicamente adeguato alle sue richieste; senza limitarsi a seguire le direttive della paziente, che abbia espresso, in ipotesi, l’intenzione di sottoporsi ad un esame da lei stessa prescelto, ma tecnicamente inadeguato a consentire una diagnosi affidabile sulla salute del feto;

– l’interruzione volontaria della gravidanza da parte di chi lamenti di non aver potuto ricorrervi per fatto altrui implica che essa sia legalmente consentita e dunque che sussistano, e siano accertabili mediante appropriati esami clinici, le rilevanti anomalie del nascituro e il loro nesso eziologico con un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna – giacchè, senza il concorso di tali presupposti, l’aborto integrerebbe un reato; con la conseguente esclusione della stessa antigiuridicità del danno, dovuto non più a colpa professionale, bensì a precetto imperativo di legge;

– l’onere della prova è a carico della donna, la quale può assolverlo in via presuntiva; tale onere riguarda non solo la diagnosticabilità delle malformazioni fetali, l’omessa informazione, i presupposti legittimanti l’interruzione della gravidanza, ma, esclusa la configurabilità di un danno in re ipsa, anche quello relativo al fatto che la situazione di pericolo per la sua salute fisica o psichica, L. n. 194 del 1978, ex art. 6, lett. b), (danno potenziale), si sia poi tradotto in danno effettivo, eventualmente verificabile anche mediante consulenza tecnica d’ufficio, e quello dell’identificazione dell’eventuale pregiudizio, legato da vincolo causale immediato e diretto, al fatto colposo dei sanitari (artt. 1223 e 2056 c.c.).

Occorre partire dalla premessa che il medico cui la gestante, profana dell’arte medica, si rivolge è tenuto ad eseguire un accertamento diagnostico non quale che sia, ma solo quello risultante doppiamente funzionale alla diagnosi di malformazioni fetali e all’esercizio del diritto di aborto terapeutico (Cass. 02/10/2012, n. 16754).

Le ecografie effettuate da T.C., pur essendo state correttamente e tempestivamente eseguite secondo le linee guida, non erano state in grado di fornire una diagnosi certa, perchè rilevarono la normalità della colonna vertebrale e la presenza di entrambi i reni; invece, B.S. nacque anche priva di un rene e con multiple malformazioni vertebrali.

Dell’incertezza diagnostica dei test eseguiti il ginecologo doveva essere ben consapevole, ma, secondo quanto è possibile intuire, tenendo conto dei limiti della tecnica espositiva utilizzata, verosimilmente, non avendo ragione di sospettare uno sviluppo anomalo del feto, perchè la gravidanza non rientrava nella casistica di quelle considerate rischiose, non eseguì ulteriori accertamenti, non prospettò affatto alla gestante nè i limiti intrinseci degli esami cui fu sottoposta nè le suggerì di eseguire un eventuale accertamento più approfondito o le rappresentò l’impossibilità o la pericolosità di altre metodiche di indagine diagnostica, tantomeno la indirizzò presso un’altra struttura per sottoporsi ad accertamenti che superassero i limiti diagnostici degli esami espletati.

Ora, secondo la giurisprudenza di questa Corte, posto che la buona pratica clinica in questo ambito si è sviluppata in direzione di modalità, anche relazionali, molto più articolate rispetto a quelle del comune esame laboratoristico, tanto da rendere necessario il compimento di una vera e propria consulenza genetica, una volta provata dalla gestante la richiesta della diagnosi di malformazioni funzionale all’esercizio del diritto di interruzione della gravidanza in caso di esito positivo, era onere del medico “provvedere ad una completa informazione circa le possibilità (tutte le possibilità) di indagini diagnostiche, più o meno invasive, più o meno rischiose, e circa le percentuali di false negatività offerte dal test prescelto (test in ipotesi da suggerire, ma non certo da eseguire sic et simpliciter, in guisa di scelta sostitutiva e di assunzione del rischio parimenti sostitutivo), onde consentire alla gestante una decisione il più aderente possibile alla realtà della sua gestazione”; di conseguenza, “una responsabilità del medico predicabile non soltanto per la circostanza dell’omessa diagnosi in sè considerata (ciò che caratterizzerebbe il risarcimento per un inammissibile profilo sanzionatorio/punitivo, in patente contrasto con la funzione propria della responsabilità civile), ma per la violazione del diritto di autodeterminazione della donna nella prospettiva dell’insorgere, sul piano della causalità ipotetica, di una malattia fisica o psichica” (in termini Cass. 02/10/2012, n. 16754).

Nel caso di specie, deve, tuttavia, rilevarsi che la decisione della Corte territoriale ha fatto leva – non è chiaro se per confutare una censura formulata dagli appellanti – anche sulla diagnosticabilità del tutto eccezionale delle malformazioni riscontrate alla nascita pur con l’esecuzione di altri esami diagnostici in utero, anche se eseguiti dopo il primo trimestre di gravidanza; durante i primi novanta giorni la sentenza impugnata, basandosi sulle conclusioni della CTU, escluse che fossero eseguibili.

Tale motivazione non risulta scalfita dalle censure di parte ricorrente, le quali non aggrediscono intrinsecamente la portata di un tale accertamento, neppure evidenziando di aver criticato, nel corso del giudizio di merito, gli esiti della CTU.

E’ vero che i ricorrenti asseriscono a p. 17 che il personale della ASL eseguì cinque esami ecografici consecutivi pervenendo alle stesse conclusioni, adombrando la ricorrenza di un’erronea lettura dei dati diagnostici, sulla scorta di un passaggio della CTU, da cui emergeva che di alcune patologie era possibile avvedersi almeno a partire dalla ventunesima settimana (pp. 10-11), ma poi contraddittoriamente, a p. 19, citano taluni precedenti di questa Corte, secondo cui quando il sanitario formula una diagnosi di normalità morfologica del feto anche sulla base di esami strumentali che non ne hanno consentito “senza sua colpa” la visualizzazione nella sua interezza, ha l’obbligo di informare la paziente della possibilità di ricorrere ad un centro di più elevata specializzazione, in vista del diritto della gestante di interrompere la gravidanza, ricorrendone i presupposti.

Anche a prescindere da fatto che l’obbligo di indirizzare la gestante presso un centro specializzato, come questa Corte ha precisato (Cass. 08/03/2016, n. 4540), ricorre solo “in uno con l’inadempimento, da parte della struttura sanitaria, dell’obbligo di adeguatezza organizzativa in rapporto all’assunzione della prestazione di spedalità in favore del paziente nonostante il deficit organizzativo” – circostanza quest’ultima mai dedotta in giudizio – la censura dei ricorrenti, non si misura affatto con la ratio decidendi della sentenza impugnata e risulta contraddittoria e generica. Non viene mai chiarito quali rimproveri siano specificamente mossi al ginecologo: se quello di non avere correttamente interpretato le risultanze diagnostiche e/o quello non avere eseguito altri accertamenti, ed in ipotesi quali e con quali finalità esplorative, se quello di essersi attenuto alle linee guida nonostante le specificità del caso concreto dovessero indurlo a discostarsene, se quello di avere rassicurato la gestante sulla normalità dello sviluppo fetale, pur dovendo sapere che le ecografie non offrivano certezza a tal riguardo, se quello di avere taciuto che altri esami – per quanto più invasivi e pericolosi e per questo ad esempio sconsigliati in una gravidanza a basso rischio come quella per cui è causa, eventualmente da eseguire solo presso altre strutture dotate di apparecchiature più sofisticate – avrebbero potuto rilevare le malformazioni (cfr. Cass. 10/01/2017 n. 243; Cass. 19/07/2018 n. 19151, che ha riconosciuto il diritto della madre di ottenere dal sanitario il risarcimento del danno psichico derivatole dalla nascita di un bambino gravemente malato, perchè era emerso che aveva chiesto più e più volte di effettuare test clinici sul nascituro, ma che il ginecologo si era opposto, sconsigliando ogni pratica invasiva sul feto).

Le parti della CTU riportate a p. 10-11 del ricorso consentono di evincere che le malformazioni erano presenti sin dai primi mesi di gestazione, ma non anche che fossero diagnosticabili. Nessuna censura in tal senso risulta formulata dai ricorrenti, i quali, peraltro, deducendo la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “anche” per non avere il giudice a quo, a fronte di specifiche e circostanziate censure mosse alla CTU, adeguatamente motivato la sua decisione sono incorsi in plurime ragioni di inammissibilità:

a) non hanno soddisfatto il principio di autosufficienza che avrebbe richiesto: 1) l’allegazione delle critiche alla consulenza stessa già dinanzi al giudice a quo e la trascrizione almeno dei punti salienti, onde consentirne la valutazione in termini di decisività e di rilevanza, “atteso che, diversamente, una mera disamina dei vari passaggi dell’elaborato peritale, corredata da notazioni critiche, si risolverebbe nella prospettazione di un sindacato di merito inammissibile in sede di legittimità”, Cass. 03/6/2016, n. 11482; 2) l’evidenziazione della palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica in cui il consulente sarebbe incorso, indicando il fondamento scientifico della propria affermazione (cfr. Cass. 05/08/2005, n. 17324); 3) l’indicazione degli eventuali accertamenti strumentali omessi che avrebbero invece dovuto considerarsi imprescindibili per una corretta diagnosi, anche in questo caso provvedendo ad indicare il fondamento scientifico della propria prospettazione (in senso analogo, cfr. Cass. 18/09/2015, n. 18307);

b) hanno violato l’art. 348 ter, commi 4 e 5 – applicabile alle sentenze pubblicate dopo le 11 settembre 2012: quella impugnata è stata depositata il 6 luglio 2015 – secondo cui quando la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto poste a base della decisione impegnata, non può essere dedotto il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. 23/06/2017, n. 15647).

I ricorrenti, dopo aver sollevato generici dubbi sul corretto operato del ginecologo, sembrano sintetizzare la loro denuncia con la seguente asserzione “il sanitario aveva l’obbligo di informare il paziente circa i possibili accertamenti diagnostici utili o necessari in una determinata situazione e circa i rischi ed i vantaggi a ciascuno connessi e che avrebbe dovuto dare la prova di avere adempiuto a tale suo obbligo, restando a suo carico, in caso contrario, la responsabilità per lesione del diritto del paziente all’autodeterminazione in merito alle scelte terapeutiche”.

L’affermazione riportata trova smentita nella decisione della Corte territoriale e comunque è errata alla luce della giurisprudenza di questa Corte, la quale esclude che l’ipotetica violazione dell’obbligo di informazione sia sanzionabile risarcitoriamente, se non in chiave punitiva, ove non si dimostri la lesione del diritto di autodeterminazione della donna nella prospettiva dell’insorgere, sul piano della causalità, di una sua malattia provocata dal non avere potuto interrompere la gravidanza.

Anche di recente questa Corte ha ribadito che se la soddisfazione di un interesse è affidata alla prestazione che forma oggetto dell’obbligazione vuol dire che la lesione dell’interesse, in cui si concretizza il danno evento, è cagionata dall’inadempimento; se l’interesse, invece, corrispondente alla prestazione è solo strumentale all’interesse primario del creditore, allora la violazione delle regole di diligenza professionale non ha un’intrinseca attitudine causale alla produzione del danno evento, perciò il creditore non soddisfa il proprio onere probatorio adducendo l’inadempimento ma ha l’onere di dimostrare, anche per mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra la condotta del sanitario e la lesione del proprio interesse primario (Cass. 11/11/2019, nn. 28991-28992), qui rappresentato dalla impossibilità di determinarsi in ordine alla gestione della propria gravidanza e/o l’insorgenza di un danno alla propria salute.

Posto che è emerso e non è stato confutato che quand’anche il ginecologo avesse reso edotta della limitatezza diagnostica delle ecografie eseguite la gestante, quest’ultima non avrebbe potuto ottenere informazioni sullo stato di sviluppo del feto altrimenti, deve ritenersi escluso che abbia subito la lesione del proprio diritto di autodeterminarsi in merito alla prosecuzione della gravidanza; giacchè per interromperla occorreva che l’interruzione fosse legalmente consentita – e dunque, con riferimento al caso in esame, che sussistessero, e fossero accertabili mediante appropriati esami clinici, le rilevanti anomalie del nascituro e il loro nesso eziologico con un pericolo per la salute fisica o psichica della donna – “giacchè, senza il concorso di tali presupposti, l’aborto integrerebbe un reato; con la conseguente esclusione della stessa antigiuridicità del danno, dovuto non più a colpa professionale, bensì a precetto imperativo di legge” (Cass. n. 25767/2015, cit.).

8. Gli altri argomenti contenuti solo nel primo motivo di ricorso, ove, peraltro, si invoca l’applicazione di principi giurisprudenziali superati dalla pronuncia a sezioni unite n. 25767/2015 citata, sono assorbiti dall’esclusione della responsabilità in capo al ginecologo circa l’omessa rilevazione delle malformazioni fetali e l’omessa informazione relativa alla loro ricorrenza.

6. Ne consegue che il ricorso per cassazione deve essere rigettato.

7. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 3.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Terza Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 12 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2020

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