Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12930 del 23/05/2017


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Cassazione civile, sez. I, 23/05/2017, (ud. 22/03/2017, dep.23/05/2017),  n. 12930

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22725/2011 proposto da:

Okto S.r.l. (c.f./p.i. (OMISSIS)), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Viale

G. Mazzini n.113, presso l’avvocato Grasso Rosa Alba, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato Pertegato Stefania,

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Fallimento Impretecno S.r.l. in Liquidazione;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di VICENZA, depositato il

19/07/2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

22/03/2017 dal cons. FRANCESCO TERRUSI.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Rilevato che:

Il tribunale di Vicenza, con decreto in data 19-7-2011, ha respinto l’opposizione proposta da Okto s.r.l. avvero lo stato passivo del fallimento di Impretecno s.r.l., in relazione a un credito conseguente alla risoluzione di diritto di un contratto di appalto;

la pretesa era stata avanzata in relazione agli acconti versati (per Euro 525.804,00), al risarcimento dei maggiori costi per il completamento delle opere appaltate, al risarcimento dei danni correlati alla necessità di eliminare i vizi e i difetti costruttivi, al pagamento delle penali per il ritardo;

il tribunale ha ritenuto che il contratto non fosse stato risolto per effetto della raccomandata inviata alla fallita il 28-12-2006, non essendo stata prevista una clausola risolutiva espressa; che i danni da inadempimento della fallita (pacifico), commisurati ai maggiori costi di completamento delle opere appaltate, erano stati quantificati in Euro 38.834,02, sulla base di una c.t.u. e senza specifiche contestazioni; che la penale non poteva spettare poichè non richiesta in epoca anteriore al fallimento; che la prova dei lamentati vizi e dei difetti non era stata fornita, stante l’inutilizzabilità del materiale istruttorio formatosi nella causa alla quale il fallimento non aveva preso parte;

il tribunale ha infine operato la compensazione con un controcredito del fallimento per la restituzione di acconti versati per Euro 72.600,00 – la cui dazione dal ricorso si apprende esser derivata da un preliminare di compravendita, dal quale il curatore si era poi sciolto e ha rigettato la domanda;

la società Okto ricorre per cassazione sulla base di tre motivi;

il fallimento non ha svolto difese.

Considerato che:

col primo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1454 cod. civ. e art. 72 legge fall., oltre che il vizio di motivazione, la risoluzione su diffida non essendo di per sè legata a una clausola risolutiva espressa che ne preveda la possibilità;

il motivo è fondato;

la diffida ad adempiere, prevista dall’art. 1454 cod. civ., è un atto unilaterale recettizio che produce effetti indipendentemente dalla volontà dell’intimato di accettarla o meno;

contrariamente a quanto sembra ritenere il tribunale di Vicenza, essa costituisce un mezzo concesso dalla legge al contraente adempiente per conseguire, nei confronti di quello inadempiente, il vantaggio della risoluzione de iure del contratto che giustappunto non contenga la clausola risolutiva espressa, e sempre che l’intimato non esegua la sua prestazione nel congruo termine che gli deve essere prefissato (il quale, in difetto di diverso termine convenzionale, non può essere inferiore a quindici giorni) (v. Cass. n. 2517-63, Cass. n. 953-73, per arrivare, in termini consolidati, a Cass. n. 15070-16);

col secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 72 della legge fall. e il vizio di motivazione in ordine al disconoscimento del credito derivante dalla clausola penale, che, secondo il tribunale, avrebbe dovuto essere reclamato in epoca anteriore al fallimento; invero la ricorrente assume di avere in effetti azionato la clausola con un ricorso ex art. 700 cod. proc. civ.;

il motivo è fondato per l’assorbente ragione che la domanda di insinuazione di un credito derivante da una clausola penale contenuta in una scrittura privata non impone affatto che la clausola sia previamente azionata nei confronti del debitore in bonis;

il creditore può avanzare direttamente nella sede di insinuazione al passivo fallimentare la domanda afferente il credito risarcitorio;

il profilo rilevante, evidentemente non colto dal tribunale, è tutt’altro ed è che la clausola penale mira a determinare preventivamente il risarcimento dei danni soltanto in relazione all’ ipotesi pattuita, che può consistere nel ritardo o nell’inadempimento; per cui, ove sia stata stipulata per il semplice ritardo e si sia verificato l’inadempimento, essa non è operante nei confronti di questo secondo evento (v. Cass. n. 5828-84, Cass. n. 23706-09; Cass. n. 23291-14);

il tribunale avrebbe quindi dovuto accertare quale fosse la specifica ipotesi assoggettata a clausola penale senza cedere ad argomentazioni pregiudiziali inconferenti;

col terzo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 698 cod. proc. civ. per avere il tribunale erroneamente ritenuto non utilizzabile, a fini probatori, il materiale istruttorio formatosi nel procedimento di accertamento tecnico preventivo richiesto dalla committente e svoltosi in contraddittorio con l’appaltatrice;

anche il terzo motivo è fondato;

il tribunale ha ritenuto “la non utilizzabilità del materiale istruttorio formatosi in causa in cui il fallimento era ancora estraneo”;

l’affermazione è priva di ogni rilevanza sul piano motivazionale, ed è anche errata nel riferimento al principio di inutilizzabilità della prova; nel processo di verifica dei crediti la prova è libera e niente vieta al ricorrente di affidarsi a elementi documentali o a materiale istruttorio risultanti da un procedimento anteriormente instaurato nei riguardi dell’imprenditore prima del fallimento, ferma ovviamente la doverosa valutazione del giudice fallimentare in ordine alla capacità dimostrativa di quel materiale;

del resto questa Corte ha più volte affermato che nel vigente ordinamento processuale improntato al principio del libero convincimento del giudice, in mancanza di una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, il giudice può porre a fondamento della decisione finanche prove atipiche, non espressamente previste dal codice di rito, della cui utilizzazione fornisca adeguata motivazione e che siano idonee a offrire elementi di giudizio sufficienti, non smentiti dal raffronto critico con le altre risultanze del processo (v. Cass. n. 13229-15);

il principio rileva anche con riguardo alla prova dei fatti costitutivi del credito risarcitorio azionato nel processo di verifica dello stato passivo fallimentare e nella fase di opposizione;

il decreto di cui si discute va dunque cassato;

segue il rinvio al medesimo tribunale di Vicenza il quale, in diversa composizione, provvederà a riesaminare i fatti di causa uniformandosi ai principi di diritto sopra enunciati;

il tribunale provvederà anche sulle spese del giudizio svoltosi in questa sede di legittimità.

PQM

 

La Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, al tribunale di Vicenza.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della prima sezione civile, su relazione del cons. Terrusi (est.), il 22 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2017

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