Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12922 del 26/06/2020

Cassazione civile sez. III, 26/06/2020, (ud. 06/02/2020, dep. 26/06/2020), n.12922

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – rel. Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 13464/2017 R.G. proposto da:

G.G. e C.M., rappresentati e difesi

dall’Avv. Massimo Guarisco, domiciliato, ai sensi dell’art. 366

c.p.c., comma 2, presso la cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

Intesa Sanpaolo s.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Antonio Galasso e Dario

Martella, domiciliati, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 2,

presso la cancelleria della Corte di Cassazione;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4338 della Corte d’appello di Milano

depositata il 23 novembre 2016.

Udita la relazione svolta in camera di consiglio dal Consigliere

D’Arrigo Cosimo.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

G.G. e C.M., a garanzia del mutuo loro concesso dalla Intesa San Paolo s.p.a. per l’importo di Euro 160.000,00, costituivano ipoteca volontaria su di un immobile di loro proprietà sito in (OMISSIS). Il medesimo immobile veniva, poi, nuovamente costituto in garanzia a favore della medesima Banca per un credito che l’Istituto vantava – questa volta – nei confronti della (OMISSIS) S.r.l., di cui il G. e la C. erano amministratori.

A fronte del mancato pagamento delle rate di mutuo, Intesa San Paolo s.p.a. intraprendeva azione esecutiva, dinanzi al Tribunale di Como, sottoponendo ad espropriazione l’immobile posto in garanzia; nell’ambito della procedura, la Banca domandava anche la soddisfazione del credito vantato nei confronti della (OMISSIS) S.r.l., nel frattempo fallita.

I debitori esecutati proponevano opposizione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., comma 2, deducendo la mancanza di un valido titolo esecutivo; in subordine, sostenevano che l’importo precettato fosse maggiore dell’effettivo credito vantato dalla Banca.

Il giudice dell’esecuzione rigettava l’istanza di sospensione della procedura, con ordinanza confermata in sede di reclamo.

Il G. e la C. introducevano il giudizio di merito, chiedendo che fosse dichiarata la nullità del contratto di mutuo per l’indeterminatezza del suo oggetto, non essendo possibile determinare il costo complessivo del finanziamento; in subordine, chiedevano che fosse accertata l’illegittimità della procedura per le somme precettate in eccesso.

La Banca creditrice si costituiva per difendere la legittimità del proprio operato.

Il Tribunale, espletata una consulenza tecnica d’ufficio, rigettava l’opposizione, condannando gli opponenti al pagamento delle spese di lite.

Gli opponenti impugnavano la decisione.

La Corte d’appello di Milano, nel contraddittorio con la Banca, rigettava le contestazioni relative all’invalidità del titolo esecutivo ma, in parziale accoglimento dell’impugnazione, dichiarava illegittima la procedura esecutiva per la parte eccedente la somma di Euro 249.531,32; compensava per metà le spese di entrambe i gradi di giudizio, ponendo a carico degli appellanti la restante parte.

G.G. e C.M. hanno proposto ricorso per la cassazione della suddetta sentenza, articolando due motivi. Intesa San Paolo S.p.a. ha resistito con controricorso ed ha depositato memorie difensive.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione dell’art. 474 c.p.c., sostenendo che il mutuo ipotecario azionato dalla Banca non costituisse un valido titolo esecutivo, essendo incerto l’ammontare delle somme dovute.

Il motivo è infondato.

Va chiarito, anzitutto, che i ricorrenti non prospettano la nullità sostanziale del contratto di mutuo, bensì l’incertezza dell’ammontare delle somme dovute in base allo stesso. Ed infatti, la censura risulta formulata invocando la violazione del solo art. 474 c.p.c., comma 1, a mente del quale “l’esecuzione forzata non può avere luogo che in virtù di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile”.

Tale situazione di incertezza, in particolare, deriverebbe dalla circostanza che l’importo mutuato ha costituito oggetto di successive erogazioni parziali, non seguite dal rilascio di quietanze o dall’elaborazione di un piano di ammortamento. Tale omissione avrebbe reso assolutamente sconosciuto, incerto e indeterminabile il costo complessivo dell’operazione.

I ricorrenti, però, non contestano di aver incassato le somme di cui alle erogazioni parziali.

Invero, com’è noto, il mutuo fondiario si caratterizza nella prassi contrattuale come una sorta di “contratto quadro”, nel quale vengono individuati l’ammontare dell’importo che sarà erogato dal mutuante e la garanzia immobiliare concessa dal mutuatario. Stante la natura reale del contratto di mutuo, gli effetti contrattuali definitivi si produrranno solo al momento dell’effettiva erogazione delle somme (traditio). Tale prassi si tramanda da quando il mutuo fondiario, prima della riforma di cui al D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, si atteggiava come contratto di scopo, volto a far fronte alle esigenze dei costruttori edili, i quali,in tal modo, percepivano il finanziamento in corrispondenza dello stato d’avanzamento dei lavori, senza dover corrispondere fin dal principio gli interessi corrispettivi sull’intero importo.

Ciò posto, ai fini della utilizzabilità del contratto di mutuo fondiario quale titolo esecutivo, ai sensi dell’art. 474 c.p.c., comma 2, n. 3, costituisce condizione necessaria e sufficiente che l’erogazione delle somme avvenga con quietanza notarile, in quanto – come s’è detto – tale quietanza rappresenta, invero, la traditio delle somme che rappresenta il momento di perfezionamento del contratto reale.

I ricorrenti non contestano davvero l’avvenuta erogazione delle somme (di cui, invece, indicano pure le date e gli importi) e non fanno questione del rispetto dell’onere di forma imposto, ai fini della validità del titolo esecutivo, dall’art. 474 c.p.c., comma 2, n. 3, (“atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli”).

La predisposizione di un piano di ammortamento – che, ove fosse stata realmente omessa, potrebbe al più valere come un inadempimento di un obbligo accessorio della banca, di cui occorrerebbe valutare nel merito la gravità – certamente non rappresenta un requisito di validità del titolo esecutivo. Nè può dirsi che la redazione di un simile atto sia indispensabile per ritenere i requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità delle somme mutuate. In particolare, venendo qui in rilievo solamente il profilo della liquidità, non vi è dubbio che l’ammontare del debito dipende dal totale delle erogazioni parziali e dall’applicazione del tasso di interesse pattuito a decorrere da ciascuna erogazione. Mentre resta irrilevante l’eventuale difficoltà del calcolo necessario per pervenire al risultato finale, 118 la perizia richiesta per la sua esecuzione (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 8028 del 30/03/2018, Rv. 647904 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 25205 del 27/11/2014, Rv. 633489 – 01).

Una volta escluso, quindi, che la redazione del piano di ammortamento rappresenti un requisito formale di validità del titolo esecutivo, ogni ulteriore apprezzamento circa l’idoneità del titolo medesimo ad individuare con esattezza l’ammontare del credito (liquidità), costituisce un apprezzamento riservato al giudice di merito, non sindacabile in questa sede (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 15538 del 13/06/2018 Rv. 649428 – 01).

Con il secondo motivo si deduce un “vizio di motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio”. I ricorrenti si dolgono, in particolare, dell’insufficiente motivazione resa dalla Corte d’appello a proposito del rigetto della richiesta di rideterminazione della somma precettata.

Il motivo è inammissibile.

I ricorrenti si dolgono di un vizio non più denunciabile in sede di legittimità. La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 operata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Il vizio di motivazione residua oggi solo allorchè si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 Rv. 629830 – 01).

Ne consegue che il vizio di motivazione di cui si dolgono i ricorrenti, relativo all’insufficienza della motivazione, è inammissibile.

Deve aggiungersi, inoltre, che la doglianza – nella sostanza sollecita il riesame del materiale probatorio al fine di accreditare una ricostruzione alternativa in punto di fatto. Anche sotto quest’altro verso, il motivo è inammissibile in sede di legittimità. Infatti, è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Sez. U, Sentenza n. 34476 del 27/12/2019, Rv. 656492 – 03).

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, nella misura indicata nel dispositivo.

Sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, sicchè va disposto il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, di un ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione proposta, senza spazio per valutazioni discrezionali (Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014, Rv. 630550).

PQM

rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 9.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 6 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2020

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