Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12906 del 13/05/2021

Cassazione civile sez. trib., 13/05/2021, (ud. 10/12/2020, dep. 13/05/2021), n.12906

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – Consigliere –

Dott. MELE Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 6871 del ruolo generale dell’anno 2013

proposto da:

Nido Casa s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa, per procura speciale a margine del ricorso,

dagli Avv.ti Stufano Sebastiano e Scardigli Massimo, elettivamente

domiciliata in Roma, viale Angelico, n. 36/b, presso lo studio di

quest’ultimo difensore;

– ricorrente –

e da

T.S., T.D.D. e P.G., nella

qualità di soci della società Nido casa s.r.l., rappresentati e

difesi, per procura speciale a margine del ricorso, dagli Avv.ti

Stufano Sebastiano e Scardigli Massimo, elettivamente domiciliati in

Roma, viale Angelico, n. 36/b, presso lo studio di quest’ultimo

difensore;

– ricorrenti –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato,

presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è

domiciliata;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Lombardia, n. 133/02/12, depositata in data 2

ottobre 2012;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 10 dicembre 2020

dal Consigliere Triscari Giancarlo;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore

generale Dott. Giacalone Giovanni, che ha concluso chiedendo il

rigetto del ricorso;

udito per la società ed i soci l’Avv. Stufano Sebastiano e per

l’Agenzia delle entrate l’Avvocato dello Stato Tidore Barbara.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Dalla esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a Nido Casa s.r.l. un avviso di accertamento, contenente anche la contestuale irrogazione di sanzioni, con il quale, relativamente all’anno di imposta 2006, aveva contestato maggiori ricavi non dichiarati per mancata fatturazione di vendite di immobili eseguite dalla società in favore di terzi; un avviso di accertamento, inoltre, era stato notificato a ciascuno dei soci T.S., T.D.D. e P.G., contestando una maggiore imposta sul reddito a carico dei medesimi in considerazione della ristretta base azionaria della società avente carattere familiare; avverso i suddetti atti impositivi la società ed i soci avevano proposto separati ricorsi che, previa riunione, erano stati accolti dalla Commissione tributaria provinciale di Varese; avverso la pronuncia del giudice di primo grado l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello.

La Commissione tributaria regionale della Lombardia ha accolto l’appello, in particolare ha ritenuto che: la sentenza n. 31/49/12 della Commissione tributaria regionale della Lombardia, prodotta dai contribuenti, la quale, relativamente agli anni di imposta 2004 e 2005, aveva ritenuto illegittimi gli atti impositivi, non poteva essere condivisa, stante il fatto che il profilo penalistico non poteva influire in ambito tributario e che l’attività dei verificatori di reperimento degli elementi di prova si era svolta regolarmente, in quanto gli stessi avevano operato muniti di regolare autorizzazione; l’acquisizione delle informazioni ricevute da terzi trovava supporto normativo nella previsione di cui al D.P.R. n. 600 del 1972, art. 32,; dagli elementi di prova dedotti, consistente anche nella documentazione di registrazione, si evinceva che la vendita di 23 unità abitative non risultava fatturata, con conseguente legittimità delle pretese.

Avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso la società affidato a nove motivi di censura, illustrati con successiva memoria, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso.

Hanno altresì proposto ricorso successivo i soci T.S., T.D.D. e P.G. affidato a dieci motivi di censura, illustrati con successiva memoria, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Si premette che per ragioni di ordine logico sistematico si procederà ad esaminare unitariamente i motivi di ricorso proposti dalla società aventi contenuto identico a quelli proposti dai soci con il separato ricorso; in questo ambito, risulta del tutto autonomo il solo terzo motivo del ricorso proposto dai soci che sarà, quindi, oggetto di specifica disamina dopo il terzo motivo di ricorso della società, corrispondente al quarto motivo di ricorso dei soci, segnatamente al successivo punto 3.2.,

1. Con il primo motivo del ricorso della società e dei soci, avente analogo contenuto, e quindi da esaminare unitariamente, si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., dell’art. 324c.p.c., e dell’art. 111 Cost., per non avere rilevato l’esistenza di un giudicato esterno favorevole ai contribuenti conseguente alla pronuncia della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 8/33/11, passata in giudicato, con la quale erano stati annullati gli avvisi di accertamento relativi agli anni di imposta 2004 e 2005, aventi ad oggetto le medesime imposte, per vizi attinenti all’attività investigativa della Guardia di Finanza, costituente il presupposto comune a tutti gli accertamenti successivamente emessi e tale da rendere del tutto inutilizzabili i risultati delle indagini e invalidi i provvedimenti impositivi.

2. Con il secondo motivo di ricorso, del ricorso della società e dei soci, avente analogo contenuto, e quindi da esaminare unitariamente, si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione dell’art. 2909 c.c., per non avere rilevato l’esistenza del giudicato esterno, secondo gli stessi termini già esposti con i primi motivi di ricorso.

I motivi, che possono essere esaminati unitariamente, in quanto attengono alla questione della applicabilità al caso di specie del giudicato esterno rappresentato dalla pronuncia della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 8/33/11, sono infondati.

2.1. La sentenza citata, relativa alla pretesa impositiva avente ad oggetto le medesime imposte e riguardanti gli anni di imposta 2004 e 2005, ha, in sostanza, ritenuto illegittimi gli avvisi di accertamento sulla base della non utilizzabilità delle risultanze investigative compiute dai verificatori della Guardia di finanzia.

In particolare, ha ritenuto che sia l’attività di acquisizione delle prove compiuta in esecuzione dell’ordine di accesso che l’ulteriore attività svolta dai verificatori della Guardia di Finanza, quale autorità di polizia giudiziaria in esecuzione della delega rilasciata dalla Procura della Repubblica di Busto Arsizio, non erano legittime, in quanto, nel primo caso, non vi era stata idonea motivazione e autorizzazione, nel secondo caso, il procedimento penale non poteva essere iniziato in assenza di una valida notizia di reato, in quanto la stessa Guardia di finanza aveva evidenziato che non erano allo stato presenti fattispecie penalmente rilevanti e, inoltre, atteso che le dichiarazioni rese dai terzi non erano utilizzabili in quanto assunte in violazione del diritto di difesa.

Ciò precisato, si pone la questione della rilevanza nel presente giudizio del giudicato esterno contenuto nella sentenza sopra citata, tenuto conto che la stessa, sebbene riguardi differenti periodi di imposta, è stata resa tra le stesse parti ed è relativa alle medesime imposte.

Va quindi osservato, in primo luogo, che il giudice del gravame ha tenuto in considerazione la pronuncia in esame, sebbene abbia fatto riferimento alla sentenza n. 31/49/12 della CTR della Lombardia, (resa nel procedimento relativo agli avvisi di accertamento emessi nei confronti dei soci per gli anni 2004 e 2005), in quanto nello stesso ricorso si afferma (vd. pag. 13) che la suddetta pronuncia richiama la sentenza della CTR della Lombardia n. 8/33/11, passata in giudicato, (invocata dai ricorrenti ai fini dell’effetto di giudicato esterno), sicchè, in sostanza, il giudice del gravame ha comunque preso in considerazione anche quest’ultima pronuncia, ritenendo che non avesse valenza nell’ambito del giudizio.

Tale considerazione esclude che possa configurarsi una omessa pronuncia sulla questione del giudicato esterno nel giudizio dinanzi al giudice del gravame.

In secondo luogo, con specifico riferimento al vizio di violazione di legge, va precisato che il punto di riferimento per la definizione della questione è costituito dalle pronunce di questa Corte (Cass., Sez. Un., 16 giugno 2006, n. 13916; Cass. civ., 15 luglio 2016, n. 14509) che hanno definito entro quali limiti il giudicato esterno può estendersi, in caso di identità di parti e di tributi, anche per periodi di imposta diversi da quelli oggetto di decisione.

La pronuncia a Sezioni Unite di questa Corte, in particolare, ha escluso che il giudicato esaurisca i propri effetti nel limitato perimetro del giudizio in esito al quale si è formato, ammettendo, in linea di principio, una potenziale capacità espansiva in un altro giudizio tra le stesse parti.

Con specifico riguardo al processo tributario, ha quindi precisato che, se è vero che l’autonomia dei periodi d’imposta comporta l’indifferenza della fattispecie costitutiva dell’obbligazione relativa ad un determinato periodo rispetto ai fatti che si siano verificati al di fuori del periodo considerato, è altrettanto vero che una siffatta indifferenza trova ragionevole giustificazione solo in relazione a quei fatti che non abbiano caratteristica di durata e che comunque siano variabili da periodo a periodo (ad es. la capacità contributiva, le spese deducibili): ma ben vi possono essere, ed effettivamente vi sono, elementi costitutivi della fattispecie a carattere (tendenzialmente) permanente, in quanto entrano a comporre la fattispecie medesima per una pluralità di periodi di imposta.

In questo ambito, rientrano nei suddetti elementi le qualificazioni giuridiche (che individuano vere e proprie situazioni di fatto) assunte dal legislatore quali elementi “preliminari” per l’applicazione di una specifica disciplina tributaria e per la determinazione in concreto dell’obbligazione per una pluralità di periodi d’imposta (a valere, cioè, fino a quando quella qualificazione non sia venuta meno fattualmente – ad es. trasformazione dell’ente non commerciale in ente commerciale – o normativamente). A questa tipologia di “elementi preliminari”, possono essere ascritti anche la “categoria e la rendita catastale” e la “spettanza di una esenzione o agevolazione pluriennale”: tali elementi, proprio per la loro caratteristica di eccedere il limitato arco temporale del “periodo d’imposta” assunto dalla norma tributaria per la determinazione del dovuto, rimanendo costanti per più periodi, e per la loro pregiudizialità nella costituzione della medesima fattispecie tributaria oggetto del giudizio relativo ad ogni singolo periodo d’imposta, possono essere oggetto di accertamento e l’eventuale giudicato formatosi in un giudizio relativo ad un periodo di imposta può (e deve) avere efficacia preclusiva nel giudizio relativo al medesimo tributo per altro periodo d’imposta.

D’altro lato, proprio in considerazione del fatto che solo gli elementi preliminari nella costituzione della fattispecie tributaria, in quanto strutturati in modo propedeutico o strumentale al riconoscimento di un determinato diritto, sono naturalmente correlati ad un interesse protetto che ha il carattere della durevolezza e, quindi, all’efficacia regolamentare del giudicato che su di essi si sia formato, conduce, correlativamente, ad escludere che il giudicato relativo ad un singolo periodo d’imposta sia idoneo a “fare stato” per i successivi periodi in via generalizzata ed aspecifica, in quanto non ad ogni statuizione della sentenza può riconoscersi siffatta idoneità, bensì, solo a quelle statuizioni che siano relative a “qualificazioni giuridiche” o ad altri eventuali “elementi preliminari” rispetto ai quali possa dirsi sussistere un interesse protetto avente il carattere della durevolezza nel tempo.

La premessa di tale affermazione, sulla quale deve essere orientato il ragionamento finalizzato a definire, in ambito tributario, quali statuizioni della pronuncia resa in altro giudizio abbiano valenza di giudicato per un altro giudizio, è data dalla considerazione di fondo che il processo tributario non è un “giudizio sull’atto” da annullare, in quanto ha, invece, ad oggetto la tutela di un diritto soggettivo del contribuente: un giudizio che inevitabilmente si estende al merito e, quindi, anche all’accertamento del rapporto, ed è proprio in relazione al rapporto obbligatorio che deve essere orientata la verifica del giudice della legittimità della pretesa, sicchè l’impugnazione davanti al giudice tributario attribuisce a quest’ultimo la cognizione non solo dell’atto, come nelle ipotesi di

“impugnazione-annullamento”, orientate unicamente all’eliminazione dell’atto, ma anche del rapporto tributario.

Pertanto, la possibilità che, nel giudizio tributario, la pronuncia passata in giudicato resa da altro giudice in relazione alle medesime imposte ma per diverse annualità produca effetti estensivi anche relativamente ad altro giudizio in cui viene in considerazione altra annualità può dirsi sussistente ma solo entro i limiti sopra precisati: laddove, cioè, la res iudicata abbia avuto ad oggetto elementi costitutivi del rapporto obbligatorio, come configurati dal legislatore, a carattere (tendenzialmente) permanente, in quanto entrano a comporre la fattispecie medesima per una pluralità di periodi di imposta.

E’ dunque il rapporto obbligatorio come configurato dal legislatore relativamente a ciascuna tipologia normativa che viene in considerazione al fine di valutare se e in che misura gli accertamenti compiuti in un giudizio possano avere effetti anche per altri giudizi e, in questo ambito, dovrà farsi riferimento agli elementi costitutivi a carattere permanente, estensibili in quanto tali anche a diversi periodi di imposta.

2.2. Ciò precisato, deve dunque ritenersi che la pronuncia passata in giudicato n. 8/33/11, non può dirsi avente effetti estensibili anche per la controversia in esame, in quanto la statuizione in essa contenuta non ha riguardato elementi costitutivi del rapporto obbligatorio aventi carattere tendenzialmente permanente, avendo invece valutato unicamente il diverso profilo della illegittimità delle pretese impositive sulla base della ritenuta non correttezza delle modalità di acquisizione degli elementi di prova posti a fondamento degli avvisi di accertamento.

Si è trattata, dunque, di una valutazione che ha avuto ad oggetto il profilo procedimentale dell’attività di accertamento, le modalità di acquisizione delle prove e la loro incidenza sul provvedimento finale: profili che attengono a vizi formali dell’atto, non ad elementi costitutivi del rapporto obbligatorio, sicchè, secondo i principi sopra delineati, non può ragionarsi, nella fattispecie, in termini di estensibilità del giudicato favorevole al presente giudizio.

Va peraltro osservato che il giudice del gravame ha individuato gli elementi presuntivi sui quali ha basato la legittimità dell’accertamento sull’attività di richieste di informazioni a terzi di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, spostando, in tal modo, l’ottica di valutazione al di fuori dell’attività di verifica compiuta in sede di accesso ovvero sulla base della delega ricevuta dal Procuratore della Repubblica, riconducendo, quindi, l’attività di acquisizione degli elementi presuntivi nell’ambito dell’ordinaria attività di indagine che pur sempre può essere esercitata dalla Guardia di Finanza.

3. Con il terzo motivo di ricorso della società, corrispondente al quarto motivo di ricorso dei soci, si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, della L. n. 212 del 2000, artt. 1 e 12, della L. n. 241 del 1990, art. 1, e dell’art. 97 Cost., per avere ritenuto che i verificatori muniti di regolare autorizzazione avevano svolto le attività conseguenti all’accesso nell’osservanza della disciplina normativa di riferimento.

In particolare, la società ed i soci evidenziano che l’attività di verifica non era legittima in quanto l’autorizzazione all’accesso rilasciata dal Comandante del reparto della Guardia di finanza non riportava l’indicazione dello scopo e del periodo di imposta oggetto di controllo, il verbale di accesso si limitava a indicare che la tipologia dell’attività riguardava solo una verifica fiscale a carattere parziale ai fini Iva, mentre il processo verbale di constatazione riportava una diversa e più ampia indicazione dell’oggetto, con la conseguenza che l’attività di verifica sarebbe viziata e da questa conseguirebbe l’invalidità derivata degli atti impositivi.

3.1. I motivi, che possono essere esaminati unitariamente, in quanto di contenuto analogo, sono infondati.

La questione prospettata, infatti, attiene alla sussistenza, nel caso in esame, di una invalidità derivata degli atti impositivi in conseguenza della illegittima acquisizione degli elementi probatori posti a fondamento delle pretese.

Il giudice del gravame, sul punto, ha ritenuto che l’attività di acquisizione delle prove in sede di verifica era stata supportata da regolare autorizzazione.

Va osservato, in primo luogo, che questa Corte (Cass. civ., 19 dicembre 2019, n. 34093; 25 febbraio 2020, n. 5105) ha più volte precisato che in materia tributaria, la irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento non comporta, di per sè e in assenza di specifica previsione, la loro inutilizzabilità, salva solo l’ipotesi in cui venga in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio.

Sotto tale profilo, il motivo di censura non tiene conto del fatto che la pronuncia della CTR ha dato particolare rilevanza soprattutto alle dichiarazioni rese da terzi, dunque al di fuori dell’attività di accesso compiuta presso la società sulla base dell’ordine di servizio, sicchè il profilo in esame è estraneo alla violazione di diritto costituzionali, come rappresentato, invece, dai ricorrenti.

In ogni caso, nella fattispecie, risulta dagli stessi ricorsi che l’ordine di accesso era stato rilasciato con la espressa precisazione che lo scopo era quello di compiere una verifica sostanziale presso la società ai sensi e per gli effetti del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 52 e 63, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33: risultava chiaro, quindi, che la verifica doveva essere orientata al fine della ricerca di elementi utili nell’ambito di un accertamento di eventuali violazioni sostanziali a carico della società sia nel campo dell’Iva che delle imposte dirette, sicchè non può ragionarsi in termini di omessa indicazione dello scopo, venendo così adeguatamente tutelato l’interesse della contribuente a conoscere le ragioni della verifica e di tutelare il proprio diritto di difesa.

D’altro lato, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, dispone, al comma 1, secondo periodo, che “gli impiegati che eseguono l’accesso devono essere muniti di apposita autorizzazione che ne indica lo scopo, rilasciata dal capo dell’ufficio da cui dipendono”: la previsione normativa non indica in alcun modo che debbano essere specificamente indicati i periodi di imposta che si intendono sottoporre a verifica.

Peraltro, con specifico riferimento alla questione della limitazione temporale dell’autorizzazione all’acce, secondo questa Corte, l’atto di autorizzazione all’accesso ai locali dell’impresa, emesso ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52 non circoscrive l’ambito dell’attività ispettiva all’epoca del verificarsi dei fatti apprezzati per detta valutazione, in quanto l’ispezione medesima resta rivolta anche a “scoprire” violazioni, e non solo a fornire conforto dimostrativo alle inosservanze al momento conosciute o sospettate, di modo che non subisce, sotto il profilo temporale, limitazioni diverse da quelle attinenti al potere di accertamento, e, una volta che sia autorizzata sulla scorta dei dati a disposizione, può investire anche circostanze diverse, influenti per la revisione delle posizioni del contribuente, nell’arco di tempo in cui è esercitabile detto potere (Cass. civ., 14 gennaio 2015, n. 429; Cass. civ., 29 luglio 2011, n. 16661; Cass. civ., 2 marzo 1999, n. 1728; 7 agosto 2009, n. 18155).

Pertanto, il giudice del gravame non è incorso in alcuna violazione di legge nell’avere ritenuto che l’attività di verifica si era svolta regolarmente sulla base di una specifica autorizzazione debitamente rilasciata, tenuto conto del fatto che, differentemente da quanto sostenuto dai ricorrenti, i verificatori ben potevano acquisire, sulla base dell’atto di autorizzazione all’accesso, tutta la documentazione ritenuta rilevante in relazione a diversi periodi di imposta.

3.2. Con il terzo motivo di ricorso dei soci, si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione dell’art. 112 c.p.c., per non avere pronunciato sulla questione, prospettata con atto di controdeduzioni, relativa alla illegittimità degli avvisi di accertamento emessi nei confronti dei suddetti soci per mancata applicazione della disciplina dei redditi di capitale e per violazione del divieto di doppia imposizione. Il motivo è inammissibile.

I ricorrenti, invero, non hanno assolto all’obbligo di specificità del motivo di ricorso in esame, non avendo riprodotto il contenuto degli avvisi di accertamento nonchè il ricorso introduttivo da cui evincere che la questione era stata proposta dinanzi al giudice di primo grado, non essendo a tal fine sufficiente il passaggio delle controdeduzioni riportato nel ricorso.

In ogni caso, la questione può essere definita in questa sede, non involgendo accertamenti in fatto.

Ed invero, con riferimento alla questione relativa alla mancata applicazione della disciplina dei redditi di capitale nel caso in cui è contestato ai soci di una società a ristretta base azionaria la percezione di utili dalla società in conseguenza dell’accertamento di maggiori redditi non dichiarati, questa Corte (Cass. civ., 23 dicembre 2019, n. 34282) ha più volte precisato che, in un caso quale quello in esame, non è in alcun modo applicabile il disposto di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 47, che attiene alla tassazione degli utili distribuiti ai soci, con delibere formali dell’assemblea, ma non trova applicazione per i redditi extracontabili, non menzionati nella contabilità societaria.

Inoltre, l’art. 47 Tuir (che dispone che: “salvi i casi di cui all’art. 3, comma 3, lett. a), gli utili distribuiti in qualsiasi forma e sotto qualsiasi denominazione dalle società…, anche in occasione della liquidazione, concorrono alla formazione del reddito imponibile complessivo limitatamente al 40 per cento del loro ammontare”) riguarda la modifica attuata al Tuir con il D.Lgs. n. 344 del 2003, sicchè il sistema impositivo degli utili da partecipazione è stato caratterizzato dall’abrogazione del metodo del credito d’imposta sui dividendi e del sistema di imputazione e dall’adozione di un sistema di parziale esclusione della tassazione degli utili, al fine di mitigare gli effetti della doppia imposizione economica, in quanto gli utili distribuiti sono stati già tassati in capo alla società che li ha prodotti. Al contrario, nel caso in esame, trattandosi di utili “in nero”, mai pervenuti nella contabilità societaria, è chiaro che non vi è alcun obbligo di mitigare una doppia imposizione che non v’è mai stata, non avendo la società mai dichiarato tali utili extracontabili. Inoltre, circa la questione del divieto di doppia imposizione, questa Corte ha, altresì, precisato che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’operatività del divieto di doppia imposizione, previsto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 67, postula la reiterata applicazione della medesima imposta in dipendenza dello stesso presupposto. Tale condizione non si verifica in caso di duplicità meramente economica di prelievo sullo stesso reddito, quale quella che si realizza, in caso di partecipazione al capitale di una società commerciale, con la tassazione del reddito sia ai fini dell’IRPEG, quale utile della società, sia ai fini dell’IRPEF, quale provento dei soci, attesa la diversità non solo dei soggetti passivi, ma anche dei requisiti posti a base delle due diverse imposizioni (Cass. civ., 29 maggio 2018, n. 13503).

4. Con il quarto motivo del ricorso della società, quinto motivo del ricorso dei soci, si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per motivazione insufficiente circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per non avere indicato le ragioni per cui la autorizzazione all’accesso fosse regolare, nonostante il fatto che i ricorrenti avevano dedotto che la stessa non riportava lo scopo della verifica nè i periodi di imposta e l’oggetto della verifica.

4.1. I motivi, che possono essere esaminati unitariamente in quanto di contenuto analogo, sono inammissibili.

Il giudice del gravame ha indicato in sede di svolgimento del processo che la questione della nullità degli avvisi di accertamento riguardava la mancata indicazione dello scopo e del periodo di imposta nell’autorizzazione all’accesso, sicchè, in sede di motivazione, ha quindi specificato che la autorizzazione era regolare e emessa nel rispetto della normativa di riferimento.

La questione, quindi, della regolarità dell’autorizzazione all’accesso e, in particolare, della mancanza dello scopo e del periodo di imposta, è stata specificamente presa in considerazione dal giudice del gravame che, valutato il contenuto dell’autorizzazione alla luce della contestazione dei ricorrenti, ha ritenuto che non sussistevano ragioni di illegittimità della pretesa.

Va quindi osservato che al presente giudizio si applica la previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nel testo novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, , convertito dalla L. n. 134 del 2012, e che questa Corte ha più volte affermato che deve essere interpretato, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, ed è pertanto denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez. Un., 28 ottobre 2020, n. 23746; Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014 n. 8053).

Nel caso di specie, come visto, la questione è stata specificamente esaminata dal giudice del gravame che ha espresso il proprio giudizio sulla validità della autorizzazione all’accesso, sicchè non correttamente è stata censurata la sentenza per vizio di motivazione, secondo la nuova disciplina contenuta nell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

5. Con il quinto motivo di ricorso della società, sesto motivo dei soci, si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, , degli artt. 50,178,179 e 248 c.p.c., della L. n. 212 del 2000, art. 1, e degli artt. 3,24,97 e 111 Cost., per avere ritenuto che, con riferimento agli elementi di prova acquisiti dai militari della Guardia di finanza nel corso della verifica a seguito di delega del Procuratore della Repubblica di Busto Arsizio, l’attività era stata svolta regolarmente, nonostante il fatto che la concessione della delega e l’iscrizione della notizia di reato erano state effettuate senza la sussistenza di un reato.

5.1. I motivi, che possono essere esaminati unitariamente, in quanto di contenuto analogo, sono infondati.

Questa Corte (Cass. civ., 26 novembre 2020, n. 26965) ha più volte precisato l’autonomia del sistema di accertamento della pretesa fiscale rispetto a quello penale, secondo un principio, sancito non soltanto dalle norme sui reati tributari (D.L. 10 luglio 1982, n. 429, art. 12, successivamente confermato dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 20) ma altresì desumibile dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p., ed espressamente previsto dall’art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale, quando nel corso di attività ispettive emergano indizi di reato, ma soltanto ai fini della “applicazione della legge penale”.

Tale prospettiva, peraltro, si collega al principio per cui nell’ordinamento tributario non si rinviene una disposizione analoga a quella contenuta all’art. 191, c.p.p., a norma del quale “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate” (Cass. civ., 28 aprile 2005, n. 8605).

D’altro lato, non correttamente parte ricorrente sostiene che, nella fattispecie, l’iscrizione della notizia di reato era stata effettuata senza che sussistesse il reato contestato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4.

Invero va osservato, in primo luogo, che l’apprezzamento della tempestività dell’iscrizione della notizia di reato rientra nell’esclusiva valutazione discrezionale del pubblico ministero ed è comunque sottratto, in ordine all’an e al quando, al sindacato del giudice, ferma restando la configurabilità di ipotesi di responsabilità disciplinari o addirittura penali nei confronti del p.m. negligente (Cass., Sez. Un., 30 giugno 2000, n. 16), sicchè a tale fattispecie può anche essere ricondotta quella, oggetto della presente controversie, di iscrizione della notizia di reato senza che ne sussistessero i presupposti.

Inoltre, in secondo luogo, va precisato che l’obbligo di iscrizione della notizia di reato di cui all’art. 335 c.p.p., sussiste quando a carico di una persona emerga l’esistenza di specifici elementi indizianti, e non di meri sospetti, il che non implica, dunque, che vi sia certezza della sussistenza del fatto di reato, essendo proprio l’attività di indagine preliminare finalizzata alla ricerca di elementi di prova idonei a sostenere la prospettazione della esistenza del fatto di reato, nelle sue componenti oggettive e soggettive.

Con riferimento alla fattispecie, il titolo di iscrizione era relativo alla notizia di reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, che attiene alla mancata indicazione nella dichiarazione annuale di elementi attivi che superino determinate soglie di punibilità.

Si tratta, dunque, di soglie che attengono alla punibilità del fatto consistente nella dichiarazione infedele, con la conseguenza che nessuna incidenza assumono ai fini della valutazione della esistenza, in astratto, di una notizia di reato, che attiene alla mancata indicazione nella dichiarazione annuale di elementi attivi, sicchè, in questo contesto, la successiva attività di indagine trova giustificazione proprio nella finalità di verificare la sussistenza di elementi di prova che avrebbero consentito di superare le suddette soglie.

6. Con il sesto motivo di ricorso della società, settimo motivo di

ricorso dei soci, si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per motivazione insufficiente, per non avere precisato le ragioni per cui gli elementi di prova, acquisiti nel corso dell’attività di polizia giudiziaria senza che sussistessero i presupposti per l’esercizio della stessa attività, potessero comunque essere utilizzati e posti a base dell’accertamento e, inoltre, la ragione per cui il profilo penalistico del procedimento di acquisizione della prova è ininfluente ai fini delle questioni tributarie.

6.1. i motivi, che possono essere esaminati unitariamente, in quanto di contenuto analogo, sono inammissibili.

Si è già avuto modo di evidenziare, in sede di esame del quarto motivo di ricorso della società, quinto motivo di ricorso dei soci, entro quali limiti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, può essere utilizzato il vizio di censura di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), a seguito della intervenuta novella del 2012. Nel caso di specie, la questione è stata specificamente esaminata dal giudice del gravame che ha espresso il proprio giudizio in ordine alla legittimità delle prove acquisite a seguito di indagini di polizia giudiziaria, evidenziando: in primo luogo, la necessità di compiere una valutazione separata tra il profilo penalistico di acquisizione della prova e quello tributario; in secondo luogo, che, comunque, l’acquisizione delle dichiarazioni di terzi era stata legittima in quanto fondata sulla previsione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32,; in terzo luogo, che la mancata fatturazione della vendita di 23 unità abitative risultava non solo “dalle dichiarazioni dei contribuenti, ma da documentazione di registrazione”, e tale circostanza confermava la correttezza della verifica.

Sicchè, rispetto a tale valutazione, non correttamente è stata censurata la sentenza per vizio di motivazione, secondo la nuova disciplina contenuta nell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

7. Con il settimo motivo di ricorso della società, ottavo motivo di ricorso dei soci, si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, nonchè dell’art. 97 Cost., per avere ritenuta legittima l’assunzione di informazioni presso terzi, mentre la stessa non avrebbe potuto svolgersi nei confronti di soggetti diversi da quelli di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 13, ovvero di soggetti non obbligati alla tenuta delle scritture contabili.

7.1. I motivi, che possono essere esaminati unitariamente, in quanto di analogo contenuto, sono infondati.

Va ribadito, in primo luogo, il principio espresso dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. civ., 27 febbraio 2013, n. 4884), secondo cui non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale comporta, di per sè, la inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso, ed esclusi, ovviamente, i casi in cui viene in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale (quali l’inviolabilità della libertà personale, del domicilio, ecc) e non è, invece, invocabile, nella fase amministrativa di accertamento, la tutela del diritto di difesa ex art. 24 Cost..

In secondo luogo, va comunque osservato che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, prevede, al comma 8-bis, la facoltà di invitare “ogni altro soggetto” ad esibire o trasmettere atti o documenti fiscalmente rilevanti concernenti specifici rapporti intrattenuti con il contribuente e a fornire i chiarimenti relativi e analoga previsione è contenuta, in materia di Iva, dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 4), che, anzi, sul punto, prevede espressamente che i terzi invitati a esibire o trasmettere atti o documenti possono anche fornire “ogni informazione relativa alle operazioni” di cessione di beni o prestazione di servizi.

In questa-/ ambito, la tesi di parte ricorrente, secondo cui la suddetta previsione normativa non contemplerebbe anche la facoltà di sentire ad informazioni terzi non può essere seguita, posto che l’amministrazione, oltre che richiedere l’esibizione o la trasmissione di atti o documenti a terzi, può, altresì, chiedere chiarimenti (o informazioni, secondo la formulazione contenuta nell’art. 52, comma 2, n. 4), cit., che consistono, per l’appunto, in informazioni ricevute da terzi che, se rese in presenza dei funzionari dell’amministrazione finanziaria, devono essere verbalizzate.

8. Con l’ottavo motivo del ricorso della società, nono motivo del ricorso dei soci, si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per motivazione omessa o insufficiente circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per non avere indicato la ragione per cui nella fattispecie, relativa alla questione della acquisizione delle informazioni di terzi ricevute dai verificatori, era stata osservata la previsione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32.

9. Con il nono motivo di ricorso della società, decimo motivo di ricorso dei soci, si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per motivazione omessa o insufficiente circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, consistente nella inattendibilità delle dichiarazioni di terzi, poste a base della contestazione dell’amministrazione finanziaria, nonchè nella inattendibilità e inverosimiglianza delle conclusioni cui sono giunti i verificatori, divergenti dai dati OMI.

9.1. i motivi, che possono essere esaminati unitariamente, attesa l’identità di contenuto tra quelli proposti dalla società e dai soci, nonchè la circostanza che si è prospettati; sia per l’ottavo motivo del ricorso della società, nono motivo del ricorso dei soci, che per il nono motivo di ricorso della società, decimo motivo di ricorso dei soci, un vizio di motivazione della sentenza, sono inammissibili.

Invero, in ordine alla questione della illegittima acquisizione delle informazioni da parte di terzi soggetti, il giudice del gravame ha espressamente precisato che le informazioni dei terzi erano state legittimamente acquisite in forza della previsione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, sicchè non può essere seguita la linea difensiva dei ricorrenti secondo cui sussisterebbe un vizio di motivazione della sentenza sul punto, tenuto conto, come detto, dei limiti segnati da questa Corte relativamente alla deduzione del vizio in esame a seguito dell’intervento del legislatore del 2012.

Analoga considerazione deve essere compiuta con riferimento al nono motivo di ricorso della società, decimo motivo di ricorso dei soci, diretto a contestare, nel merito, la legittimità della pretesa.

Il giudice del gravame, invero, ha espresso sul punto la propria valutazione in ordine alla sussistenza, nel caso in esame, di idonei elementi presuntivi da cui desumere la legittimità delle pretese impositive, in particolare ha precisato che la suddetta legittimità trovava fondamento non nelle dichiarazioni di terzi, ma anche nella documentazione di registrazione.

La questione, dunque, della valenza probatoria delle dichiarazioni dei terzi è stata presa in considerazione dal giudice del gravame il quale, peraltro, ha compiuto una valutazione complessiva degli elementi presuntivi a disposizione, valorizzando, sotto tale profilo, anche le risultanze documentali, consistenti nella documentazione di registrazione.

Rispetto a tale accertamento compiuto dal giudice del gravame circa l’idoneità degli elementi di prova presuntiva dedotta dall’amministrazione finanziaria, i ricorrenti deducono in ordine al fatto che l’esito delle verifiche, basata sulle dichiarazioni di terzi, avrebbe portato a risultati inattendibili e che, inoltre, le suddette risultanze sarebbero in contrasto con i dati OMI.

La questione prospettata, oltre che priva di autosufficienza, in quanto nessun elemento specifico viene riprodotto o riportato dai ricorrenti circa la sussistenza di fatti decisivi non tenuti in considerazione dal giudice del gravame, si traduce, in realtà, in una non consentita richiesta di rivalutazione dell’accertamento in fatto compiuto dal giudice del gravame in ordine alla idoneità probatoria degli elementi presuntivi posti alla sua attenzione, avendo i ricorrenti, in realtà, contestato la idoneità probatoria dei suddetti elementi, ma tale ragione di censura non è ammissibile in questa sede, salvo che sia prospettata, ma non è questo il caso di specie, la violazione dei principi relativi alla valenza probatoria delle prove presuntive.

In conclusione, sono inammissibili il terzo motivo di ricorso dei soci, il quarto motivo di ricorso della società e quinto motivo di ricorso dei soci, il sesto motivo di ricorso della società e settimo motivo di ricorso dei soci, l’ottavo motivo di ricorso della società e il nono motivo di ricorso dei soci, il nono motivo di ricorso della società e decimo motivo di ricorso dei soci, infondati gli altri motivi di ricorso della società e dei soci, con conseguente rigetto dei ricorsi e condanna al pagamento delle spese di lite in favore dell’Agenzia delle entrate.

Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente società nonchè dei ricorrenti soci, di ulteriori importi dovuti a titolo di contributo unificato, pari a quelli previsti per i rispettivi ricorsi, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuti.

PQM

La Corte:

Rigetta il ricorso della società e la condanna al pagamento delle spese di lite in favore dell’Agenzia delle entrate che si liquidano in complessive Euro 7.000,00, oltre spese prenotate a debito ed accessori.

Rigetta il ricorso dei soci e li condanna, in solido, al pagamento delle spese di lite in favore dell’Agenzia delle entrate che si liquidano in complessive Euro 7.000,00, oltre spese prenotate a debito ed accessori.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente società nonchè dei ricorrenti soci, di ulteriori importi dovuti a titolo di contributo unificato, pari a quelli previsti per i rispettivi ricorsi, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuti.

Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2021

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