Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12904 del 26/06/2020

Cassazione civile sez. III, 26/06/2020, (ud. 28/01/2020, dep. 26/06/2020), n.12904

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GIAIME GUIZZI Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 33156-2018 proposto da:

MAPRA MANAGEMENTS SRL in persona del legale rappresentante p.t.,

elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEI NAVIGATORI, 7 SC. L,

presso lo studio dell’avvocato CARLO RECCHIA, rappresentata e difesa

dall’avvocato CARLO MARIA PALMIERO;

– ricorrente –

contro

C.G., D.G., M.A., nella

Qualità di Curatori del FALLIMENTO N. (OMISSIS) (OMISSIS) SPA,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA MONTE SANTO presso lo studio

dell’avvocato ANTONIO BACCARI, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1775/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 19/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

28/01/2020 dal Consigliere Dott. GIAIME GUIZZI Stefano.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La società Mapra Managements S.r.l. (d’ora in poi, “Mapra”) ricorre, sulla base di cinque motivi, per la cassazione della sentenza n. 1175/18, del 19 aprile 2018, della Corte d’Appello di Napoli, che accogliendo il gravame esperito dalla curatela fallimentare della società (OMISSIS) S.p.a. avverso la sentenza n. 6053/17, del 24 maggio 2017, del Tribunale di Napoli – ha accolto la domanda proposta dalla predetta curatela ex art. 2901 c.c. e L.Fall., art. 66, volta a far dichiarare l’inefficacia, nei suoi confronti, dell’atto notarile dell’11 ottobre 2009, con cui la società (OMISSIS) aveva venduto all’odierna ricorrente la proprietà di alcuni locali destinati a deposito, nell’ambito di un complesso immobiliare sito in (OMISSIS).

2. Riferisce, in punto di fatto, la ricorrente che la curatela fallimentare della società (OMISSIS) ebbe a rivolgersi al Tribunale di Napoli, chiedendo la declaratoria di inefficacia della suddetta compravendita, allegando una serie di circostanze rivelatrici, a suo dire, della ricorrenza dei presupposti di legge per la revocatoria.

In particolare, l’attrice deduce: che il prezzo pattuito era incongruo; che la modalità di pagamento dello stesso era stata “strana”, essendo stata realizzata attraverso l’impiego di un assegno bancario emesso su di un istituto di credito già incorporato in altro, antecedentemente alla costituzione della società acquirente, istituto dotato di un capitale sociale di appena Euro 10.000,00; che la vendita venne effettuata quando già sussisteva una considerevole esposizione debitoria della società, poi fallita, nei confronti dell’Erario e di enti previdenziali, per circa Euro 41.000.000,00; che di tale situazione la società acquirente non poteva non essere a conoscenza, operando non solo nel medesimo settore merceologico della società poi fallita, ma anche nel medesimo ambito territoriale; che l’assenza di un preventivo contratto preliminare offriva prova dello strettissimo legame esistente, al momento dell’atto pubblico di vendita, fra le due società.

Il giudice di prime cure, tuttavia, rigettava la domanda, sul presupposto che dagli atti di causa non vi fosse prova diretta della conoscenza, in capo al terzo acquirente, del pregiudizio che l’atto di trasferimento immobiliare potesse recare alle ragioni dei creditori.

Proposto gravame dalla curatela, lo stesso veniva accolto dal giudice di appello, con integrale riforma della decisione impugnata.

3. Avverso la sentenza della Corte partenopea ricorre per cassazione la società Mapra, sulla base – come detto – di cinque motivi.

3.1. Con il primo motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), – si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), e art. 342 c.p.c..

Si censura la sentenza impugnata sul presupposto che la Corte territoriale, “sull’erroneo ed illegittimo presupposto dell’apparenza e/o genericità della motivazione adottata dal giudice di prime cure”, abbia ritenuto – illegittimamente ed erroneamente – ammissibile il proposto gravame, considerando specifici i motivi posti a fondamento dello stesso, i quali, invece, si risolvevano nella pedissequa reiterazione di quelli dedotti in primo grado e puntualmente disattesi dal Tribunale.

In questo modo la Corte di Appello avrebbe omesso di considerare che la mera riproposizione degli argomenti posti a fondamento della pretesa disattesa dal primo giudice può essere giustificata solo quando manchi un’espressa ponderazione degli stessi, e non in presenza di una valutazione compiuta.

3.2. Il secondo motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c..

La ricorrente si duole del fatto, in questo caso, che la Corte di Appello abbia ritenuto – erroneamente ed illegittimamente – essersi formato un giudicato fra le parti, in ordine all’accertamento che l’atto di compravendita, oggetto di causa, fosse pregiudizievole per i creditori.

In questo modo, si sostiene, sarebbe stato disatteso il principio, costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il giudicato non si forma, nemmeno implicitamente, su aspetti del rapporto che non abbiano costituito oggetto di specifica disamina e valutazione, ovvero di un accertamento effettivo, specifico e concreto. In particolare, la ricorrenza del giudicato implicito deve escludersi in casi, come sarebbe quello presente, in cui il giudice abbia fatto ricorso al principio cd. “della ragione più liquida”.

3.3. Il terzo motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 – ipotizza violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2901 e 2697 c.c. e degli artt. 115,116 e 345 c.p.c..

In questo caso, si lamenta che la sentenza impugnata – ancora una volta, erroneamente ed illegittimamente – abbia ritenuto sussistente il cd. “eventus damni”, sul rilievo che il contratto stipulato avesse comportato un peggioramento delle garanzie patrimoniali del debitore, e ciò “anche alla luce di una presunta non contestazione ad opera della odierna ricorrente”, della quale si nega, recisamente, la sussistenza.

3.4. Il quarto motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e n. 5), – ipotizza violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2901 e 2697 c.c. e L. Fall., art. 66, con riferimento alla distribuzione dell’onere della prova in ordine alla sussistenza delle conseguenze pregiudizievoli dell’atto di disposizione da revocare.

In particolare, si lamenta che il curatore non avrebbe dimostrato, a seguito dell’esperimento dell’azione revocatoria ordinaria, che il credito fosse già sorto al momento del compimento dell’atto che si assume pregiudizievole, nè quale fosse la consistenza quantitativa e qualitativa del patrimonio del debitore, subito dopo il compimento dell’atto asseritamente pregiudizievole e, quindi, quale fosse il concreto detrimento che tale atto aveva arrecato alla massa dei creditori. Inoltre, si censura la sentenza impugnata in quanto il giudice di secondo grado, in violazione del principio di diritto ripetutamente enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, non avrebbe esaminato e accertato la mancata allegazione e prova, nei termini appena sopra descritti, dell’effettivo pregiudizio per le ragioni dei creditori, quale conseguenza della compravendita oggetto di causa.

3.5. Infine, il quinto motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e n. 5), – ipotizza violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697,2727 e 2729 c.c. e dell’art. 115 c.p.c..

Si censura la sentenza impugnata per avere la Corte territoriale con motivazione “omessa, insufficiente e contraddittoria” – accolto l’azione revocatoria, “accontentandosi”, relativamente alla sussistenza della cosiddetta “scientia damni” in capo al terzo acquirente, di una “conoscibilità meramente ipotetica” del pregiudizio arrecato alle ragioni creditorie, attribuendo valore indiziario ad elementi non sintomatici della conoscenza dello stato di insolvenza e, in ogni caso, privi dei requisiti della gravità, precisione e concordanza.

Inoltre, si lamenta che la sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare sia che il prezzo di acquisto del bene, oggetto della compravendita per cui è causa, era pari ad Euro 150.000,00, oltre IVA al 20%, di talchè non sussisteva alcuna “notevole sproporzione” rispetto al valore di mercato dello stesso, sia che l’elemento soggettivo della “scientia damni”, nei confronti di una persona giuridica, va accertato avendo riguardo all’atteggiamento psichico delle persone fisiche che la rappresentano.

4. Ha resistito la curatela fallimentare di (OMISSIS), con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di infondatezza.

In particolare, la controricorrente reputa inammissibile il motivo ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., comma 1, n. 1), nonchè i motivi primo, terzo e quarto, in quanto recanti delle censure prive del carattere della specificità, senza poi tacere del fatto che l’intero atto d’impugnazione non rispetterebbe – si assume – il principio dell’autosufficienza.

Quanto, poi, al primo motivo, al netto del rilievo – idoneo a determinarne l’inammissibilità, ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), – che la ricorrente avrebbe omesso la trascrizione dei motivi di appello diversi dal secondo (peraltro, esso stesso riprodotto solo in parte), la curatela controricorrente sottolinea come la Corte d’Appello, con motivazione corretta e pienamente condivisibile, abbia rigettato l’eccezione di inammissibilità del gravame ex art. 342 c.p.c., illustrando le ragioni per cui ha ritenuto la stessa infondata.

In ordine, invece, al secondo motivo, si sottolinea come la sentenza impugnata, lungi dal fare solo riferimento ad un giudicato implicito, abbia in concreto accertato la sussistenza del requisito oggettivo del cd. “eventus damni”, fermo restando, peraltro, che la decisione con cui il primo giudice aveva valutato l’assenza di consapevolezza del pregiudizio arrecato ai creditori presupponeva, logicamente, l’accertamento dell’esistenza del pregiudizio stesso.

Il terzo e il quarto motivo, invece, si risolverebbero in una diversa, ulteriore, non consentita valutazione, da parte di questa Corte, delle circostanze di fatto oggetto del giudizio e, dunque, del merito della controversia.

Il quinto motivo, infine, sarebbe inammissibile, essendosi lamentata un’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, ovvero un tipo di vizio non più contemplato dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

5. La ricorrente ha depositato memoria, insistendo nelle proprie argomentazioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va rigettato.

6.1. Il primo motivo non è fondato.

6.1.1. Esso è, peraltro, ammissibile, dovendo disattendersi l’eccezione ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), formulata dalla controricorrente, essendo stato riprodotto – nel presente atto di impugnazione – il contenuto dei motivi di gravame, nella misura necessaria ad evidenziarne il supposto difetto specificità (cfr. tra le altre, Cass. Sez. 5, ord. 29 settembre 2017, n. 22880, Rv. 64563701).

Nondimeno, la censura – come detto – non è fondata, non tenendo conto della natura della sentenza impugnata.

Essa, infatti, ha rigettato la pretesa attorea per ritenuta insussistenza del presupposto soggettivo dell’azione revocatoria costituito dalla “scientia damni”, omettendo ogni altra valutazione, tanto è vero che l’odierno ricorrente assume come la Corte partenopea abbia fatto applicazione del principio della “ragione più liquida”.

Tale essendo, dunque, il (circoscritto) “decisum” del primo giudice, era in relazione ad esso andava “parametrato” il dovere di specificità dei motivi di gravame, ex art. 342 c.p.c., trovando, pertanto, applicazione il principio secondo cui, l’appellante “che intenda dolersi di una erronea ricostruzione dei fatti da parte del giudice di primo grado può limitarsi a chiedere al giudice di appello di valutare “ex novo” le prove già raccolte e sottoporgli le argomentazioni difensive già svolte in primo grado, senza che ciò comporti di per sè l’inammissibilità dell’appello” (Cass. Sez. 6-3, ord. 8 febbraio 2018, n. 3115, Rv. 648034-01), e ciò in conformità con la natura del giudizio di appello, trattandosi di “un giudizio sul rapporto controverso e non sulla correttezza della sentenza impugnata”, sicchè rispetto ad esso non è “concepibile alcun rapporto di autosufficienza ma solo di specificità, che presuppone la specificità della motivazione della sentenza impugnata” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 20 aprile 2019, n. 11197, Rv. 653588-01).

Infatti, come è stato sottolineato da questa Corte, sostenere il contrario “significherebbe pretendere dall’appellante di introdurre sempre e comunque in appello un “quid novi” rispetto agli argomenti spesi in primo grado, il che – a tacer d’altro – non sarebbe coerente col divieto di “nova” prescritto dall’art. 345 c.p.c.” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. n. 3115 del 2018, cit.).

6.2. I motivi secondo, terzo e quarto – dei quali è possibile uno scrutinio unitario (del resto, implicitamente richiesto dallo stesso ricorrente, che li ha “trattati congiuntamente, attesa la stretta connessione”), concernendo, tutti, il tema della prova del cd. “eventus damni” – sono, invece, inammissibili.

6.1.1. Essi, innanzitutto, non colgono l’effettiva “ratio decidendi” della sentenza impugnata.

La Corte partenopea, infatti, ha ritenuto dimostrato il presupposto oggettivo della revocatoria (e la sua anteriorità rispetto all’atto “revocando”), sul rilievo che il fallimento avesse “provveduto a depositare in prime cure la domanda di ammissione al passivo dell’agente della riscossione dei tributi, da cui ampiamente si evince(va) la grande esposizione debitoria (pari a svariati milioni di Euro) della (OMISSIS) nei confronti dell’Erario, già la data di stipula dell’atto di compravendita”, soggiungendo che il fallimento aveva “depositato, altresì, con la memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6, la comunicazione del 25 maggio 2015” dei curatori fallimentari, dalla quale risultava essere stato dichiarato esecutivo e depositato in cancelleria lo stato passivo, attestante un “totale crediti ammessi” per l’importo di “Euro 100.698.816,79”.

Tali considerazioni, dunque, superano in radice il tema (oggetto, in particolare, del quarto motivo di ricorso) della violazione dell’art. 2697 c.c., ovvero dell’erronea distribuzione dell’onere della prova in ordine al presupposto oggettivo della cd. “actio pauliana”, avendo la Corte partenopea motivato il proprio “decisum”, sul punto, nell’ottica della “prova acquisita”. L’inammissibilità del motivo, pertanto, va affermata in applicazione del principio secondo cui la “violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni, e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti”, essendo “sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del “nuovo” art. 360 c.p.c., n. 5)” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01);

Orbene, proprio il riferimento al “nuovo” art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) esclude che il (quarto) motivo di ricorso possa essere accolto in relazione alla dedotta violazione – anche – di tale norma.

Sul punto, infatti, va rammentato che, a i sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – nel testo “novellato” del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, dall’art. 54, comma 1, lett. b),convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, 134 (applicabile “ratione temporis” al presente giudizio) – il sindacato di questa Corte è destinato ad investire la parte motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonchè, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01).

Lo scrutinio di questa Corte è, dunque, ipotizzabile solo in caso di motivazione “meramente apparente”, configurabile, oltre che nell’ipotesi di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01, nonchè, più di recente, Cass. Sez. 6-5, ord. 23 maggio 2019, n. 13977, Rv. 654145-0), o perchè affetta da “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880-01), ovvero connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01).

Orbene, nessun profilo di “irriducibile contraddittorietà” o di “inconciliabilità” di affermazioni è riscontrabile nel passaggio, sopra riportato, con cui la Corte territoriale ha ritenuto raggiunta la prova del presupposto oggettivo della revocatoria.

6.1.2. D’altra parte, e per passare, così, all’esame dei motivi secondo e terzo di ricorso, anch’essi sono da ritenersi inammissibili, perchè non si confrontano con l’effettivo “decisum” della Corte partenopea.

Se è, infatti, vero che – nella sentenza impugnata – la ritenuta sussistenza della prova del cd. “eventus damni” (e della sua anteriorità rispetto all’atto “revocando”) risulta, rispettivamente, sia preceduta dall’affermazione che il presupposto oggettivo della revocatoria sarebbe stato “giudicato assodato” già dal primo giudice, sia seguita dalla constatazione che le circostanze idonee a provarlo non sarebbero state “specificamente contestate” dalla convenuta, tali rilievi, nondimeno, non rendono per ciò solo ammissibili le doglianze di violazione dell’art. 2909 c.c. e art. 115 c.p.c. (oltre che, di motivazione “errata e illegittima”).

I due riferimenti al “giudicato” e alla “non contestazione” sono operati, infatti, “ad abundantiam” (come in definitiva riconosce, almeno nel caso della asserita “non contestazione”, lo stesso ricorrente, laddove afferma che la motivazione della Corte territoriale si basa “anche” su tale argomento), giacchè se la sentenza impugnata avesse inteso dare ad essi rilievo dirimente non avrebbe avuto ragione di chiarire le ragioni per cui ha ritenuto raggiunta, comunque, la prova del presupposto oggettivo della revocatoria.

Difatti, se “la non contestazione del convenuto costituisce un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato acquisito al materiale processuale e dovrà, perciò, ritenerlo sussistente, in quanto l’atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti” (tra le tante, Cass. Sez. 3, sent. 9 marzo 2012, n. 3727, Rv. 621652-01), del pari, la rilevazione di un giudicato interno ha come effetto l’esaurimento della funzione giurisdizionale in relazione alla questione da esso coperta, incompatibile, pertanto, con ogni altra statuizione sul punto (da ultimo, Cass. Sez. 1, ord. 15 marzo 2019, n. 7499, Rv. 65362801).

Deve, pertanto, farsi applicazione del principio secondo cui è “inammissibile, in sede di giudizio di legittimità, il motivo di ricorso che censuri un’argomentazione della sentenza impugnata svolta “ad abundantiam”, e pertanto non costituente una “ratio decidendi” della medesima” (Cass. Sez. 1, ord. 10 aprile 2018, n. 8755, Rv. 64888301; nello stesso senso Cass. sez. Lav, sent. 22 ottobre 2014, n. 22380, Rv. 633495-01, secondo cui, in sede di legittimità, “sono inammissibili, per difetto di interesse, le censure rivolte avverso argomentazioni contenute nella motivazione della sentenza impugnata e svolte “ad abundantiam” o costituenti “obiter dicta”, poichè esse, in quanto prive di effetti giuridici, non determinano alcuna influenza sul dispositivo della decisione”).

6.3. Infine, il quinto motivo – che si articola in una pluralità di censure – è in parte inammissibile e in parte non fondato.

6.3.1. L’esito dell’inammissibilità s’impone in relazione alla dedotta violazione, oltre che dell’art. 2697 c.c. (per le ragioni già sopra illustrate, derivanti dal fatto che, anche in ordine alla “scientia damni”, la censura investe l’acquisizione della prova, non la distribuzione degli oneri probatori), pure dell’art. 115 c.p.c., visto che l’eventuale “cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4), disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4), c.p.c. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640194-01; in senso conforme, tra le altre, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01; Cass. Sez. 3, ord. 30 ottobre 2018, n. 27458).

6.3.2. Escluso, inoltre, che possa trovare ingresso – anche in questo caso, per le ragioni già illustrate – una censura di “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione”, non fondata è, invece, la dedotta violazione dell’art. 2901 c.c. (e degli artt. 2727 e 2729 c.c.), per avere la Corte territoriale accolto l’azione revocatoria, “accontentandosi”, secondo la ricorrente, in relazione alla sussistenza della cosiddetta “scientia damni” in capo al terzo acquirente, di una “conoscibilità meramente ipotetica” del pregiudizio arrecato, ciò che avrebbe viziato “a monte” il suo ragionamento presuntivo.

Sul punto, invero, va ribadito che “per l’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria, allorchè l’atto di disposizione sia successivo al sorgere del credito, è necessaria e sufficiente la consapevolezza di arrecare pregiudizio agli interessi del creditore (“scientia damni”), essendo l’elemento soggettivo integrato dalla semplice conoscenza, cui va equiparata la agevole conoscibilità, nel debitore e, in ipotesi di atto a titolo oneroso, nel terzo di tale pregiudizio” (così Cass. Sez. 3, sent. 1 giugno 2000, n. 7262, Rv. 537106-01, in senso conforme Cass. Sez. 3, sent. 29 luglio 2004, n. 14489, Rv. 575091-01; si veda anche, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 5 luglio 2013, n. 16825, non massimata sul punto).

6.3.3. Priva di specificità, e dunque inammissibile, è la censura secondo cui la Corte partenopea non avrebbe considerato che il requisito della “scientia damni”, nei confronti di una persona giuridica, andava accertato avendo riguardo all’atteggiamento psichico delle persone fisiche che la rappresentano.

Il ricorrente neppure identifica, infatti, in quale parte (e con quali argomentazioni) la sentenza impugnata avrebbe disatteso tale principio, sicchè deve concludersi, al riguardo, ribadendo che “il motivo d’impugnazione è costituito dall’enunciazione delle ragioni per le quali la decisione è erronea e si traduce in una critica della decisione impugnata, non potendosi, a tal fine, prescindere dalle motivazioni poste a base del provvedimento stesso, per inidoneità al raggiungimento dello scopo, che, nel giudizio di cassazione, risolvendosi in un “non motivo”, è sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4)” (Cass. Sez. 3, sent. 31 agosto 2015, 17330, Rv. 636872-01).

6.3.4. Infine, quanto alla lamentata assenza di “notevole sproporzione” tra il prezzo di acquisto del bene ed il suo valore (a parte il rilievo che la giurisprudenza di legittimità, invocata dal ricorrente, fa riferimento alla revocatoria fallimentare, rispetto alla quale la circostanza rileva ai sensi della L.Fall., art. 67, comma 1, n. 1), dirimente è la constatazione che la censura involge un tipico apprezzamento di fatto.

Va dato, pertanto, seguito al principio che reputa inammissibile il ricorso per cassazione (o il motivo) “con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito” (tra le tante, Cass. Sez. 3, ord. 4 aprile 2017, n. 8758, Rv. 643690-01).

7. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

8. A carico della ricorrente sussiste, infine, l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, e, per l’effetto, condanna la società Mapra Managements S.r.l. a rifondere, alla curatela fallimentare della società (OMISSIS) S.p.a., le spese del presente giudizio, liquidate, nel complesso, in Euro 7.200,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 28 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2020

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