Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12902 del 26/06/2020

Cassazione civile sez. III, 26/06/2020, (ud. 28/01/2020, dep. 26/06/2020), n.12902

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GIAIME GUIZZI Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso 25906-2018 proposto da:

G.G., in proprio e nella sua qualità di Presidente e

Amministratore delegato di Srl CAPITAL ADVISERS LTD, SRI CAPITAL

ADVISERS LTD, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DONATELLO, 23,

presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO VILLA PIZZI, rappresentati

e difesi dall’avvocato ALBERTO SANTOLI;

– ricorrenti –

contro

IL SOLE 24 ORE SPA nella persona del suo procuratore,

N.R., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CARLO POMA 2, presso lo

studio dell’avvocato VALENTINO SIRIANNI, che li rappresenta e

difende unitamente all’avvocato CATERINA MALAVENDA;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 678/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 08/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

28/01/2020 dal Consigliere Dott. GIAIME GUIZZI STEFANO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. G.G., in proprio e nella qualità di rappresentante legale della società Sri Capital Advisers Ltd (d’ora in poi, Sri), ricorre, sulla base di cinque motivi, per la cassazione della sentenza n. 678/18, dell’8 febbraio 2018, della Corte di Appello di Milano, che accogliendo parzialmente il gravame esperito in via di principalità dalla società “Il Sole 24-Ore” S.p.a. e da N.R., avverso la sentenza n. 4746/16, del 15 aprile 2016, del Tribunale di Milano, nonchè respingendo quello incidentale dell’odierno ricorrente – ha rideterminato in Euro 20.000,00 l’importo del risarcimento del danno non patrimoniale dovuto al G. dalla predetta società Il Sole 24-Ore e dal N., confermando, per il resto, il rigetto della domanda volta al risarcimento sia del danno non patrimoniale lamentato dalla società Sri, sia del danno patrimoniale asseritamente subito da quest’ultima e dal G. personalmente.

2. Riferisce, in punto di fatto, il ricorrente di aver adito il Tribunale di Milano, anche nella già indicata qualità di rappresentante legale della società Srl, convenendo in giudizio la società editrice Il Sole 24-Ore, Ga.Cl. e N.R., lamentando che, sull’omonimo quotidiano, diretto dal N., erano stati pubblicati – nei giorni (OMISSIS) – degli articoli a firma del Ga., recanti “gravi illazioni e notizie false ed offensive” sulla persona e sull’operato sia del medesimo G. che della società Sri. Veniva, pertanto, chiesto, sia da parte del G. che della società, il ristoro dei gravi danni, patrimoniali e non, derivati – a dire di parte attrice – dalla pubblicazione di “denigrazioni personali e professionali”, nonchè dall’attribuzione di “fatti deteriori”, quali, in particolare, “asseriti scambi utilitaristici con alti prelati, insolvenze ultramilionarie, consorterie di affari e, finanche, condanne penali”.

All’esito dell’istruttoria (e dopo che il Tribunale non aveva autorizzato la rinnovazione della notificazione al Ga., richiesta in ragione della mancata restituzione dell’avviso di ricevimento da parte dell’ufficiale postale, e ciò sul presupposto che costui non fosse un litisconsorte necessario), l’adito giudicante, in parziale accoglimento delle domande, riconosceva il carattere diffamatorio degli articoli intitolati “L’Enpam conteso fra consulenti e advisor”, “Semplice amicizia o compagnia d’Affari?” e “”Sinergie” e rapporti nel private equity”, tutti pubblicati sul quotidiano economico-finanziario il 16 marzo 2012. Seguiva, pertanto, la condanna de Il Sole 24-Ore e del N., in solido, a pagare al solo G. l’importo di Euro 40.000,00, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale.

Esperito gravame dai convenuti soccombenti, ma impugnata incidentalmente la sentenza anche dalla parte già attrice (che lamentava, in particolare, il rigetto della domanda di risarcimento del danno patrimoniale e, quanto alla sola società Sri, anche del danno non patrimoniale), il giudice di seconde cure, in parziale accoglimento dell’appello principale, riconoscendo carattere diffamatorio soltanto al primo dei tre articoli, ovvero “L’Enpam contesa da consulenti e advisor”, riduceva, di conseguenza, l’importo del risarcimento del danno non patrimoniale dovuto al G., fissato nella misura di C 20.000,00, confermando, per il resto, la sentenza impugnata.

3. Avverso la sentenza della Corte meneghina ricorre per cassazione il G. (anche nella già ricordata qualità di legale rappresentante di Srl), sulla base – come detto – di cinque motivi.

3.1. Con il primo motivo si deduce – quale “error in procedendo” – violazione dell’art. 345 c.p.c., assumendo l’inammissibilità dell’appello, in ragione della “introduzione di domande nuove nel giudizio di gravame”.

Si lamenta, in particolare, il fatto che, mentre nel giudizio di primo grado i convenuti ebbero a concludere per il “rigetto di tutte le domande, siccome infondate, tanto in fatto, quanto in diritto, e comunque non provate”, in appello essi ebbero a chiedere di “accertare e dichiarare la legittimità della propria condotta, in quanto non offensiva dell’onore e della reputazione” del G. e di Sri, e, comunque, “scriminata ex art. 21 Cost. e artt. 51 e/o 59 c.p.”.

Il ricorrente assume che quella proposta sarebbe una domanda del tutto nuova, in quanto volta ad ottenere un provvedimento di diverso contenuto rispetto alle istanze proposte in prime cure, dolendosi, pertanto, del rigetto dell’eccezione di inammissibilità del gravame, da esso formulata ai sensi dell’art. 345 c.p.c..

3.2. Con il secondo motivo si deduce – quale “error in iudicando” – “violazione e/o falsa applicazione” dell’art. 21 Cost..

Il ricorrente si duole del fatto che la Corte territoriale, sebbene abbia correttamente premesso i principi che regolano la materia della diffamazione a mezzo stampa (specificando che, per considerare la divulgazione di notizie lesive dell’onore alla stregua di legittima espressione del diritto di cronaca, è necessario che ricorrano i presupposti della verità oggettiva della notizia, della pertinenza della stessa e della continenza formale), ha, poi, fatto cattiva applicazione degli stessi.

In particolare, si censura l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui, in relazione alla vicenda delle condanne penali inflitte ai vertici della Sri, il giornalista ebbe a riferire i fatti “senza riferimenti offensivi della reputazione di G.”, e ciò in quanto, se l’autore dello scritto avesse inteso ascrivergli anche tale vicenda, non avrebbe parlato genericamente di “vertici della società”, bensì avrebbe indicato espressamente il suo nome. Siffatta argomentazione, secondo il ricorrente, sarebbe, tuttavia, “manifestamente illogica, incoerente e fuorviante”. Infatti, proprio perchè l’articolo si occupava, nello specifico, della persona del G., non vi era ragione di citare, nello stesso, fatti concernenti terzi.

Più in generale, poi, si esclude che ricorrano i requisiti della pertinenza e della continenza con riferimento a tutte le pubblicazioni apparse sul quotidiano.

3.3. Con il terzo motivo si deduce – sempre quale “error in iudicando” – “violazione e/o falsa applicazione” dell’art. 2059 c.c., sotto il profilo della erronea liquidazione del danno non patrimoniale in favore di esso G..

Il ricorrente evidenzia che dal già indicato “error in iudicando”, censurato con il secondo motivo del presente ricorso, è derivata, quale conseguenza immediata e diretta, la violazione o falsa applicazione anche dell’art. 2059 c.c., sicchè nell’ipotesi in cui dovesse risultare cassata la sentenza per intervenuta violazione dell’art. 21 Cost., dovrà cassarsi necessariamente, in via consequenziale, anche l’intervenuta rideterminazione del danno, ingiustamente e illogicamente dimezzato dalla Corte territoriale.

3.4. Il quarto motivo ipotizza – nuovamente quale “error in iudicando” – “violazione e/o falsa applicazione” dell’art. 2059 c.c., sotto il profilo della mancata liquidazione del danno non patrimoniale in favore di Sri.

Rileva il ricorrente come il primo giudice avesse ritenuto le notizie pubblicate lesive dell’immagine aziendale della società, sicchè il giudice di appello, per ciò solo, avrebbe dovuto riconoscere a quest’ultima il ristoro del danno non patrimoniale, anche in ragione del fatto che, in tema di diffamazione, una volta dimostrata la lesione della reputazione e/o dell’immagine della vittima, il danno è “in re ipsa”, in quanto consistente nella diminuzione o privazione di un valore non patrimoniale della persona, anche giuridica.

3.5. Infine, il quinto motivo ipotizza – anche in questo caso quale “error in iudicando” – “violazione e/o falsa applicazione” dell’art. 2043 c.c., sotto il profilo della errata ed illogica mancata liquidazione del danno patrimoniale in favore sia di esso G. che di Sri.

In particolare, il ricorrente assume che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di Appello, l’esistenza di un pregiudizio economico derivato ad entrambi tali soggetti dalla diffusione di denigrazioni e propalazioni circa “assunti inadempimenti milionari, consorterie di affari e condanne penali”, è stato considerevole e, soprattutto risulta documentato “per cartas”, contrariamente a quanto illogicamente e immotivatamente affermato dal giudice del gravame, ciò che sarebbe stato possibile a maggior ragione appurare ove la Corte di Appello, rimettendo la causa in istruttoria, avesse dato corso alla prova per testi già immotivatamente e illogicamente esclusa dal primo giudice.

4. La società Il Sole 24-Ore e il N. hanno resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di infondatezza. I controricorrenti, in particolare, evidenziano come il solo motivo astrattamente scrutinabile da questa Corte risulti il primo, quantunque lo stesso debba ritenersi non fondato, anche alla stregua del fatto che essi ebbero ad evidenziare – nella parte motiva della propria comparsa di costituzione e risposta – come gli articoli oggetto del presente procedimento costituissero “legittimo esercizio del diritto di cronaca e di critica”, di talchè alcuna violazione del divieto di “nova” in appello ricorrerebbe nel caso in esame.

Quanto ai restanti motivi, essi involgerebbero questioni tutte afferenti al merito della controversia, e dunque non sindacabili in sede di legittimità.

5. Il ricorrente ha presentato memoria, insistendo nelle proprie argomentazioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va rigettato.

6.1. Il primo motivo non è fondato.

6.1.1. A parte, infatti, la singolare pretesa del ricorrente di considerare “domande” quelle che sono, per vero, eccezioni (giacchè tese a paralizzare la domanda di risarcimento del danno), ed a prescindere anche dal rilievo, svolto dagli odierni controricorrenti, di avere invocato, già nella comparsa di risposta in primo grado, la scriminante ex art. 21 Cost., dirimente è la constatazione che quest’ultima “non costituisce espressione di un diritto potestativo, da esercitare nel momento in cui viene proposta l’eccezione, ma integra un diritto sostanziale già esercitato”, sicchè “la relativa deduzione non ha natura di eccezione in senso stretto”, con la conseguenza che “il giudice civile, ove debba accertare la sussistenza del carattere diffamatorio di un fatto, è tenuto a rilevare tutte le circostanze che siano state allegate e provate, atteso che l’eventuale esistenza di una esimente esclude il carattere diffamatorio del fatto” (Cass. Sez. 1, sent. 30 gennaio 2013, n. 2190, Rv. 625828-01).

Ciò detto, costituisce principio pacifico quello per cui “il rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato, attesa la distinzione rispetto a quelle in senso stretto, non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, purchè i fatti risultino documentati “ex actis”” (da ultimo, tra le innumerevoli, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 10 ottobre 2019, n. 25434, Rv. 655426-01).

6.2. Il secondo motivo, del pari, non è fondato.

6.2.1. Al riguardo, deve muoversi dal rilievo che “in tema di azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo della stampa, la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti, l’apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell’altrui reputazione, la valutazione dell’esistenza o meno dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica costituiscono oggetto di accertamenti di fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata motivazione” (così, da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 14 marzo 2018, n. 6133, Rv. 648418-01; in senso conforme, tra le più recenti, Cass. Sez. 3, ord. 30 maggio 2017, n. 13520, non massimata sul punto; Cass. Sez. 3, sent. 27 luglio 2015, n. 15759, non massimata, Cass. Sez. 3, sent. 10 gennaio 2012, n. 80, Rv. 621133-01).

Di conseguenza, il “controllo affidato al giudice di legittimità è dunque limitato alla verifica dell’avvenuto esame, da parte del giudice del merito, della sussistenza dei requisiti della continenza, della veridicità dei fatti narrati e dell’interesse pubblico alla diffusione delle notizie, nonchè al sindacato della congruità e logicità della motivazione, secondo la previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), applicabile “ratione temporis””, mentre resta “del tutto estraneo al giudizio di legittimità l’accertamento relativo alla capacità diffamatoria delle espressioni in contestazione, non potendo la Corte di cassazione sostituire il proprio giudizio a quello del giudice di merito in ordine a tale accertamento” (così, nuovamente in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. n. 6133 del 2018, cit.).

Se, dunque, il sindacato sulla congruità della motivazione va condotto alla stregua del testo, “ratione temporis” applicabile, dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), deve, allora, constatarsi come quello “novellato” – operante rispetto alla presente fattispecie – dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, limiti il sindacato di questa Corte sulla parte motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonchè, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01).

Lo scrutinio di questa Corte è, dunque, ipotizzabile solo in caso di motivazione “meramente apparente”, configurabile, oltre che nell’ipotesi di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01, nonchè, più di recente, Cass. Sez. 6-5, ord. 23 maggio 2019, n. 13977, Rv. 654145-01), in quanto affetta da “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880-01), ovvero connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), o perchè “perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. Sez. Lav. 17 maggio 2018, n. 12096, Rv. 648978-01), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01).

Nessuna delle evenienze descritte – “irriducibile contraddittorietà”, ovvero, “perplessità e incomprensibilità” delle argomentazioni poste a fondamento della motivazione – risulta ricorrere nel caso di specie.

6.3. Il terzo motivo è inammissibile.

6.3.1. Esso, per il modo stesso in cui risulta formulato (ovvero, ipotizzando che, alla riscontrata violazione dell’art. 21 Cost., non potrà che conseguire una corretta applicazione dell’art. 2059 c.c.), non si sostanzia in un’autonoma censura della sentenza impugnata.

Va dato quindi seguito, sul punto, al principio secondo cui “il motivo d’impugnazione è costituito dall’enunciazione delle ragioni per le quali la decisione è erronea e si traduce in una critica della decisione impugnata, non potendosi, a tal fine, prescindere dalle motivazioni poste a base del provvedimento stesso, la mancata considerazione delle quali comporta la nullità del motivo per inidoneità al raggiungimento dello scopo, che, nel giudizio di cassazione, risolvendosi in un “non motivo”, è sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4)” (Cass. Sez. 3, sent. 31 agosto 2015, 17330, Rv. 636872-01).

6.4. Il quarto motivo è, del pari, non fondato.

6.4.1. Sul punto, va precisato che la sentenza impugnata non pone in discussione la possibilità di risarcire il danno non patrimoniale patito anche da una persona giuridica, come riconosciuta da questa Corte, ovvero come “risarcibilità della lesione dello stesso diritto all’esistenza nell’ordinamento come soggetto (fin quando sussistano le condizioni di legge), del diritto all’identità, del diritto al nome e del diritto all’immagine della persona giuridica ed in genere dell’ente collettivo”, essendosi precisato che il pregiudizio risarcibile, in questi casi, è “rappresentato dalla “deminutio” di tali diritti che la lesione è di per se idonea ad arrecare”, ponendosi alla stregua di “un danno-conseguenza della lesione”. Difatti, per tali diritti, “che rappresentano l’equivalente, in relazione alla persona giuridica o all’ente collettivo, dei diritti della persona fisica aventi fondamento diretto nella Costituzione e precisamente nell’art. 2, si impone il riconoscimento della risarcibilità del danno non patrimoniale in ragione di una espressa previsione della stessa norma costituzionale dell’art. 2 Cost., la quale riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, cioè della persona fisica, anche nelle formazioni sociali, alle quali qualsiasi soggetto collettivo meritevole di tutela secondo l’ordinamento, sia esso dotato della personalità giuridica o di una meno formale soggettività, è riconducibile” (così, in motivazione, già Cass. Sez. 3, sent. 4 giugno 2007, n. 12929, Rv. 597309-01).

Ciò detto, il ricorrente sovrappone l’accertamento della lesività della condotta (nella specie, della idoneità degli scritti ritenuti diffamatori a ledere l’immagine della società), con quello della verifica dell’esistenza del danno, non a caso richiamando il principio del danno “in re ipsa”.

Questo Corte, tuttavia, ha ancora di recente ribadito che “il danno all’onore ed alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è “in re ipsa”, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione, sicchè la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima” (Cass. Sez. 3, ord. 26 ottobre 2017, n. 25420, Rv. 646634-04), essendosi anche precisato che, solo una volta soddisfatti dall’interessato tali oneri di allegazione e prova del danno, “la sua liquidazione deve essere compiuta dal giudice sulla base, non di valutazioni astratte ma del concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come da questa dedotto e provato” (Cass. Sez. 3, ord. 6 dicembre 2018, n. 31537, Rv. 651944-01).

Nella specie, ciò che la Corte ha escluso – con valutazione di fatto, non sindacabile in questa sede – è la prova del danno conseguenza, e dunque l’impossibilità di fare ricorso alla liquidazione equitativa, presupponendo essa già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno (da ultimo, Cass. Sez. 2, sent. 22 febbraio 2018, n. 4310, Rv. 647811-01), non la risarcibilità, in sè, del danno non patrimoniale della persona giuridica.

6.5. Il quinto motivo, infine, è inammissibile.

6.5.1. Invero, la censura con esso proposta, lungi dal prospettare una violazione dell’art. 2059 c.c. (se non “nominalmente”), si risolve in una critica dell’apprezzamento delle risultanze documentali acquisite agli atti del giudizio, sicchè trova applicazione il principio secondo cui “il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa” – che è quanto, appunto, si lamenta nel caso di specie – “è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” (da ultimo, “ex multis”, Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03, nonchè Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6035, Rv. 648414-01).

D’altra parte, anche a voler intendere il motivo come censura della mancata ammissione della richiesta prova testimoniale che avrebbe dovuto confermare l’esistenza dei danni patrimoniali (già asseritamente emergenti “per cartas”), l’esito dell’inammissibilità discenderebbe dal fatto che “in sede di ricorso per cassazione, qualora il ricorrente intenda lamentare la mancata ammissione da parte del giudice di appello della prova testimoniale – non ammessa in primo grado perchè superflua e riproposta in secondo grado – deve dimostrare, a pena di inammissibilità, di aver ribadito la richiesta istruttoria in sede di precisazione delle conclusioni davanti al giudice di appello” (Cass. Sez. 3, ord. 13 settembre 2019, n. 22883, Rv. 655094-01); condizione, questa, nella specie non soddisfatta.

7. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

8. A carico del ricorrente sussiste, infine, l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso, e, per l’effetto, condanna G.G. a rifondere, alla società Il Sole-24 Ore S.p.a. e a N.R., le spese del presente giudizio, liquidate, nel complesso, in Euro 4.100,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 28 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2020

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