Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12902 del 23/05/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 23/05/2017, (ud. 30/01/2017, dep.23/05/2017),  n. 12902

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ANTONIO Enrica – Presidente –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6309/2015 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

PO 25-B, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO PESSI, che la

rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.P. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

VIALE ANICIO GALLO 102, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO

POLESE, rappresentata e difesa dall’avvocato ANNALISA RENDA, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1051/2014 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 18/09/2014 r.g.n. 1407/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

30/01/2017 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato MARIO MICELI per delega verbale Avvocato ROBERTO

PESSI;

udito l’Avvocato FABRIZIO POLESE per delega verbale Avvocato ANNA

LISA RENDA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Si controverte del licenziamento per giusta causa intimato dalla società Poste Italiane s.p.a. a M.P. per avere la medesima svolto attività lavorativa in favore di altro datore di lavoro in periodo di assenza per malattia. Con sentenza del 3.7 – 18.9.2014, la Corte d’appello di Bologna, nel riformare la decisione del primo giudice che aveva respinto il ricorso della lavoratrice, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento ed ordinato la reintegra dell’appellante dopo aver posto in rilievo che l’entità del fatto, complessivamente valutato, era tale da far ritenere giustificata solo l’applicazione di misure sanzionatorie di carattere conservativo e che non poteva ritenersi che la condotta contestata avesse potuto scuotere irrimediabilmente il rapporto fiduciario tra le parti.

Per la cassazione della sentenza ricorre la società Poste Italiane s.p.a. con tre motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Resiste con controricorso M.P..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 2104 e 2119 c.c., nonchè degli artt. 54 e 56 del ccnl di settore del 2007, dolendosi del giudizio espresso dalla Corte d’appello di Bologna in merito alla ritenuta mancanza di proporzione della sanzione del licenziamento inflitta a M.P. ed evidenzia, in contrario, la gravità del comportamento tenuto dalla dipendente, la quale, nonostante fosse assente per malattia, aveva svolto attività di cameriera ai tavoli all’interno della trattoria “(OMISSIS)” nei giorni 28, 30 e 31 luglio 2009, pregiudicando, in tal modo, il recupero lavorativo e ledendo il vincolo fiduciario.

Secondo la ricorrente la Corte territoriale non ha apprezzato nella sua reale entità tale comportamento, nel momento in cui ha ritenuto che fosse sproporzionata la sanzione irrogata, non considerando che l’espletamento di attività extra-lavorativa da parte della dipendente durante il suo stato di malattia era idoneo a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell’adempimento dell’obbligazione e a giustificare il recesso laddove si riscontrava che la stessa ritardava anche potenzialmente la guarigione ed il rientro in servizio, costituendo indice di scarsa attenzione della lavoratrice alla propria salute ed ai relativi doveri di cura.

2. Col secondo motivo, dedotto per violazione e falsa applicazione della norma contrattuale di cui all’art. 56 del CCNL del 2007 sulle ipotesi di licenziamento senza preavviso, la difesa della ricorrente assume che la Corte di merito ha errato nel ritenere che la carenza di intenzionalità nella condotta tenuta dalla M. e la irrilevanza del danno alla società privavano di legittimità il licenziamento, dal momento che la natura dolosa della condotta era da considerare “in re ipsa”, in quanto la dipendente avrebbe potuto lavorare come portalettere per la società postale, sua datrice di lavoro, invece di assentarsi per malattia ed andare a svolgere attività di cameriera, col rischio di pregiudicare la guarigione ed arrecare un danno alla società. Pertanto, la M. aveva dimostrato di essere pienamente consapevole di compiere un’azione contraria ai principi di correttezza e buona fede, di violare le norme del contratto collettivo, di pregiudicare la guarigione e di arrecare un pregiudizio alla società.

3. Col terzo motivo la ricorrente denunzia la violazione dell’art. 112 c.p.c., art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e art. 118 disp. att. c.p.c., comma 1, in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 3, (art. 360 c.p.c., n. 3), nonchè l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5).

Secondo la difesa della società la sentenza sarebbe viziata in quanto la Corte d’appello avrebbe omesso di pronunciarsi sull’eccezione spiegata in via gradata nella memoria difensiva, afferente la possibilità per il giudicante – semmai avesse ritenuto che non potesse ricorrere la giusta causa di recesso ex art. 2119 c.c. – di qualificare il licenziamento quanto meno come licenziamento per giustificato motivo soggettivo, per cui sotto tale aspetto non aveva valutato in maniera approfondita il caso in esame.

4. Osserva la Corte che i tre motivi, che per ragioni di connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.

Anzitutto, non può non rilevarsi che in entrambi i primi due motivi i denunziati vizi di violazione di legge sono prospettati come tali solo formalmente nelle relative intestazioni, mentre in realtà essi involgono una pura rivisitazione del merito della questione sotto l’apparente censura della violazione e falsa applicazione delle summenzionate norme del codice civile e di quelle collettive, senza indicazioni specifiche sul modo in cui la Corte di merito si sarebbe in concreto discostata dall’interpretazione delle norme asseritamente mal interpretate ed applicate.

Infatti, la lamentata inosservanza delle norme riguardanti i doveri di correttezza e buona fede nell’adempimento della prestazione lavorativa e la doglianza riflettente la non corretta applicazione del principio di proporzionalità della sanzione si infrangono contro l’adeguata e corretta motivazione offerta dalla Corte di merito nell’illustrazione del proprio convincimento sulla mancanza di proporzione della sanzione adottata rispetto al fatto oggetto di contestazione disciplinare.

5. La Corte bolognese ha, invero, rilevato, con apprezzamento di fatto immune da rilievi di legittimità, che la condotta contestata aveva avuto ad oggetto solo due ore per tre giornate in coincidenza con l’approssimarsi della ripresa dell’attività lavorativa dopo un intervento chirurgico per “dito a scatto”, che dalla lettera di giustificazioni non risultava che la M. avesse posto in essere la condotta contestata con la consapevolezza della contrarietà della stessa agli interessi datoriali, che la prognosi del periodo di malattia inizialmente diagnosticato non era stata procrastinata in conseguenza dell’attività prestata presso la trattoria, che non risultava che la dipendente avesse precedenti disciplinari e che il grado di affidamento richiesto dalle mansioni esecutive non poteva che essere valutato in misura meno intensa, per cui in assenza di una intenzionalità offensiva della condotta incriminata, che aveva avuto durata breve, e in mancanza di precedenti disciplinari, non poteva pervenirsi alla conclusione che il comportamento complessivamente valutato fosse idoneo a scuotere irrimediabilmente il vincolo fiduciario. Da tutto ciò la Corte d’appello ha tratto la logica conseguenza che si rivelava senz’altro più appropriata nella fattispecie una sanzione di carattere conservativo rispetto a quella espulsiva in concreto applicata.

Orbene, come questa Corte ha avuto occasione di precisare (Cass. sez. lav. n. 17625 del 5.8.2014), “lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è idoneo a giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ove tale attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sè sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua fraudolente simulazione, ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l’attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore, ferma restando la necessità che, nella contestazione dell’addebito, emerga con chiarezza il profilo fattuale, così da consentire una adeguata difesa da parte del lavoratore.” (in senso conforme v. anche Cass. sez. lav. n. 21253 del 29.11.2012, n. 14046 dell’1.7.2005 e n. 17128 del 3.12.2002). Nella fattispecie la Corte territoriale ha, invece, accertato che non si era avuto alcun prolungamento del periodo di malattia in conseguenza del lavoro esterno svolto dall’appellante, per cui alcun ostacolo si era manifestato alla ripresa del servizio.

6. Quanto alla lamentata omessa pronunzia sull’eccezione subordinata di cui al terzo motivo è sufficiente rilevare che tale vizio non sussiste, dovendosi ritenere implicitamente respinta la relativa richiesta di valutazione della sussistenza di un giustificato motivo soggettivo del licenziamento alla luce dell’ampia motivazione resa in merito all’accertato comportamento della lavoratrice, considerato suscettibile di essere stigmatizzato al massimo con l’applicazione di una sanzione di natura conservativa e non certo espulsiva, come quella adottata attraverso l’atto di recesso ritenuto illegittimo.

Si è, infatti, precisato (Cass. Sez. 2, n. 10001 del 24/6/2003) che “qualora ricorrano gli estremi di una reiezione implicita della pretesa o della deduzione difensiva ovvero di un loro assorbimento in altre declaratorie non è configurabile il vizio di omessa pronuncia di cui all’art. 112 cod. proc. civ., che si riscontra soltanto allorchè manchi una decisione in ordine a una domanda o a un assunto che renda necessaria una statuizione di accoglimento o di rigetto”.

7. E’, invece, inammissibile la prospettazione del vizio di motivazione, di cui all’ultima parte del terzo motivo, in quanto svolta in maniera non conforme al nuovo dettato normativo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Invero, alla luce della nuova versione della norma di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, applicabile “ratione temporis” nella fattispecie, si è statuito (Cass. Sez. 6 – 3, n. 12928 del 9/6/2014) che “in tema di ricorso per cassazione, dopo la modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili.”

Orbene, tali condizioni non sono ravvisabili nel caso in esame, avendo la Corte territoriale vagliato attentamente, nei termini sopra riassunti, il materiale istruttorio ai fini della valutazione del fatto oggetto dell’addebito disciplinare.

8. Pertanto, il ricorso va rigettato.

Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo.

Ricorrono i presupposti, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di Euro 4200,00, di cui Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2017

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