Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12901 del 26/06/2020

Cassazione civile sez. III, 26/06/2020, (ud. 28/01/2020, dep. 26/06/2020), n.12901

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GIAIME GUIZZI Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso 10734/2018 proposto da:

GRONDINO COSTRUZIONI LAVORI PUBBLICI SRL, in persona

dell’Amministratore Unico, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G

BARRACCO 5, presso lo studio c.c. dell’avvocato MASSIMO MANZIONE,

che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

L.R., I.M., M.E., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA DEI CONDOTTI 9, presso lo studio

dell’avvocato ALESSANDRO PICOZZI, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

nonchè contro

NUOVA EDILIZIA GROTTAFERRATA NEG SCRL;

– intimata –

avverso la sentenza n. 514/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 24/01/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

28/01/2020 dal Consigliere Dott. GIAIME GUIZZI STEFANO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La società Grandino Costruzioni Lavori Pubblici S.r.l. (d’ora in poi, “Grandino”) ricorre, sulla base di quattro motivi, per la cassazione della sentenza n. 514/18, del 24 gennaio 2018, della Corte di Appello di Roma, che – respingendo il gravame da essa esperito avverso la sentenza n. 71/12, del 27 marzo 2012, del Tribunale di Velletri, sezione distaccata di Frascati – ha rigettato la domanda proposta dall’odierna ricorrente, volta a far dichiarare l’inefficacia nei suoi confronti, ex art. 2901 c.c., degli atti notarili di assegnazione di unità immobiliari, del 14 aprile 2004 e del 21 ottobre 2005, rispettivamente conclusi tra la società Cooperativa Nuova Edilizia Grottaferrata S.c.a.r.l. (d’ora in poi, “NEG”) e I.M., nonchè tra la medesima cooperativa e i coniugi (in regime di comunione legale) L.R. ed M.E..

2. Riferisce, in punto di fatto, la ricorrente di essere creditrice, nei confronti della società NEG, in forza di contratto d’appalto da esse stipulato in data 15 aprile 2002, degli importi di Euro 131.136,00 ed Euro 100.000,00, oltre IVA.

Successivamente, la società NEG compiva due distinti atti di assegnazione degli alloggi della cooperativa a favore, rispettivamente, del Presidente della stessa, I.M., e del Vice-Presidente, L.R. (in comunione dei beni con la moglie, M.E.), così recando – a dire dell’odierna ricorrente – pregiudizio alle ragioni creditorie della Grandino. Essa, pertanto, agiva in giudizio, convenendo la NEG, lo I., il L. e la M., affinchè il Tribunale di Velletri, sezione di Frascati, dichiarasse l’inefficacia dei suddetti atti, ex art. 2901 c.c..

L’adito Tribunale rigettava la domanda proposta, ritenendo che l’attrice non avesse provato la sussistenza della “scientia damni” in capo agli assegnatari, sul duplice rilievo che, da un lato, la pretesa creditoria era contestata dalla società NEG, dall’altro, che la garanzia patrimoniale del creditore non era stata compromessa, comprendendo ancora altri alloggi da assegnare ai restanti soci.

Proposto gravame dall’odierna ricorrente, la Corte capitolina ribadiva il difetto, nel caso di specie, del requisito della “scientia damni”, confermando la sentenza di primo grado.

A tale esito, in particolare, il giudice d’appello perveniva sul rilievo che, siccome ognuno degli atti di assegnazione compiuti conteneva una “clausola di salvaguardia”, in forza della quale il socio assegnatario sarebbe comunque rimasto “responsabile, insieme agli altri soci ed in egual misura, per qualsiasi rivendicazione effettuata in futuro da terzi, relativamente al periodo antecedente l’assegnazione, nonchè per qualsiasi danno”, tali atti non potessero determinare un depauperamento idoneo a “pregiudicare il possibile soddisfacimento delle ragioni della creditrice che, in ogni caso, proprio in forza di tale pattuizione potrà rivolgersi ai singoli soci per ottenere il soddisfacimento del proprio credito”.

L’appellante veniva, altresì, condannato alla rifusione delle spese del grado di giudizio, liquidate per ciascuna parte in complessivi Euro 9.515,00, spese da distrarsi in favore dell’antistatario.

3. Avverso la sentenza della Corte capitolina ricorre per cassazione la società Grandino, sulla base – come detto – di quattro motivi.

3.1. Con il primo motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., nonchè degli artt. 2901,1273 e 1372 c.c..

La ricorrente si duole del fatto che la Corte territoriale, per escludere la sussistenza della “scientia damni”, abbia ritenuto decisiva la presenza della cd. “clausola di salvaguardia”, sovrapponendo, così, l’elemento soggettivo a quello oggettivo del cd. “eventus damni”. Inoltre, non avendo gli odierni resistenti mai eccepito l’insussistenza del profilo oggettivo, il giudice sarebbe incorso nel vizio di ultra petizione.

La ricorrente lamenta, altresì, la violazione dell’art. 2901 c.c., laddove la sentenza impugnata avrebbe richiesto, ai fini della dichiarazione di inefficacia degli atti revocandì, oltre alla “deminutio patrimonii” del debitore disponente, anche l’ulteriore requisito dell’impossibilità o difficoltà per il creditore di conseguire “aliunde” la prestazione. Secondo la prospettazione della ricorrente, dunque, la Corte capitolina avrebbe dovuto interpretare l’art. 2901 c.c., nel senso di riferire i presupposti dell’azione revocatoria solo al patrimonio del debitore – disponente, a nulla rilevando il fatto che vi siano altri debitori con patrimonio sufficiente a garantire l’adempimento.

La Corte capitolina avrebbe, inoltre, violato i principi che regolano l’accollo esterno e il principio di relatività degli effetti del contratto, e ciò nella parte in cui ha ritenuto che la clausola di salvaguardia, contenuta in un atto di assegnazione stipulato tra due parti (cooperativa disponente e socio assegnatario), possa dispiegare effetti diretti anche nei confronti del terzo creditore, sebbene questi sia rimasto estraneo alla suddetta pattuizione.

3.2. Con il secondo motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), – si denuncia la nullità della sentenza e del procedimento, per violazione degli artt. 132 e 115 c.p.c..

In particolare, la Corte territoriale, ritenendo esistente la clausola di salvaguardia anche nel secondo atto di assegnazione da revocare, quello intervenuto tra la società NEG e i coniugi L.R.- M.E. (clausola che, invece, non risulta essere stata riprodotta), avrebbe compiuto un sillogismo errato, perchè privo della premessa minore.

Il giudice d’appello sarebbe incorso, inoltre, in un vizio di percezione, nella parte in cui “ha posto a fondamento della decisione una prova, “rectius” un fatto controverso (la circostanza che l’atto di assegnazione contenesse o meno la clausola di salvaguardia), che ben può considerarsi “immaginario”, siccome reputato esistente dal Giudice d’appello, ma in realtà inesistente, in quanto non risultante dall’atto di assegnazione di alloggio e mai provato dalle parti”.

3.3. Con il terzo motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), – si ripropongono le stesse doglianze di cui al secondo motivo, ma sotto la veste dell’omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti.

3.4. Con il quarto motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – si denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 2233 c.c., in relazione del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 4.

La sentenza impugnata viene censurata laddove ha liquidato un importo a titolo di spese di lite triplicato rispetto a quanto normativamente previsto, con conseguente violazione D.M. n. 55 del 2014, art. 4, il quale prevede che, nel caso in cui un avvocato difenda più parti con la stessa posizione processuale, il compenso debba essere determinato in modo unitario, aumentando l’importo base di un incremento percentuale, secondo i criteri ivi stabiliti.

4. Hanno resistito I.M., L.R. ed M.E., con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di infondatezza.

I controricorrenti assumono che il ricorso sarebbe inammissibile, ex art. 360 bis c.p.c., comma 1, n. 1), essendo stata la presente controversia decisa conformemente ai principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di presupposti – e in particolar modo quello della “scientia damni” – dell’azione revocatoria ordinaria.

Quanto al primo motivo di ricorso, preliminarmente si evidenzia l’inammissibilità della doglianza in quanto, a ben vedere, essa si risolverebbe nella censura della motivazione in fatto. Si ribadisce, in ogni caso, che il giudice di merito ha ritenuto la mancanza della “scientia damni” in capo ai soci assegnatari in quanto essi, mediante la clausola di salvaguardia, hanno assunto responsabilità diretta, ciascuno per la propria quota, per qualunque pretesa creditoria vantata da terzi nei confronti della NEG, finendo così per aumentare (invece che diminuire) le garanzie patrimoniali a favore dell’odierna ricorrente. Pertanto, “la sottoscrizione di una siffatta clausola ha avuto l’effetto non solo di negare in radice la consapevolezza da parte dei convenuti di star arrecando un danno al creditore, ma anche quello – ben più decisivo – di elidere una qualsivoglia diminuzione del patrimonio della NEC”.

In ordine al secondo motivo di ricorso, oltre a ritenere la doglianza assolutamente generica, con conseguente compressione del diritto di difesa dei controricorrenti, si osserva che la Corte capitolina ha fondato il proprio convincimento, circa l’insussistenza della “scientia damni” in capo ai beneficiari degli atti di assegnazione, non tanto sulla possibilità per il creditore di soddisfarsi altrove, quanto “sulla ben più decisiva circostanza rappresentata dalla patente mancanza dell'”eventus damni”: se non c’è alcun danno, non può esserci consapevolezza del danno”.

Per quanto concerne la dedotta mancanza della clausola di salvaguardia nel secondo atto di assegnazione, i controricorrenti osservano che la Corte di Appello ha attentamente valutato, ponderato ed esaminato la prova dedotta, finendo per riconoscerne la sussistenza. Pertanto, si tratterebbe di un vizio di valutazione della prova, incensurabile in sede di legittimità.

Inoltre, i controricorrenti precisano che la Corte territoriale avrebbe fatto riferimento “alla complessità di tutte le assegnazioni coperte dalla cd. clausola di salvaguardia, assegnazioni che di per sè erano più che sufficienti a garantire ampiamente il credito della Grandino, visto il numero ed il valore degli immobili assegnati con l’atto contenente la suddetta clausola”.

Limitatamente al terzo motivo di ricorso, i controricorrenti ribadiscono che la sentenza risulta motivata in modo congruo e completo, sottraendosi, pertanto, alle censure mosse dalla ricorrente.

Infine, la censura relativa alla liquidazione delle spese del grado di giudizio sarebbe priva di fondamento, nonchè lacunosa ed esposta in modo confuso.

5. E’ rimasta solo intimata la società NEG.

6. La ricorrente ha depositato memoria, insistendo nelle proprie argomentazioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

7. Il ricorso va accolto, nei termini di seguito precisati.

7.1. In particolare, il primo motivo è fondato.

7.1.1. Come si è detto, attraverso di esso la ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 2901 c.c., censurando la sentenza impugnata laddove ha ritenuto che la presenza, all’interno di un atto di disposizione (nella specie, gli atti di assegnazione di alloggi di una società cooperativa), di una “clausola di salvaguardia”, con cui il terzo beneficiario ha assunto la responsabilità per i debiti del suo dante causa, anteriori all’atto di disposizione, sia idonea ad elidere il pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore e, di conseguenza, ad escludere il requisito soggettivo della consapevolezza, in capo al terzo, di arrecare un tale pregiudizio, cd. “scientia damni”.

Orbene, il ragionamento del giudice di merito appare – oltre che oscuro, illogico e contraddittorio – viziato da un’erronea applicazione dei principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità relativamente alla fattispecie recata dall’art. 2901 c.c., con specifico riguardo (ma non solo) al requisito soggettivo della “scientia damni”.

In particolare, la Corte territoriale – sebbene individui, correttamente, quali presupposti dell’azione revocatoria ex art. 2901 c.c., il credito vantato dal soggetto revocante (in un’accezione lata che ricomprende anche i crediti sottoposti a condizione o a termine non ancora scaduto, ovvero un credito litigioso o, ancora, una semplice aspettativa che non si riveli “prima facie” pretestuosa e che possa valutarsi come probabile), il cd. “eventus damni” (cioè il pregiudizio arrecato alle ragioni creditorie, inteso quale depauperamento, quantitativo o anche solo qualitativo, del patrimonio del debitore, che abbia determinato o aggravato il pericolo dell’incapienza di tale patrimonio a coprire il credito del revocante, o comunque abbia reso più difficile o incerto il soddisfacimento del credito) e la “scientia damni”, da intendersi quale consapevolezza di arrecare pregiudizio alle ragioni del creditore – erra nel fare applicazione di tali principi al caso che occupa.

Infatti, con particolare riguardo all’elemento soggettivo della “scientia damni”, la Corte capitolina così conclude:

“come sottolineato dal Tribunale di Velletri, sezione distaccata di Frascati, nell’impugnata sentenza, non può esservi dubbio che difetti nel caso di specie il requisito della “scientia damni”, dato che nessun depauperamento del patrimonio della debitrice si è in concreto verificato nonostante Cooperativa Nuova Edilizia Grottaferrata S.c.a.r.l. si sia spogliata di diversi immobili, assegnandoli ai propri soci. Risulta infatti dall’esame dei vari atti di assegnazione (cfr. la copia di tali atti, allegata sub doc. 20 al fascicolo di parte della cooperativa per il primo grado) depositati sia dalla debitrice principiale – Cooperativa Nuova Edilizia Grottaferrata S.c.a.r.l. – sia dagli altri appellati che, in ognuno di essi, era stato espressamente convenuto che il socio assegnatario sarebbe comunque rimasto “responsabile, insieme agli altri soci ed in egual misura, per qualsiasi rivendicazione effettuata in futuro da terzi, relativamente al periodo antecedente l’assegnazione, nonchè per qualsiasi danno” (cfr. ad es. l’art. 2, lett. C dell’atto di assegnazione del 14 aprile 2004, concluso tra la cooperativa e I.M.). Alla luce di tale esplicita previsione contrattuale deve di conseguenza escludersi che gli atti di assegnazione oggetto della presente controversia abbiano potuto determinare un depauperamento che pregiudica il possibile soddisfacimento delle ragioni della creditrice che, in ogni caso, proprio in forza di tale pattuizione potrà rivolgersi ai singoli soci per ottenere il soddisfacimento del proprio credito”.

7.1.2. Il ragionamento compiuto dalla Corte capitolina è, dunque, sintetizzabile nei seguenti termini:

– la società NEG si è spogliata di diversi immobili, ciò nonostante non si è verificato “alcun depauperamento concreto del suo patrimonio”;

– gli atti di disposizione da essa compiuti, infatti, contenevano una “clausola di salvaguardia”, finalizzata a rendere i beneficiari responsabili dei debiti della società medesima, sorti anteriormente all’atto di disposizione;

– l’odierna ricorrente, creditrice nei confronti della NEG, può soddisfare – per effetto della suddetta pattuizione – le proprie pretese nei confronti dei singoli soci assegnatari, i cui patrimoni individuali hanno di fatto aumentato le garanzie complessive a soddisfacimento delle sue ragioni;

– mancando il pregiudizio concreto alle ragioni creditorie, non è neppure configurabile la relativa consapevolezza in capo al terzo beneficiario.

7.1.3. Tali statuizioni sono errate sotto molteplici aspetti.

La prima e la terza affermazione attengono all’elemento oggettivo del cd. “eventus damni”, in relazione a giurisprudenza di questa Corte, come noto, ha più volte ribadito che tale presupposto “ricorre non solo nel caso in cui l’atto dispositivo comprometta totalmente la consistenza patrimoniale del debitore, ma anche quando lo stesso atto determini una variazione quantitativa o anche soltanto qualitativa del patrimonio che comporti una maggiore incertezza o difficoltà nel soddisfacimento del credito, con la conseguenza che grava sul creditore l’onere di dimostrare tali modificazioni quantitative o qualitative della garanzia patrimoniale, mentre è onere del debitore, che voglia sottrarsi agli effetti di tale azione, provare che il suo patrimonio residuo sia tale da soddisfare ampiamente le ragioni del creditore” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 18 giugno 2019, n. 16221, Rv. 654318-01; nello stesso senso Cass. Sez. 3, ord. 19 luglio 2018, n. 19207, Rv. 649739-01). Pertanto, quando il creditore provi la modificazione quantitativa o qualitativa della garanzia patrimoniale del suo debitore, incombe su quest’ultimo, al fine di evitare che gli atti di disposizione compiuti vengano dichiarati inefficaci, l’onere di provare che il proprio patrimonio è ancora capiente, cioè costituito da altri beni sufficienti a soddisfare le pretese creditorie.

Orbene, in via generale, l’incapienza del patrimonio del debitore deve essere valutata in relazione alla posizione del revocante, potendosi escludere il requisito del pregiudizio qualora il creditore goda, ad esempio, di garanzie reali o privilegi che assicurino il soddisfacimento del suo diritto. Tuttavia, nel caso di solidarietà passiva, si ritiene che tale valutazione debba essere svolta esclusivamente con riguardo alla sfera patrimoniale del debitore disponente, “a nulla rilevando che i patrimoni degli altri coobbligati in solido siano singolarmente sufficienti a garantire l’adempimento” (Cass. Sez. 3, ord. n. 16221 del 2019, cit., nello stesso senso, tra le altre, Cass. Sez. 3, sent. 31 marzo 2017, n. 8315, Rv. 643834-01), avendo il creditore interesse a che ciascun condebitore conservi intatta la propria responsabilità patrimoniale.

Invero, la funzione della solidarietà passiva – consistente nel garantire una più sicura e agevole realizzazione del diritto del creditore – viene assicurata mediante la costituzione di una pluralità di autonome responsabilità patrimoniali a garanzia del credito, le quali devono tutte contemporaneamente sussistere fino all’adempimento (o comunque all’estinzione) del debito, ciascuna indipendentemente dalla consistenza delle altre.

La Corte territoriale, pertanto, per operare una corretta applicazione di tali principi, avrebbe dovuto valutare la garanzia patrimoniale generica della sola società debitrice come risultante ad esito degli atti di disposizione e, in caso, escludere il cd. “eventus damni”.

D’altra parte, anche a voler interpretare la clausola di salvaguardia quale accollo “esterno” (fermo restando, peraltro, che il suo tenore letterale, in difetto di migliori specificazioni contenute nella sentenza, non sembra affatto univoco in tal senso), si deve osservare che essa non è comunque in grado di determinare la liberazione del debitore principale, richiedendosi a tal fine – in difetto di una condizione espressa (della quale, però, nella clausola, come riportata, non vi è traccia) – un’apposita dichiarazione da parte del creditore (art. 1372 c.c., comma 2). Tutt’al più, dunque, la clausola “de qua” potrebbe essere qualificata come accollo “cumulativo”, con la conseguenza di aggiungere un’ulteriore responsabilità patrimoniale a garanzia del soddisfacimento delle pretese creditorie. Ma, come appena illustrato, la previsione di ulteriori coobbligati in solido non è, di per sè, in grado di neutralizzare il depauperamento che si verifica nella garanzia patrimoniale generica del debitore principale.

In conclusione, il primo motivo di ricorso va accolto.

7.2. Anche il secondo motivo è fondato, nella parte in cui lamenta la violazione dell’art. 115 c.p.c. (non restando, invero, assorbito dall’accoglimento del primo).

7.2.1. In relazione ad esso, peraltro, va preliminarmente evidenziato come la ricorrente abbia soddisfatto le condizioni di ammissibilità e procedibilità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), riproducendo l’atto di acquisto dei coniugi L.- M. nella misura necessaria (e sufficiente) ad evidenziare il contenuto.

Orbene, l’assenza, nello stesso, della “clausola di salvaguardia”, integra effettivamente – come lamenta il motivo – un’ipotesi di “travisamento della prova”.

Secondo questa Corte, infatti, mentre “la denuncia di travisamento del fatto – che costituisce motivo di revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c. e non di ricorso per cassazione – è incompatibile con il giudizio di legittimità perchè implica la valutazione di un complesso di circostanze che comportano il rischio di una rivalutazione del fatto non consentita al giudice di legittimità”, deve, per contro, ritenersi ammissibile la censura di “travisamento della prova che implica, non una valutazione dei fatti, ma una constatazione o un accertamento che quella informazione probatoria, utilizzata in sentenza, è contraddetta da uno specifico atto processuale”; evenienza, quest’ultima, che ricorre quando “l’informazione probatoria riportata ed utilizzata dal giudice per fondare la decisione sia diversa ed inconciliabile con quella contenuta nell’atto e rappresentata nel ricorso o addirittura non esista” (così, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 25 maggio 2015, n. 10749, Rv. 635564-01; nello stesso senso si veda anche, più di recente, Cass. Sez. 3, sent. 21 gennaio 2020, n. 1163, Rv. 656633-02).

D’altra parte, questa Corte – come non manca di rammentare proprio l’odierna ricorrente, nell’illustrare il presente motivo – ha pure affermato che un conto è “l’errore di valutazione in cui sia incorso il giudice di merito”, il quale “investe l’apprezzamento della fonte di prova come dimostrativa, o meno, del fatto che si intende provare” e che “non è mai sindacabile in sede di legittimità”, altro è, invece, “l’errore di percezione”, che “cadendo sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, qualora investa una circostanza che ha formato oggetto di discussione tra le parti, è sindacabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione dell’art. 115 del medesimo codice, norma che vieta di fondare la decisione su prove reputate dal giudice esistenti, ma in realtà mai offerte” (Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01).

7.3. All’accoglimento dei primi due motivi di ricorso – con assorbimento sia del terzo (che riproduce, sotto altro angolo visuale, la stessa censura oggetto del secondo motivo), sia del quarto, giacchè, in questo caso, opera il principio secondo cui la “cassazione della sentenza di appello travolge la pronuncia sulle spese di secondo grado, perchè in tal senso espressamente disposto dall’art. 336 c.p.c., comma 1, sicchè il giudice del rinvio ha il potere di rinnovare totalmente la relativa regolamentazione alla stregua dell’esito finale della lite” (Cass. Sez. 3, sent. 14 marzo 2016, n. 4887, Rv. 639295-01 – segue la cassazione, in relazione, della sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, perchè decida nel merito, alla stregua dei principi ricavabili, in particolare, dal p. 7.1.3.

8. Le spese del presente giudizio saranno definite all’esito del giudizio di rinvio.

PQM

La Corte accoglie il primo e secondo motivo di ricorso, dichiarando assorbiti il terzo e il quarto, e cassa, in relazione, la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, perchè decida nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 28 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2020

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