Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12893 del 26/05/2010
Cassazione civile sez. I, 26/05/2010, (ud. 22/04/2010, dep. 26/05/2010), n.12893
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –
Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –
Dott. ZANICHELLI Vittorio – rel. Consigliere –
Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –
Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ordinanza
sul ricorso proposto da:
L.G., rappresentato e difeso dall’Avv. Marra Alfonso
Luigi, come da procura a margine del ricorso, domiciliato per legge
presso la cancelleria della Corte di Cassazione in Roma;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELLA ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro
tempore, rappresentato e difeso, per legge, dall’Avvocatura generale
dello Stato, e presso gli Uffici di questa domiciliato in Roma, Via
dei Portoghesi, n. 12;
– controricorrente –
per la cassazione del decreto della corte d’appello di Napoli
depositato il 30 agosto 2007.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
giorno 22 aprile 2010 dal Consigliere relatore Dott. Vittorio
Zanichelli.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
L.G. ricorre per cassazione nei confronti del decreto in epigrafe della corte d’appello che, liquidando Euro 16.250 per anni sedici e mesi tre di ritardo, ha accolto parzialmente il suo ricorso con il quale è stata proposta domanda di riconoscimento dell’equa riparazione per violazione dei termini di ragionevole durata del processo svoltosi in primo grado avanti al avanti al t.a.r. Campania e non ancora definito alla data di presentazione della domanda.
Resiste l’Amministrazione con controricorso.
La causa è stata assegnata alla camera di consiglio in esito al deposito della relazione redatta dal Consigliere Dott. Vittorio Zanichelli con la quale sono stati ravvisati i presupposti di cui all’art. 375 c.p.c..
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso con cui si deduce la violazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e della L. n. 89 del 2001 è inammissibile per inidoneità del quesito. Posto invero che “Il quesito di diritto costituisce il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale, risultando altrimenti inadeguata e quindi non ammissibile l’investitura stessa del giudice di legittimità: ne deriva che la parte deve evidenziare sia il nesso tra la fattispecie ed il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia, per ciascun motivo di ricorso il principio, diverso da quello posto alla base del provvedimento impugnato, la cui auspicata applicazione potrebbe condurre ad una decisione di segno diverso” (Cassazione civile, sez. 3, 9 maggio 2008, n. 11535) al richiamato canone non pare rispondere il quesito proposto che si limita ad enunciare un principio generale relativo ai rapporti tra normativa nazionale e Convenzione senza che risulti l’attinenza con la concreta fattispecie.
Il secondo e il terzo motivo con i quali si denuncia l’insufficiente quantificazione dell’equo indennizzo sono manifestamente infondati.
Premesso che la Corte ha enunciato il principio secondo cui “Secondo i parametri indicati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, ai quali il giudice nazionale è tenuto a conformarsi nell’applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 la durata ragionevole del processo (nella specie: dinanzi alla Corte dei conti in materia di pensione) è di tre anni in primo grado e di due anni in secondo grado; e l’equa riparazione deve essere liquidata in una somma variabile tra i mille ed i millecinquecento Euro per ciascun anno eccedente il termine ragionevole” (Cassazione civile, sez. 1, 3 gennaio 2008, n. 14), nessuna censura può essere mossa all’impugnata decisione che, quantificando in Euro 1.000 in ragione d’anno il danno morale conseguente all’irragionevole durata del processo eccedente i tre anni, si è attenuta ai richiamati parametri, non essendo stati evidenziati convincenti elementi che avrebbero dovuto comportare una maggiore liquidazione.
Con il quarto, il quinto e il sesto motivo, che per la loro connessione possono essere trattati congiuntamente, si deduce violazione della Convenzione e della L. n. 89 del 2001 e difetto di motivazione, in relazione al mancato riconoscimento del bonus di Euro 2.000 per la particolare natura della controversia (lavoro e previdenza).
I motivi sono manifestamente infondati, essendosi già affermato dalla Corte che “In tema di equa riparazione per eccessiva durata del processo, le considerazioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in merito alla centralità dell’occupazione e sulla relativa opportunità di riconoscere un bonus, svincolato da qualsiasi parametro e dovuto in considerazione dell’oggetto e della natura della controversia, non determinano alcun automatismo nell’indennizzo: tocca al giudice nazionale valutare caso per caso l’importanza della controversia senza alcun obbligo di motivazione laddove venga esclusa la liquidazione di una somma ulteriore rispetto agli standard fissati dalla Cedu e dalla L. n. 89 del 2001” (Cassazione civile, sez. 1, 12 gennaio 2009, n. 402).
Gli ulteriori motivi con cui si censura l’impugnata decisione per avere disposto la parziale compensazione delle spese pur in presenza della soccombenza dell’Amministrazione sono anch’essi manifestamente infondati dal momento che tale regolazione delle spese è ammessa allorquando sussistono giusti motivi (art. 92 c.p.c., comma 2) ed il giudice del merito ha pienamente ottemperato all’onere di motivazione sul punto congruamente ravvisandoli nel parziale accoglimento della domanda.
Il ricorso deve dunque esser rigettato con le conseguenze di rito in ordine alle spese.
PQM
la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione in favore dell’Amministrazione resistente delle spese del giudizio che liquida in Euro 800 per onorari, oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 22 aprile 2010.
Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2010