Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12882 del 09/06/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 12882 Anno 2014
Presidente: VIDIRI GUIDO
Relatore: AMOROSO GIOVANNI

SENTENZA

sul ricorso 29842-2011 proposto da:
GAM S.P.A.

C.F.

01565790795,

(quale incorporante

della SVICOM S.P.A.), in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata
in ROMA, VIA CHIANA 48, presso lo studio
dell’avvocato PILEGGI ANTONIO, che la rappresenta e
2014

difende, giusta delega in atti;
– ricorrente –

1032

contro

MUSACCO

ALESSANDRA

C.F.

MSCLSN75R41D0861,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B

Data pubblicazione: 09/06/2014

(STUDIO PESSI),

presso lo studio dell’avvocato

SAMENGO ALFREDO, rappresentata e difesa dall’avvocato
MASSIMO CUNDARI, giusta delega in atti;
– controri corrente –

avverso la sentenza n. 1362/2010 della CORTE

R.G.N. 1809/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 25/03/2014 dal Consigliere Dott. GIOVANNI
AMOROSO;
udito l’Avvocato PILEGGI ANTONIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ALBERTO CELESTE che ha concluso per
l’accoglimento del ricorso.

D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 30/11/2010

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con ricorso depositato dinanzi al Tribunale di Cosenza sez. lavoro,
Musacco Alessandra, dipendente della società GAM s.p.a., impugnava il
licenziamento disciplinare irrogatole dalla datrice di lavoro, chiedendone la
declaratoria di illegittimità e la condanna della parte convenuta alla reintegra ed al
risarcimento dei danni ed inoltre il riconoscimento della nullità del contratto di
formazione lavoro e della clausola di tempo parziale e lo svolgimento di mansioni

retributive.
A sostegno dell’impugnativa di licenziamento, deduceva l’irregolarità formale
e sostanziale dello stesso.
La datrice di lavoro resisteva alla domanda, sostenendo la piena legittimità
del licenziamento.
La domanda relativa all’impugnativa di licenziamento veniva accolta dal
Tribunale di Cosenza, che con sentenza non definitiva del 8/04/2008, dichiarava la
illegittimità del licenziamento e condannava la parte convenuta alla reintegra della
lavoratrice ed al risarcimento del danno ex art. 18 Sl. Lav.
2. Avverso la sentenza, proponeva appello la datrice di lavoro, deducendo che
il licenziamento era invece pienamente legittimo e censurava la sentenza di primo
grado per la errata interpretazione della contestazione disciplinare sul punto relativo
all’elemento soggettivo e per la errata valutazione degli addebiti, di cui non era stata
adeguatamente considerata la gravità.
Si costituiva la Musacco, che contestava le censure dell’appellante.
Con sentenza del 2-30.11.2010 la Corte d’appello di Catanzaro rigettava
l’appello e per l’effetto confermava l’impugnata sentenza.
3. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione la società con due motivi
illustrati anche con successiva memoria.
Resiste con controricorso la parte intimata.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. 11 ricorso è articolato in due motivi con cui si contesta l’adeguatezza e la
coerenza della motivazione dell’impugnata sentenza quanto al difetto di
proporzionalità e alla mancanza di dolo ritenuti dalla Corte d’appello.
2. Il ricorso — i cui motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto
connessi — è fondato.

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superiori oltre che la condanna del datore per diversi titoli al pagamento di differenze

3. La sentenza impugnata prende le mosse dal tenore della lettera di
contestazione che ha dato l’avvio al procedimento disciplinare conclusosi con la
sanzione espulsiva; lettera che descriveva in modo adeguatamente specifico i fatti,
peraltro non contestati dalla lavoratrice quanto al loro materiale accadimento.
L’addebito è consistito nell’aver la lavoratrice, operando occasionalmente come
cassiera di un supermercato, contabilizzato ad una cliente una spesa di importo pari
ad euro 68,19, poi annullando lo scontrino relativo alla stessa e lasciando che la

non utile allo scopo (perché non funzionante o incapiente), portasse via la spesa in
questione senza pagarla, allontanandosi dal supermercato.
Ha ritenuto la Corte d’appello che la condotta omissiva era consistita nel non
aver impedito il prelievo della merce medesima da parte della cliente ed
implicitamente anche di non aver immediatamente denunciato il fatto al datore di
lavoro o ad un suo incaricato.
Ha poi osservato la Corte d’appello che, limitandosi all’oggettività dei fatti,
non era desumibile dalla condotta della lavoratrice l’esistenza di un intento doloso
diretto a favorire la cliente nella sottrazione indebita della spesa acquistata. Ed
infatti – ha ulteriormente osservato la Corte territoriale – era risultato pacificamente
che la lavoratrice non fosse stabilmente addetta alla cassa, ma che nella circostanza
sostituiva momentaneamente altra cassiera. Il difetto di una stabile assegnazione alle
mansioni di cassiera – secondo la Corte d’appello – impediva a priori l’esistenza di un
intento doloso fraudolento diretto a danneggiare il datore di lavoro ed a favorire la
cliente. Tale circostanza sminuiva altresì la gravità colposa della condotta, atteso che
il mancato svolgimento stabile delle mansioni rendeva meno grave l’inadempimento.
trattandosi di lavoratrice che affrontava una situazione lavorativa senza la necessaria
esperienza. Ed allora ha ritenuto la Corte d’appello che, nel caso concreto, la scelta di
sanzionare le inadempienze della dipendente con il licenziamento era censurabile,
perché la datrice di lavoro non aveva correttamente valutato la gravità dei fatti
contestati, né aveva proporzionato ad essi la sanzione comminata.
4. Le circostanze di fatto dell’addebito (aver impedito il prelievo della merce
medesima da parte della cliente ed implicitamente anche la mancata immediata
denuncia del fatto al datore o ad un suo incaricato) deponevano – secondo la Corte
d’appello – per un «mero errore materiale nell’adempimento delle mansioni
occasionalmente espletate», errore materiale che non assumeva quella particolare
gravità necessaria a giustificare la sanzione espulsiva. La colpa della lavoratrice non
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cliente, che inizialmente aveva offerto di pagare con una carta di credito rilevatasi

era tale da legittimare il licenziamento essenzialmente perché non vi era alcuna prova
di un intento doloso, mentre la colpa – questa invece sì sussistente – assumeva profili
lievi in ragione della temporaneità dell’assegnazione alle mansioni. Inoltre la
lavoratrice, in sede di libero interrogatorio, aveva dichiarato, senza che nessuna
ulteriore prova acquisita l’avesse smentita, che al momento dei fatti contestati il
Direttore del supermercato non era presente. e che il giorno successivo essa stessa si
era comunque recata dal Direttore per chiarire la situazione.

integravano gli estremi della particolare gravità, prescritta quale concreta
applicazione del canone della giusta causa. necessari al fine dell’irrogazione della
sanzione espulsiva. Né la lesione dell’elemento fiduciario del rapporto di lavoro era
tanto grave da giustificare l’adozione della sanzione estrema del licenziamento.
5. Questa essendo la ricostruzione dei fatti, è essenzialmente la valutazione
di non proporzionalità dell’addebito alla sanzione del licenziamento disciplinare ad
essere contrastata dalle censure della società ricorrente che ha denunciato
l’insufficiente valutazione dell’elemento soggettivo che connota la condotta della
lavoratrice, per il resto sostanzialmente pacifica nella sua materialità.
Il dato centrale della vicenda in esame riguarda infatti proprio l’elemento
soggettivo essendo ben diversa la valutazione di proporzionalità della sanzione
all’addebito secondo che si tratti di dolo o di colpa grave o di colpa lieve. E’ evidente
che lo stesso comportamento addebitato alla lavoratrice, se doloso ed intenzionale,
avrebbe una ben diversa connotazione di gravità. Ma anche il comportamento
colposo è diversamente graduabile secondo che si tratti di colpa grave o di colpa
lieve.
Nella specie la Corte d’appello ha ritenuto che. non essendoci la prova del
dolo, alla lavoratrice era addebitabile una condotta negligente e colpevole: non aver
impedito alla cliente – una cliente abituale del supermercato e nota al personale della
stessa – di asportare la spesa fatta – e non potuta pagare dopo aver presentato una
carta di credito inidonea allo scopo (perché non funzionante o incapiente) allontanandosi dal supermercato e di non aver allertato alcuno perché la cliente non
si allontanasse ovvero riponesse la spesa fatta.
Invece la società ricorrente ascrive il comportamento della lavoratrice a dolo
e non già a colpa addebitando alla lavoratrice di avere intenzionalmente voluto
avvantaggiare la cliente – si legge nel ricorso – «simulando un normale acquisto» e
lasciando intendere, anche per il riferimento ad analogo episodio che, con la stessa
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Ha concluso la Corte d’appello che gli addebiti mossi alla lavoratrice non

cliente e lo stesso giorno, avrebbe visto come protagonista un’altra lavoratrice
nell’espletamento delle stesse mansioni di cassiera, una intesa (fraudolenta) con la
cliente.
6. Orbene, è vero che l’apprezzamento della gravità di tale condotta
negligente e colpevole e della sua idoneità a ledere il vincolo fiduciario con la datrice
di lavoro appartiene al tipico ambito della valutazione di merito non censurabile nel
giudizio di legittimità se assistito da motivazione sufficiente e non contraddittoria.

La corte d’appello ha ritenuto che mancava la prova del dolo e che anzi vi era
un elemento di fatto, pacifico in causa, che deponeva in senso contrario (il fatto che
la lavoratrice non fosse abitualmente adibita a mansioni di cassiera e che al momento
del fatto il direttore del supermercato non era presente perché era già andato via
avendo cessato il servizio).
Indubbiamente la circostanza che la lavoratrice solo occasionalmente si fosse
trovata a svolgere mansioni di cassiera e che in particolare nell’episodio in questione
aveva momentaneamente sostituito altra dipendente (questa sì abitualmente cassiera)
rendeva poco plausibile l’ipotesi del comportamento intenzionale e doloso. Ma ciò
non esauriva la valutazione dell’elemento soggettivo laddove la Corte d’appello, con
un evidente salto logico, degrada la colpa in “svista”, in errore di percezione, perché
sintetizza l’episodio qualificandolo come «mero errore materiale»; così aderendo
pienamente alla tesi della lavoratrice la quale, nella lettera di giustificazione, ha
sostenuto di non essersi accorta che la cliente, invece di riporre la spesa fatta, non
potendola pagare con la carta di credito, l’avesse portata via allontanandosi dal
supermercato.
Però la tesi del «mero errore materiale» non discende direttamente dalla
ritenuta esclusione di elementi che avrebbero potuto deporre per una condotta dolosa.
Il comportamento minimo esigibile per chi svolge mansioni di cassiere ad un
supermercato è quello di richiedere dagli avventori il pagamento della merce
prelevata ovvero di pretendere la restituzione della merce ove il pagamento non
possa aver luogo ovvero ancora di “reagire” in qualche modo nel caso in cui
l’avventore mostri di volersi allontanare dall’esercizio commerciale portando con sé
la merce prelevata e non pagata. L’ipotesi della “svista”

(le. «mero errore

materiale») in cui sarebbe incorsa la lavoratrice – la quale avrebbe sì invitato la
cliente a depositare la spesa che non poteva pagare per essere risultata non
funzionante o incapiente la sua carta di credito, ma poi non si sarebbe accorta che la
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Ma occorre che ci sia conseguenzialità logica in tale valutazione di merito.

cliente, disattendendo o equivocando il suo invito, si sarebbe avviata all’uscita del
supermercato portando con sé la merce non pagata (che, per essere puntualmente
elencata nella lettera di contestazione dell’addebito, era apprezzabilmente
voluminosa) – avrebbe dovuto essere verificata ed approfondita; ben diversa è ad es.
la situazione di un’unica cassa con avventori in fila che abbiano già depositato la
merce prelevata e che premano per il pagamento della stessa e la situazione di
plurime casse o di pochi avventori che avrebbero consentito alla lavoratrice di

fila. La prima rende plausibile la “svista”; la seconda assai meno.
Inoltre la prospettiva dell’«errore materiale» avrebbe richiesto anche un
approfondimento di quella che sarebbe stata, il giorno dopo, la

discovery del

prelevamento ed asporto della merce non pagata. La Corte d’appello si limita ad
affermare che la lavoratrice si recò dal direttore del supermercato «per chiarire la
situazione», ma non indaga su come la stessa si sia accorta o sia venuta a conoscenza
del suo errore. Nell’interrogatorio libero – che risulta riportato in virgolettato dalla
società ricorrente in ricorso – la lavoratrice ha dichiarato che il giorno dopo l’episodio
in questione la cliente si recò al box informazioni del supermercato e le disse che
«qualcuno l’aveva vista». E solo dopo la lavoratrice si recò dal direttore del
supermercato per «chiarire la situazione»; ma l’affermazione ambigua – “vista” nel
senso di “scoperta” ? – avrebbe richiesto un chiarimento anche nel processo
In sintesi, la Corte d’appello, dopo aver motivatamente ritenuto non provato il
dolo e l’intenzionalità della condotta, ha operato un salto logico nell’affermare che si
era trattato di un «mero errore materiale», che può iscriversi alla fattispecie della
colpa lieve, senza considerare le sopra richiamate circostanze al contorno per
escludere l’ipotesi intermedia, quella della colpa cosciente (ossia aver
negligentemente, ma consapevolmente, consentito alla cliente di allontanarsi dal
supermercato con la spesa non pagata).
Questa carenza motivazionale e di indagine – che avrebbe potuto essere
colmata con l’attivazione dei poteri officiosi del giudice d’appello ex art. 437,
secondo comma, c.p.c. (Cass., sez. lav., 10 gennaio 2005, n. 278; 4 maggio 2012, n.
6753) – rende perplessa, e quindi inficia, anche la motivazione sulla ritenuta non
proporzionalità della sanzione espulsiva (il licenziamento disciplinare) all’addebito.
7. Il ricorso va pertanto accolto e l’impugnata sentenza va cassata con rinvio,
anche per le spese di questo giudizio, alla Corte d’appello di Reggio Calabria che
colmerà la lacuna motivazionale sopra evidenziata, fermo restando, ovviamente, che
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espletare le sua mansioni di cassiera con tranquillità e senza la pressione di clienti in

ex art. 5 legge n. 604 del 1966 (tuttora vigente ex dell’art. 1 d.lgs. 1° dicembre 2009,
n. 179) grava sulla datrice di lavoro l’onere della prova della giusta causa o del
giustificato motivo del licenziamento e quindi anche dell’elemento soggettivo della
condotta addebitata alla lavoratrice.
PER QUESTI MOTIVI

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per
le spese di questo giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Reggio Calabria.

Il Consigliere

Il Presidente

Così deciso in Roma il 25 marzo 2014

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