Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12873 del 10/06/2011

Cassazione civile sez. II, 10/06/2011, (ud. 14/04/2011, dep. 10/06/2011), n.12873

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GOLDONI Umberto – Presidente –

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.L. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato BELMONTE GUIDO;

– ricorrente –

contro

E.A., C.E.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 381/2005 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 10/02/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/04/2011 dal Consigliere Dott. UMBERTO GOLDONI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione del 1992, E.A. convenne di fronte al tribunale di Napoli C.E. e P.L., esponendo che tra i predetti si era, con atto del 1985, raggiunto un accordo per definire i confini tra le rispettive proprietà, tramite i rispettivi tecnici, con espressa previsione del fatto che ove i predetti non fossero stati d’accordo, ciascuna parte avrebbe potuto chiedere al Presidente del Tribunale la nomina di un terzo tecnico, cosa che era avvenuta su sua iniziativa; il Presidente con suo decreto, aveva nominato un tecnico, l’ing. Li., il quale, ritenendosi arbitro unico, aveva redatto una consulenza senza la partecipazione dei tecnici di parte. Eccepita formalmente dall’ E. l’avvenuto decorso del termine per il deposito della sentenza arbitrale, il Li. aveva successivamente depositato la sua consulenza.

Sosteneva l’ E. che tale atto non avrebbe potuto avere alcun valore tra le parti, anche per la presenza di errori marchiani;

chiedeva pertanto che, dopo un nuovo accertamento tecnico, fossero determinati i confini, con accertamento dell’avvenuta appropriazione, da parte della C., di un cospicua porzione del suo fondo e dello sconfinamento operato dal P. con un suo muro,con condanna dei predetti alla restituzione di quanto usurpato ed al risarcimento dei danni.

I convenuti si costituivano, resistendo alla domanda attorea sulla base di più argomentazioni; con sentenza del 1994, fu respinta la domanda dell’ E., condannato al pagamento delle spese processuali.

Avverso tale sentenza proponeva impugnazione il soccombente, cui resistevano le controparti.

Con sentenza in data 20.10.2004/10.2.2005, la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza impugnata, determinava il confine tra le proprietà C. ed E.; condannava il P. a ad abbattere il muro de quo per mt. 3,40 e compensava le spese.

Osservava la Corte partenopea che con la scrittura privata del 29.10.1985, le parti, considerato il tenore della stessa, non intesero concludere un lodo rituale vero e proprio.

Pur trattandosi quindi di arbitrato irrituale, lo stesso, in ragione di errori di fatto e di tipo ostativo in cui era incorso il Li., era da ritenersi nullo, e quindi, per decidere sulle domande proposte doveva farsi riferimento alle risultanze peritali attendibili, in ragione delle quali, si perveniva alle statuizioni surriportate.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre, sulla base di due motivi, illustrati anche con memoria, il P.; gli intimati non hanno svolto attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1349 c.c., dell’art. 1362 c.c. e segg. e dell’art. 112 c.p.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione;

la censura si incentra sulla mancata attribuzione all’elaborato del Li. natura di arbitraggio e non di arbitrato irrituale.

Si evidenzia, sotto il profilo della dedotta violazione di legge, che ricorre l’ipotesi di arbitraggio quando due o più parti rimettono ad un terzo la determinazione di un elemento mancante di un negozio tra loro concluso, mentre si ha arbitrato irrituale ove le parti chiedano ad un giudice di dirimere (irritualmente) una controversia tra di loro insorta.

Ovviamente il fulcro della questione va ravvisato nell’interpretazione della scrittura del 29 ottobre 1985; la Corte partenopea ha ritenuto che in ragione del complesso di tale atto ed in applicazione del canone ermeneutico letterale, oltre che logico, le parti avessero inteso devolvere proprio la risoluzione di una controversia tra loro insorta ad un arbitro.

La contraria tesi sostenuta nel motivo in esame sembra prescindere del tutto dalla constatazione secondo cui in base all’art. 1 di detta scrittura, le parti avevano inteso rimettere la intera controversia tra loro insorta, in ragione della incertezza dei confini tra i rispettivi fondi e dei successivi contrasti, ai tecnici da loro stesse nominati, con la previsione della nomina di un terzo in caso di disaccordo.

Premesso che l’interpretazione degli atti è compito istituzionalmente devoluto alla discrezionale valutazione del giudice del merito e che la valutazione da questi effettuata è sindacabile in sede di legittimità solo in caso di violazione dei canoni ermeneutici stabiliti dalla legge o di evidente contrasto logico ravvisabile in essa, va rilevato come nella specie, sulla base del dato letterale, sia assolutamente evidente che le parti avevano inteso porre fine ad una controversia, nei suoi multiformi aspetti e non già devolvere all’arbitratore un singolo elemento del negozio.

La semplice lettura della scrittura de qua non lascia dubbi in proposito, in relazione all’ampiezza dei risultati che si volevano raggiungere, tali da elidere qualunque ulteriore motivo di contrasto tra esse, cosa che è sintomo univoco della avvenuta previsione di un arbitrato, sia pure libero, ma non certo di un arbitraggio.

In base alle considerazioni svolte, la lamentata violazione delle norme sostanziali non sussiste.

Ma neppure sussiste la dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., atteso che la qualificazione dell’atto come effettuata vale a respingere implicitamente, ma non per questo meno chiaramente, la diversa tesi prospettata sulla natura dell’arbitrato, cosa questa che vale ad escludere il vizio di omessa pronuncia; poichè tale argomentazione elide anche ogni vizio motivazionale al riguardo, il motivo in esame non può pertanto trovare accoglimento.

Con il secondo mezzo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1428, 1429 e 1431 c.c. e vizio di motivazione; ci si duole che la sentenza impugnata sia incorsa in gravi imprecisioni nella valutazione della realtà effettiva dei luoghi, sotto il profilo oggettivo ed in relazione agli elementi acquisiti al riguardo, donde la insussistenza di errori di fatto essenziali nell’elaborato del Li., tali da determinare una pronuncia di annullamento del lodo arbitrale.

La questione, come posta, non può trovare accoglimento; le ragioni addotte a fondamento di quelli che sono definiti errori contenuti nella sentenza in relazione allo stato dei luoghi attengono in larga parte ad una operazione di ricostruzione sulla carta della consistenza e della dislocazione dei diversi fondi e comporterebbero quindi una valutazione di fatto, necessitante dell’esame del materiale acquisito da parte di questa Corte, operazione certamente non consentita nella presente sede di legittimità, atteso che non può dirsi emergente al di là di ogni perplessità, l’evidenza delle considerazioni svolte al riguardo in ricorso.

In altre parole, la critica svolta in ricorso con diligenza alle conclusioni raggiunte nella sentenza impugnata comporta il riscontro delle argomentazioni svolte a sostegno, ma tale riscontro non può avvenire sulla sola base di una tesi di parte, per quanto puntuale, ma necessiterebbe di una articolata analisi del materiale probatorio tutto, che questa Corte, in presenza di denuncia di un vizio attinente a norme sostanziali, non è facultizzata a compiere.

Il motivo in esame deve essere anch’esso pertanto respinto e, con esso, il ricorso. Non v’ha luogo a provvedere sulle spese.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 14 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2011

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