Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12865 del 21/06/2016


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Cassazione civile sez. VI, 21/06/2016, (ud. 22/04/2016, dep. 21/06/2016), n.12865

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – rel. Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25198/2014 proposto da:

B.M., + ALTRI OMESSI

elettivamente domiciliati

in ROMA, VIA G. PISANELLI 2, presso lo studio dell’avvocato

STEFANO DI MEO, che li rappresenta e difende unitamente

all’avvocato GIOVANNI GAETANO PONZONE giusta mandato speciale in

calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 1997/2011 R.G.V.G. della CORTE D’APPELLO di

LECCE del 4/06/2013, depositato il 02/04/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/04/2016 dal Consigliere Relatore Dott FELICE MANNA;

udito l’Avvocato Stefano Di Meo difensore dei ricorrenti che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso.

Fatto

IN FATTO

Con ricorso del 13.12.2011 le odierne parti ricorrenti adivano la Corte d’appello di Lecce per ottenere la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento di un equo indennizzo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, in relazione all’art. 6, par. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Processo presupposto una procedura fallimentare aperta innanzi al Tribunale di Bari e ancora pendente alla data della domanda di equa riparazione, nella quale dette parti avevano presentato istanza d’ammissione allo stato passivo il 2.2.1999.

Resisteva il Ministero.

Con decreto del 2.4.2014 la Corte d’appello adita accoglieva la domanda per quanto di ragione. Stimata in sei anni la durata ragionevole della procedura fallimentare presupposta, calcolava in sei anni la durata eccedente e liquidava per ciascuna parte ricorrente la somma di Euro 5.250,00, in ragione di Euro 750,00 per ciascuno dei primi tre anni di ritardo e di Euro 1.000,00 per ogni anno successivo.

La cassazione di tale decreto è chiesta dai ricorrenti meglio specificati in epigrafe, in base a due motivi.

Resiste con controricorso il Ministero della Giustizia.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo denuncia la violazione o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, commi 1 e 2 (nel testo, applicabile ratione temporis, precedente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012), art. 6, par. 1, CEDU, art. 115 c.p.c. e artt. 1223, 1226 e 2056 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

E’ contestata la durata di sei anni ritenuta ragionevole dalla Corte territoriale. Semplice in sè la procedura, omogeneo il ceto creditorio, non complessa la liquidazione dei beni mobili, assenti quelli immobili, non esperiti endoprocedimenti nè esercitate azioni di recupero dell’attivo, il fallimento avrebbe potuto chiudersi ragionevolmente in tre o al massimo in cinque anni.

E’ dedotta, inoltre, l’assoluta rilevanza della posta in gioco in ragione delle condizioni socio-economiche dei ricorrenti, insinuatisi nello stato passivo per il pagamento di crediti di lavoro. Di qui l’insufficienza dell’indennizzo, liquidato in misura inferiore al richiesto (Euro 1.200,00 ad anno).

2. – Il secondo mezzo d’annullamento lamenta l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio e discussi dalle parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, per non aver la Corte distrettuale operato alcun riferimento ai numerosi elementi probatori offerti dai ricorrenti per stimare in misura inferiore la durata ragionevole del fallimento e quantificare l’indennizzo annuo in misura più elevata.

3. – I due motivi, da esaminare congiuntamente per la loro sostanziale ripetitività, sono inammissibili.

Premesso che non basta evocare la violazione di norme di legge nè intitolare i motivi di ricorso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per strutturare censure di natura corrispondente, va osservato che i due mezzi d’annullamento proposti svolgono una medesima doglianza sulle valutazioni di merito operate dalla Corte distrettuale.

Tanto sulla duplice ed erronea supposizione che l’errato apprezzamento dei fatti provochi di riflesso il malgoverno delle norme di legge applicabili; e che l’omesso esame degli elementi istruttori favorevoli alla parte vulneri per ciò stesso e per ciò solo la decisione di segno contrario.

Ne risulta, sotto il primo profilo, il contrasto con il costante indirizzo di questa Corte Suprema, secondo cui il vizio di violazione e falsa applicazione della legge, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. nn. 16132/05, 26048/05, 20145/05, 1108/06, 10043/06, 20100/06, 21245/06, 14752/07, 3010/12 e 16038/13).

Sotto il secondo profilo, va invece osservato che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extrates:tuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. S.U. n. 8053/14).

Nella specie i fatti storici decisivi – durata della procedura fallimentare presupposta, partecipazione ad essa dei ricorrenti e interessi ivi in gioco – sono stati esaminati dalla Corte d’appello, che li ha valutati operando il conseguente apprezzamento di fatto.

Non aver considerato tutti gli elementi istruttori disponibili, idonei o non che fossero a consentire una decisione in tutto o in parte diversa, attiene ad una valutazione di puro merito che, per le ragioni anzi dette, non è sindacabile in questa sede di legittimità.

4. – Il ricorso va, pertanto, respinto.

5. – Conseguono le spese, liquidate come in dispositivo, a carico dei ricorrenti in solido fra loro.

6. – Rilevato che dagli atti il processo risulta esente dal pagamento del contributo unificato, non si applica il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, alle spese, che liquida in Euro 500,00, oltre spese prenotate e prenotande a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 2 della Corte Suprema di Cassazione, il 22 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2016

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