Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12856 del 26/05/2010

Cassazione civile sez. lav., 26/05/2010, (ud. 12/05/2010, dep. 26/05/2010), n.12856

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – Consigliere –

Dott. COLETTI DE CESARE Gabriella – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. MORCAVALLO Ulpiano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 20646-2007 proposto da:

B.V., P.E., nella qualità di eredi della

Sig.ra P.S.T., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA CRESCENZIO 20, presso lo studio dell’avvocato TRALICCI GINA, che

li rappresenta e difende, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati RICCIO

ALESSANDRO, VALENTE NICOLA, GIANNICO GIUSEPPINA, giusta mandato in

calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati ALESSANDRO

RICCIO, VALENTE NICOLA, BIONDI GIOVANNA, PULLI CLEMENTINA, giusta

mandato in calce alla copia notificata del ricorso;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 4397/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 12/07/2006 r.g.n. 9329/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/05/2010 dal Consigliere Dott. ULPIANO MORCAVALLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DESTRO Carlo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’appello di Roma, respingendo l’appello proposto da P.S.R., ha confermato la decisione del Tribunale di Roma, con cui era stata rigettata la domanda della predetta, intesa ad ottenere il riconoscimento del diritto alla maggiorazione sulla pensione ai sensi della L. n. 140 del 1985, art. 6 per difetto di prova in ordine alla qualità di “combattente” in capo al coniuge defunto della ricorrente. In particolare, la Corte di merito rilevava che il documento attestante la predetta qualità era stato prodotto, inammissibilmente, per la prima volta in appello, in violazione dell’art. 437 c.p.c., si che, essendo insufficiente la dimostrazione del semplice servizio prestato per l’esercito italiano, come risultante dal foglio matricolare, non potevano configurarsi le condizioni per il riconoscimento della domandata maggiorazione.

2. Di tale sentenza domandano la cassazione gli eredi dell’attrice, B.V. e P.E., con un motivo di impugnazione l’INPS resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con l’unico motivo si denuncia violazione degli art. 416 e 437 c.p.c., lamentandosi che la sentenza impugnata abbia erroneamente escluso la ammissibilità del documento prodotto in appello sebbene si trattasse di un documento, già in possesso della pubblica amministrazione, meramente integrativo della documentazione già acquisita in primo grado, attestante la prestazione di servizio per l’esercito italiano.

2. Il ricorso è fondato.

2.1. La giurisprudenza di questa Corte, nella sua evoluzione più recente espressa da alcune decisioni della Sezione lavoro, ha delineato una funzione di contrappeso di una precedente tendenza restrittiva, intesa a riportare il giudizio d’appello nel sistema di preclusioni delineato dal Legislatore del 1973 (cfr., sul punto, Cass. n. 775 del 2003). In particolare, si tratta di decisioni che presuppongono l’esattezza di alcune delimitazioni, e in particolare l’inammissibilità, anche in via eccezionale, di mezzi di prova preclusi, ma, nel contempo, avvertono l’esigenza di un qualche rimedio idoneo all’accertamento della verità materiale, nell’ambito di un processo in cui sono coinvolti interessi meritevoli di particolare tutela.

Questo rimedio riequilibratore è stato individuato nella possibilità, per il giudice d’appello, di esercitare i poteri officiosi di cui all’art. 437 c.p.c. in tutti i casi in cui questi siano diretti al definitivo accertamento di fatti costitutivi (o impeditivi, estintivi ecc.) allegati nel giudizio di primo grado e, se pure in modo incompleto, risultanti da mezzi di prova già dedotti ritualmente in quel giudizio (cd. piste probatorie o di indagine). Si segnala, per la particolarità della fattispecie e la sua analogia con quella in esame, la sentenza n. 8220 del 2003, che ha ritenuto ammissibile la prova testimoniale dedotta per la prima volta in appello (secondo la sequenza: prova documentale-prova orale), in quanto finalizzata ad approfondire le risultanze istruttorie di primo grado, costituite da documenti ritualmente acquisiti agli atti del giudizio di primo grado. Si trattava, nella specie, di accertare il requisito della esposizione a rischio (polveri di cemento) in relazione a domanda di rendita INAIL per malattia professionale (broncipneumopatia) avanzata da un lavoratore: in primo grado la domanda era stata respinta per carenza di prova in ordine a tale requisito; il giudice d’appello, sul presupposto della preesistenza di altri elementi valutativi (fra cui un certificato dell’INAIL attestante l’avvenuta prestazione di attività lavorativa come “impiantista betonaggio”), ha ammesso una prova per testi – dedotta per la prima volta in quel grado – relativa alle mansioni espletate dal lavoratore e, sulla base delle relative risultanze (essendo emerso che questi aveva lavorato per sei anni nell’insaccamento e travaso di cemento fuso), aveva accolto la domanda; la Corte ha respinto il ricorso dell’Istituto, basato sulla violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2, fondando la propria decisione su queste osservazioni:

a) in generale, anche al giudice di appello è riconosciuto il potere di disporre d’ufficio nuovi mezzi di prova, purchè questi siano considerati come indispensabili ai fini della decisione della causa e la parte interessata non sia incorsa in decadenza;

b) l’operatività di tale ultimo limite, rappresentato dell’avvenuta decadenza della parte, va ulteriormente precisata, nell’ambito di una evidenziata esigenza di contemperamento del principio dispositivo con il principio di ricerca della verità materiale, in particolare nel rito del lavoro e nella materia della previdenza e assistenza, nel senso che, allorchè le risultanze di causa offrono significativi dati di indagine, occorre che il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, eserciti il potere-dovere di provvedere di ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale probatorio e idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, sempre che tali fatti siano stati puntualmente allegati nell’atto introduttivo, senza che a ciò sia di ostacolo il verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti interessate;

c) il potere d’ufficio è diretto a vincere, in relazione alla verifica dei fatti costitutivi del diritto fatto valere, i dubbi residuati dalle risultanze istruttorie, intese come complessivo materiale probatorio tanche documentale) correttamente acquisito agli atti del giudizio di primo grado, e non può invece supplire ad una totale carenza di elementi di prova, con la conseguenza che, ove tali elementi siano invece presenti, non si pone, propriamente, alcuna questione di preclusione o decadenza processuale a carico della parte, dato che la prova nuova, disposta d’ufficio, altro non è se non l’approfondimento, ritenuto indispensabile, di elementi probatori che siano già ritualmente acquisiti, e quindi obiettivamente presenti nella realtà del processo.

2.1. Sulla scorta di tali tendenze, nell’ambito della descritta evoluzione giurisprudenziale, sono intervenute le Sezioni unite con la sentenza n. 8202 del 2005: premessa un’ampia ricostruzione dei variegati orientamenti della giurisprudenza e della dottrina, la sentenza si ricollega alle esigenze da ultimo sottolineate, quanto alla necessità di rendere compatibili tutela sostanziale e coerenza del sistema processuale. In particolare, la ratio decidendi è fondata essenzialmente sulla circolarità esistente fra gli oneri di prova e l’onere di allegazione e contestazione, siccome delineato, quest’ultimo, dalla nota sentenza delle Sezioni unite n. 761 del 2002 e divenuto ormai cardine del sistema processuale, e cioè, da un lato, riferito sia all’attore che al convenuto e, dall’altro, caratterizzato da una tendenziale irreversibilità (dovendosi fare salvi i casi di contestazione di atti successivi a quelli introduttivi) “in piena coerenza con la struttura del processo che, nel rito del lavoro, è finalizzata a far si che all’udienza di discussione la causa giunga delineata in modo compiuto, quanto ad oggetto e ad esigenze istruttorie”: circolarità che – nell’ambito di una esigenza di concentrazione e celerità che è espressione della garanzia della ragionevole durata del processo – significa reciproco condizionamento e necessaria correlazione che lega l’attività di deduzione delle prove fattitività istruttoria) e quella di introduzione dei relativi fatti da provare (attività assertiva).

Con queste premesse sistematiche, la sentenza esclude, coerentemente, un regime diversificato fra prove costituite e prove costituende, considerato peraltro ingiustificato alla stregua della lettera della norma e dello stesso sistema codicistico (che invece configura, secondo le Sezioni unite, un rapporto – fra documenti e mezzi di prova – di species a genus), tanto più in considerazione del fatto che la produzione tardiva di documenti può determinare la protrazione del processo in dipendenza della proposizione di querele di falso e istanze di verificazione e della deduzione di mezzi di prova ulteriori connessi alla documentazione prodotta ex novo.

In conclusione, secondo la pronuncia delle Sezioni unite, l’omessa indicazione nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado dei documenti e l’omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall’evolversi della vicenda processuale successivamente al incorso ed alla memoria di costituzione. E ciò vale anche per la successiva fase di giudizio, posto che l’inosservanza degli oneri correlati al rispetto di termini perentori comporta una preclusione definitiva e irreversibile.

Ne contempo, il sistema così delineato non impedisce – per le Sezioni unite – la possibilità di un esercizio dei poteri officiosi del giudice del lavoro, anche d’appello, che funzioni da ammortizzatore per l’eventualità che la predetta verità materiale si allontani da quella emersa nel processo rebus sic stantibus, sempre che le nuove prove, ritenute indispensabili, attengano a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti. Per il perseguimento del quale risultato la sentenza si richiama alla soluzione adottata dalla pronuncia – sopra ricordata – aderente alla teoria delle piste probatorie – “allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti”.

La condizione, quindi, per la ammissibilità eccezionale, anche d’ufficio, di prove indispensabili per la dimostrazione (o la negazione) di fatti costitutivi allegati (o contestati) è pur sempre la preesistenza di altri mezzi istruttori, ritualmente dedotti e acquisiti, meritevoli di approfondimento.

2.3. Alla stregua di tali principi, è di tutta evidenza, nella fattispecie in esame, che la produzione in appello del documento attestante la partecipazione del coniuge della ricorrente ad operazioni di guerra era meramente integrativa di un fatto già allegato e discusso in primo grado, nonchè esattamente documentato, quale la prestazione di servizio militare per l’esercito italiano durante il periodo bellico, dovendone conseguire, perciò, l’ammissibilità della produzione.

3. Ne deriva che il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla stessa Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, che definirà la controversia attenendosi ai principi di diritto sopra enunciati. Lo stesso giudice di rinvio pronuncerà altresì sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 12 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2010

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