Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12835 del 21/06/2016


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Cassazione civile sez. lav., 21/06/2016, (ud. 05/04/2016, dep. 21/06/2016), n.12835

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ANTONIO Enrica – Presidente –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – rel. Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23683-2010 proposto da:

C.M., C.f. (OMISSIS), elettivamente domiciliata

in ROMA, VIA OTRANTO 18, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA

MURET, rappresentata e difesa dall’avvocato EUGENIO DI BISCEGLIE,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, C.F.

(OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA n. 29 presso

l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli

avvocati MAURO RICCI, CLEMENTINA PULLI, ANTONELLA PATTERI e

SERGIO PREDEN giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 706/2009 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 06/10/2009, R.G. N. 1496/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/04/2016 dal Consigliere Dott. ADRIANA DORONZO;

udito l’Avvocato NICOLA DI PIERRO per delega EUGENIO DI

BISCEGLIE;

udito l’Avvocato CLEMENTINA PULLI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per l’inammissibilità e in

subordine per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La Corte d’appello di Salerno, con sentenza depositata il 6 ottobre 2009, ha accolto l’appello proposto dall’Inps contro la sentenza resa dal Tribunale di Sala Consilina, che aveva condannato l’Inps a corrispondere a C.M. l’assegno ordinario di invalidità a far data dal 1 gennaio 2008.

2. La Corte, per quel che ancora rileva in questa sede, ha posto a fondamento della sua decisione la consulenza tecnica d’ufficio disposta in grado di appello, la quale aveva accertato che le malattie da cui era affetta la ricorrente (spondilo-artrosi cervico lombare con discopatie lombari multiple in soggetto con esiti di intervento di acromion plastica spalla destra e di tenolisi flessore mano destra; esiti di isterectomia bilaterale e perineo plastica;

insufficienza venosa cronica arti inferiori in soggetto già operato di varicectomia gamba destra; ipoacusia lieve bilaterale e astigmatismo 00), nel loro complesso non determinavano una riduzione in modo permanente della capacità lavorativa in occupazioni confacenti alle sue attitudini e che la sindrome depressiva non aveva trovato conferma in certificazioni mediche relative a visite eseguite presso la ASL. 3. Contro la sentenza la C. propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi, cui resiste con controricorso l’Inps.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo denuncia la violazione degli art. 61 c.p.c. e ss.;

art. 112 c.p.c.; art. 113 c.p.c., comma 1; art. 115 c.p.c.; art. 116, commi 1 e 2; art. 191 c.p.c. e ss.; art. 221 c.p.c.; in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La parte lamenta l’inadempimento del consulente tecnico d’ufficio che avrebbe fatto la diagnosi senza tener conto della documentazione medica della paziente acquisita solo successivamente alla visita; che il giudice non avrebbe tenuto conto di un esposto penale in cui si era evidenziato che il c.t.u. in sede di visita si era limitato a misurare il battito cardiaco della ricorrente e prendere una copia del referto tac. 2. Con il secondo motivo si denuncia l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio, costituito da prove anche documentali delle malattie lamentate, in particolare della sindrome depressiva, nonchè dalla prova della pretesa insufficienza della capacità lavorativa.

3. Il primo motivo è inammissibile perchè la parte non trascrive nè riporta, neppure nelle sue parti salienti, il contenuto della consulenza tecnica d’ufficio, della denuncia penale che avrebbe sporto e della querela di falso, cui fa solo un cenno nell’intestazione dei motivi senza aggiungere alcunchè nella sintetica esposizione dei motivi, in cui è del tutto omesso ogni riferimento alle affermazioni della Corte in contrasto con le norme citate. In tal modo la parte non rispetta il principio di autosufficienza o meglio di specificità dei motivi stessi, in base al quale qualora il ricorrente per cassazione si dolga dell’omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice del merito (come accade nella specie con riguardo alla consulenza tecnica d’ufficio ed alla denuncia e alla querela di falso), per rispettare il suddetto principio – da intendere alla luce del canone generale “della strumentalità delle forme processuali” – ha l’onere di indicare nel ricorso il contenuto rilevante del documento stesso, fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali e assolvendo, così, il duplice onere, rispettivamente previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (a pena di inammissibilità) e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (a pena di improcedibilità del ricorso), nel rispetto del relativo scopo, che è quello di porre il Giudice di legittimità in condizione di verificare la sussistenza del vizio denunciato senza compiere generali verifiche degli atti e soprattutto sulla base di un ricorso che sia chiaro e sintetico (Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. S.U. 3 novembre 2011, n. 22726; v. fra le altre Cass., 17 luglio 2007, n. 15952; Cass. 24 maggio 2006, n. 12362; Cass. 5 settembre 2003, n. 13012; Cass. 25 agosto 2003, n. 12468).

4. Deve poi rilevarsi che nel ricorso per cassazione il vizio della violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’ inammissibilità, dedotto non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass., 26 giugno 2013, n. 16038). Il motivo di ricorso non è stato formulato nel rispetto di queste regole ed esso pertanto è inammissibile.

5. Il secondo motivo è infondato. La Corte ha ampiamente motivato le ragioni per le quali ha ritenuto di non riconoscere la provvidenza richiesta, richiamando il contenuto della consulenza tecnica d’ufficio e precisando che l’esame del consulente è stato condotto non solo in base all’esame clinico diretto della ricorrente ma anche sulla base della documentazione prodotta e che tra tale documentazione non era stato reperito alcun certificato psichiatrico di strutture pubbliche che confermasse una reale sindrome depressiva, ritenuta dal consulente d’ufficio “meramente soggettiva”. Si è in presenza di un giudizio compiuto, rispetto al quale la ricorrente prospetta un mero dissenso diagnostico, inammissibile in questa sede:

ed invero, il vizio, denunciabile in sede di legittimità, della sentenza che abbia prestato adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, è ravvisabile in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata, o nell’omissione degli accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, mentre al di fuori di tale ambito la censura costituisce mero dissenso diagnostico che si traduce in un’inammissibile critica del convincimento del giudice, pretendendo da questa Corte un sindacato di merito inammissibile (v. Cass., ord. 3 febbraio 2012, n. 1652).

6. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato e la ricorrente deve esser condannata al pagamento delle spese del presente giudizio, in applicazione del criterio della soccombenza, essendo stato il giudizio introdotto (in data 19/11/2007, come emerge dalla sentenza) successivamente alla modifica dell’art. 152 disp. att. c.p.c., per effetto della L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 42, convertito con modificazioni nella L. 24 novembre 2003, n. 326 e non essendovi agli atti l’apposita dichiarazione sostitutiva di certificazione sull’entità dei redditi di cui la parte è titolare, necessaria per usufruire della esenzione dalle spese processuali.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 2.600,00, di cui Euro 100 per esborsi, oltre al 15% di spese generali e altri accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 5 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2016

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