Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12824 del 21/06/2016


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Cassazione civile sez. lav., 21/06/2016, (ud. 03/03/2016, dep. 21/06/2016), n.12824

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19548/2013 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A, C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DEI DUE MACELLI 66, presso lo studio dell’avvocato GIAMPIERO

FALASCA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FABIO

ELEFANTE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

R.G.G., C.F. (OMISSIS), elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA CASSIODORO 6, presso lo studio

dell’avvocato GIANNA BALDONI, rappresentata e difesa dall’avvocato

FILIPPO RAFFA, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 85/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 12/02/2013 R.G.N. 370/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/03/2016 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito l’Avvocato MANTELLA ROBERTO per delega Avvocato FALASCA

GIAMPIERO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 22/1/13 – 12/2/13, la Corte d’appello di Milano ha respinto l’impugnazione proposta dalla società Poste Italiane s.p.a. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale della stessa sede che l’aveva condannata a reintegrare R.G. G. nel posto di lavoro a seguito di accertata illegittimità del licenziamento intimatole il 18/11/2009 per fatti che avevano costituito oggetto di condanna penale per il reato di truffa aggravata in danno della società consistita nell’illecita registrazione delle presenze sul luogo di lavoro mediante utilizzo del tesserino identificativo personale (c.d.”badge”).

La Corte ha condiviso il convincimento del primo giudice sul fatto che la società era venuta a conoscenza dei predetti comportamenti già nel mese di ottobre del 2007, per cui era da considerare tardiva la contestazione disciplinare del 26/10/2009.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società Poste Italiane s.p.a. con un solo motivo.

Resiste con controricorso R.G.G. la quale deposita, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con un solo motivo la società ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, con riguardo alla ritenuta mancanza di tempestività della contestazione disciplinare del 26 ottobre 2009 a fronte dello scioglimento della riserva comunicata alla lavoratrice con lettera del 12 giugno 2008.

In particolare si contesta quanto ritenuto dalla Corte di merito circa il fatto che la datrice di lavoro aveva atteso l’esito del giudizio penale a carico della dipendente, nonostante avesse già individuato con certezza tutti gli elementi di responsabilità nei confronti della medesima e senza che ne avesse disposto la sospensione cautelare dal servizio, il tutto a dimostrazione di una volontà di acquiescenza alla prosecuzione del rapporto di lavoro.

Secondo la ricorrente, invece, la Corte d’appello avrebbe solo apparentemente fatto applicazione del consolidato principio giurisprudenziale secondo cui, in caso di fatti aventi rilevanza penale, il requisito dell’immediatezza della contestazione va inteso con ragionevole elasticità, essendo lo stesso compatibile con un intervallo di tempo necessario al datore di lavoro per il preciso accertamento delle infrazioni commesse dal lavoratore. Inoltre, secondo la ricorrente, doveva considerarsi legittima la decisione di non sospendere in via cautelare la lavoratrice e, pertanto, dal mancato esercizio di tale facoltà non poteva dedursi una volontà acquiescente alla prosecuzione del rapporto, anche in considerazione del fatto che l’eventuale protrarsi del periodo di sospensione in attesa dell’esito del giudizio penale poteva esporre la datrice di lavoro al pericolo di risarcimento dei danni. In ogni caso, il lasso di tempo trascorso fino al momento della contestazione disciplinare, dovuto all’esigenza di rendere nota alla lavoratrice l’esatta rilevanza degli addebiti in base ai principi di correttezza e buona fede, consentiva anche a quest’ultima di potersi adeguatamente difendere. A tal riguardo la ricorrente pone in evidenza l’atteggiamento prudenziale che aveva contraddistinto la condotta della medesima lavoratrice, la quale aveva dichiarato, in via preliminare, di non voler rendere alcuna dichiarazione in merito al fatto oggetto del procedimento penale al fine di non pregiudicare l’efficacia della propria azione difensiva davanti all’autorità giudiziaria e di rendersi disponibile a fornire i chiarimenti richiesti solo dopo la conclusione della sua vicenda giudiziaria (fascicolo di primo grado, doc. n. 14).

Il motivo è fondato.

Invero, va premesso che nell’ambito del procedimento disciplinare regolato dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, il requisito della immediatezza deve essere interpretato con ragionevole elasticità, il che comporta che il giudice deve applicare il suddetto principio esaminando il comportamento del datore di lavoro alla stregua degli artt. 1375 e 1175 c.c., e può dallo stesso discostarsi eccezionalmente, indicando correttamente le ragioni che lo hanno indotto a non ritenere illegittima una contestazione fatta non a ridosso immediato dell’infrazione (v. in tal senso Cass. Sez. lav. n. 13190 del 9/9/2003 e più di recente Cass. Sez. Lav. n. 1248 del 25/1/2016). Ma anche per quel che concerne il licenziamento per giustificato motivo soggettivo si è osservato che il principio tanto dell’immediatezza della contestazione dell’addebito quanto della tempestività del recesso datoriale, la cui “ratio” riflette l’esigenza di osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, deve essere inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo necessario, in relazione al caso concreto e alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, per un’adeguata valutazione della gravità dell’addebito mosso al dipendente e della validità o meno delle giustificazioni da lui fornite; l’accertamento al riguardo compiuto dal giudice di merito è insindacabile in cassazione, se congruamente motivato” (v. al riguardo Cass. Sez. lav. n. 9253 del 7/7/2001).

Si è, altresì, precisato (Cass. Sez. Lav. n. 23739 del 17/9/2008) che “in tema di procedimento disciplinare nei confronti di un dipendente di datore di lavoro privato, la regola desumibile dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, secondo cui l’addebito deve essere contestato immediatamente, va intesa in un’accezione relativa, ossia tenendo conto delle ragioni oggettive che possono ritardare la percezione o il definitivo accertamento e valutazione dei fatti contestati (da effettuarsi in modo ponderato e responsabile anche nell’interesse del lavoratore a non vedersi colpito da incolpazioni avventate), soprattutto quando il comportamento del lavoratore consista in una serie di fatti che, convergendo a comporre un’unica condotta, esigono una valutazione unitaria, sicchè l’intimazione del licenziamento può seguire l’ultimo di questi fatti, anche ad una certa distanza temporale da quelli precedenti.” (conf. a Cass. Sez. Lav. n. 22066 del 22/10/2007) Nella fattispecie, così come emerge pacificamente dalla lettura del ricorso e del controricorso, in data 24.10.2007, nell’ambito di un’indagine interna della società postale, la R. fu convocata insieme ad altri tre dipendenti in relazione ai fatti di causa e nel corso di quell’incontro la medesima lavoratrice evidenziò l’inopportunità di rispondere per non pregiudicare l’esito della difesa in sede penale.

Inoltre, alla richiesta della parte datoriale di fornire giustificazioni entro sette giorni la R. rispose richiamando il contenuto della precedente comunicazione e la documentazione già prodotta, precisando che appena la situazione si sarebbe chiarita avrebbe reso tutti i chiarimenti necessari.

Successivamente, con lettera del 12.6.2008, la società formulava riserva di azione a tutela dei suoi diritti ed interessi e solo a seguito della sentenza di condanna emessa a carico della R. la datrice di lavoro procedeva in data 29.10.2009 alla contestazione disciplinare di cui trattasi.

Orbene, tale sequenza degli accadimenti ed il comportamento tenuto dalla medesima R., che preferendo non rispondere immediatamente ai chiarimenti chiesti dalla sua datrice di lavoro induceva quest’ultima a formulare le proprie riserve in attesa dello sviluppo del procedimento penale che vedeva coinvolta la dipendente, confortano l’assunto difensivo della società sul richiamo ai principi di correttezza e buona fede che animarono il suo modo di procedere, oltre che a quelli di rispetto delle garanzie difensive dell’inquisita, per cui, considerati tali fatti tra loro concatenati, non appare configurabile la violazione della norma di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7, ritenuta, invece, sussistente dalla Corte territoriale.

Tali rilevanti peculiarità della presente vicenda rispetto a quella di altra dipendente della stessa società richiamata dalla difesa della controricorrente nella propria memoria difensiva giustificano ampiamente la diversa soluzione qui adottata.

Pertanto, il ricorso va accolto e l’impugnata sentenza va cassata con rinvio del procedimento, anche per le spese, alla Corte d’appello di Milano che procederà ad un nuovo esame del merito della controversia alla luce dei principi sopra richiamati.

PQM

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 3 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2016

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