Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12823 del 21/06/2016


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Cassazione civile sez. lav., 21/06/2016, (ud. 03/03/2016, dep. 21/06/2016), n.12823

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19547-2013 proposto da:

T.M., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CAMOZZI 1, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO

CUCCI, rappresentato e difeso dall’avvocato SAVINA FORGITTONI,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

GA. DISTRIBUZIONE DI G.L. & C S.N.C., P.I.

(OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CARDINAL DE LUCA 1, presso

lo studio degli Avvocati IZZO GIOVANNI e PATARINO PASQUALE

(STUDIO LEGALE ABBATESCIANNI), rappresentata e difesa dall’avvocato

GIORGIO SCAGLIOLA, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 454/2013 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 20/05/2013 R.G.N. 444/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/03/2016 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito l’Avvocato FORGITTONI SAVINA;

udito l’Avvocato SCAGLIOLA GIORGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Si controverte della legittimità del licenziamento intimato il 30/11/2009 dalla società Ga. Distribuzione di G.L. & Co. S.n.c. a T.M., dirigente con mansioni di Responsabile delle vendite Italia all’interno della stessa impresa e del conseguente diritto del medesimo a conseguire l’indennità supplementare, nonchè le ulteriori differenze retributive a norma di contratto.

Il licenziamento era stato intimato a causa della riorganizzazione societaria conseguente all’ingresso in azienda delle due figlie dell’amministratore unico e del calo di fatturato delle vendite, con conseguente necessità di riduzione dei costi.

Con sentenza del 10/4 – 20/5/2013, la Corte d’appello di Torino, riformando la decisione del giudice del lavoro del Tribunale di Alba, ha dichiarato che il licenziamento era giustificato ed ha riconosciuto al T., in aggiunta al superminimo, l’aumento previsto dall’art. 2 dell’Accordo 25/1/2002.

La Corte ha rilevato che non era stato attuato un avvicendamento discriminatorio o contrario a buona fede dal momento che le funzioni del T. erano state affidate ad un socio imprenditore e non ad un qualsiasi altro dipendente, con evidente risparmio per l’azienda.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso il T. con sei motivi.

Resiste con controricorso la società Ga. Distribuzione di G.L. & Co. S.n.c.. Le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo il ricorrente deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in merito ai seguenti punti: ritenuta soppressione della figura del dirigente delle “vendite Italia”; ritenuto risparmio per la società in conseguenza del venir meno dell’obbligo di corrispondere il trattamento economico ad un lavoratore subordinato a seguito dell’affidamento del predetto incarico alla socia Ga.Ro.;

ritenuto ingresso di quest’ultima nell’attività societaria nel 2010, anzichè nel 2008; ritenuto diritto automatico della predetta socia a collaborare alla gestione aziendale; mancata considerazione della minoritaria quota di partecipazione di quest’ultima (20%) nella società; mancata considerazione di detta partecipazione mediante conferimento di capitale, anzichè di opera; mancata considerazione della carenza di poteri di amministrazione e/o gestori in capo a Ga.Ro. o di procure e mandati in suo favore; mancata considerazione dell’identità delle funzioni espletate dapprima dal T. e poi dalla Ga. ed esaurimento delle funzioni espletate dalla seconda in quelle del primo.

Nel contempo, il ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2295 c.c., n. 7, assumendo che se Ga.

R. non era socio d’opera, la sua attività in sostituzione di esso T. non poteva ritenersi compensata a mezzo della ripartizione degli utili, nè la sua prestazione lavorativa in favore della società poteva presumersi automatica. Secondo il T. in atti non vi era la prova che Ga.Ro. fosse socio d’opera o socio amministratore della società, per cui aveva errato la Corte di merito a ritenere che le funzioni esercitate in precedenza da esso ricorrente erano state affidate a quest’ultima quale socio imprenditore, così come aveva erroneamente omesso di considerare che l’intera amministrazione e gestione della società faceva capo all’amministratore unico nella persona di G.L..

2. Col secondo motivo il ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione dell’art. 2257 c.c., assumendo che la Corte d’appello aveva erroneamente presupposto che l’amministrazione spettava ad ogni socio, quando in realtà nella fattispecie la gestione delle attività sociali era stata delegata al solo socio amministratore Lucia Giordano e, in sua assenza, al socio Ga.An., per cui i soci che non partecipavano all’amministrazione della compagine sociale avevano solo diritto di consultare i documenti ed ottenere il rendiconto degli affari compiuti.

3. Col terzo motivo il T. lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 2261 c.c., in quanto nessun diritto di quelli affermati nella sentenza faceva capo al socio di minoranza Ga.

R. in tale sua posizione, non essendo stata quest’ultima investita dei poteri di amministrazione e di gestione della società ed essendosi la medesima limitata a sostituire esso ricorrente nel ruolo e nella funzione esercitati all’interno della società, senza aver nemmeno conferito, quale propria quota di partecipazione, la sua attività lavorativa. Quindi, la Corte territoriale avrebbe dovuto considerare che l’inserimento di Ga.Ro. nel ruolo appartenuto ad esso ricorrente era avvenuto solo nella qualità di socio lavoratore di quest’ultima con diritto alle competenze spettanti ai lavoratori, ivi compreso quello al trattamento economico, per cui veniva a cadere l’affermazione della stessa Corte secondo la quale l’operazione di avvicendamento si era tradotta in un vantaggio economico per l’impresa.

4. Col quarto motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omessa considerazione della corrispondenza dei motivi del licenziamento a quanto realmente avvenuto, nonchè l’omessa valutazione della tempestività del licenziamento.

In particolare, secondo l’assunto difensivo, la Corte di merito non aveva considerato che a distanza di circa tre anni dal licenziamento non era avvenuto alcun cambio di generazione alla guida dell’impresa, che era rimasta amministrata da G.L. e non dalle figlie Ga. e Ro. le quali possedevano, insieme, solo il 40% dell’intero capitale sociale in quanto socie della Ga.

Distribuzione s.n.c. a far data, rispettivamente, dal 1997 e dal 2000. Ne conseguiva che non era ravvisabile alcun nesso di causalità tra il loro ingresso in società in modo attivo ed il licenziamento in questione, nonostante che la motivazione addotta con la lettera di licenziamento avesse fatto riferimento alla circostanza della discesa in campo delle predette socie, per cui era ravvisabile la violazione delle norme collettive in tema di tempestività del licenziamento rispetto ai motivi dello stesso comunicati (artt. 20 e 36 del ccnl per i dirigenti di aziende e del terziario del 2008).

5. Oggetto di doglianza del quinto motivo è la denunzia di violazione o falsa applicazione dell’art. 20 del CCNL per i dirigenti, aziende terziario e distribuzione servizi del 2008, in quanto il giudice di secondo grado non avrebbe tenuto conto della mancata corrispondenza tra i motivi del licenziamento intimato e i fatti emersi dall’istruttoria espletata e, comunque, della mancata corrispondenza tra di essi in punto di tempestività.

6. Col sesto motivo, formulato per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione tra le parti, il ricorrente lamenta che il giudice di secondo grado non ha tenuto conto della circostanza che successivamente al suo licenziamento la società non aveva proceduto ad alcuna ristrutturazione e riorganizzazione aziendale, essendosi limitata a sostituire la persona del dirigente del settore vendite Italia pur mantenendo quel settore di attività con ben 74 agenti. Ne conseguiva che il licenziamento era ingiustificato e che ricorrevano i presupposti per l’erogazione dell’indennità supplementare.

Osserva la Corte che i predetti motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto tra loro connessi.

Orbene, il ricorso è infondato.

Occorre, infatti, partire dalla considerazione che “poichè il licenziamento del dirigente non richiede necessariamente un giustificato motivo oggettivo, esso è consentito in tutti i casi in cui sia stato adottato in funzione di una ristrutturazione aziendale dettata da scelte imprenditoriali non arbitrarie, non pretestuose e non persecutorie. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto correttamente motivata la decisione di merito con cui era stata esclusa l’illegittimità del licenziamento di un dirigente, giustificata con la necessità di una ristrutturazione aziendale, le cui mansioni erano state assegnate ad altro dirigente, in aggiunta alle mansioni proprie di quest’ultimo).” (Cass. sez. lav. n. 21748 del 22/10/2010).

Si è, poì, ribadito (Cass. sez. lav. n. 3628 dell’8/3/2012) che “il licenziamento individuale del dirigente d’azienda può fondarsi su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale, che non debbono necessariamente coincidere con l’impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di crisi tale da rendere particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost. (Nella specie, la S.C. ha respinto il ricorso avverso la decisione di merito che aveva giudicato non pretestuoso, nè arbitrario, ma rispondente ad una genuina volontà di razionalizzazione aziendale, il licenziamento intimato al dirigente da una impresa con tasso quadriennale di perdita del fatturato pari al 9,4%)”.

Tale essendo l’orientamento di questa Corte, dal quale non vi è ragione di discostarsi, va ritenuto che la Corte d’appello di Torino ha fatto corretta applicazione di tale principio allorquando ha affermato che il licenziamento in esame era giustificato alla luce dell’avvicendamento societario scaturito dall’esigenza, economicamente apprezzabile in termini di risparmio, di assegnare al socio Ga.Ro. le funzioni connesse alla soppressa figura del dirigente coordinatore degli agenti sul territorio italiano ricoperte in precedenza dal T., non essendo emerso che tale avvicendamento fosse discriminatorio o contrario a buona fede, posto che la posizione del dirigente dipendente era stata definitivamente soppressa e le relative funzioni affidate ad un socio imprenditore e non ad un altro dipendente o collaboratore con eguale qualifica.

In pratica, la Corte territoriale ha correttamente eseguito il controllo sulla effettività delle esigenze imprenditoriali poste a base del predetto avvicendamento, non potendosi estendere una tale verifica al merito delle scelte economiche aziendali garantite dal precetto costituzionale di cui all’art. 41 Cost., pervenendo, in tal modo, al convincimento, adeguatamente motivato ed esente da vizi di ordine logico-giuridico, della mancanza di un intento discriminatorio o contrario a buona fede da parte dei responsabili dell’impresa datrice di lavoro e del reale risparmio economico che la società veniva a conseguire dalla suddetta operazione.

Nè colgono nei segno le censure incentrate sulla supposta carenza di poteri gestori o rappresentativi in capo a colei che in qualità di socio subentrava nella posizione del dirigente licenziato, atteso che nella società in nome collettivo, in base al combinato disposto di cui agli artt. 2293, 2266 e 2257 cod. civ. la rappresentanza, salvo diverse pattuizioni, spetta disgiuntamente a ciascuno dei soci, con la conseguenza che quando non ne sia contestata la provenienza da uno di essi, ancorchè non individuato, l’atto compiuto deve ritenersi valido e idoneo a produrre i propri effetti.(v. in tal senso Cass. sez. 2 n. 9927 del 24/5/2004).

Si è, altresì, statuito (Cass. sez. 3 n. 21520 del 12/11/2004) che “nelle società in nome collettivo, in base al combinato disposto degli artt. 2293 e 2266 cod. civ., la rappresentanza dell’ente spetta, disgiuntamente, a ciascun socio e – salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo – si estende a tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale, in quanto la legge presume che la volontà dichiarata dal rappresentante nell’interesse della società corrisponda alla volontà sociale. A tal fine non è necessario che per manifestare il rapporto rappresentativo (“contemplatio domini”) il socio amministratore usi formule sacramentali, ma è sufficiente che dalle modalità e dalle circostanze in cui ha svolto l’attività negoziale e dalla struttura e dall’oggetto del negozio, i terzi possano riconoscerne l’inerenza all’impresa sociale, sì da poter presumere che l’attività è espletata nella qualità di socio amministratore”.

Egualmente infondati sono i rilievi incentrati sulla natura giuridica della qualità di socio di colei che in tale veste subentrava nelle funzioni del ricorrente, vale a dire se socio d’opera o di capitale, atteso che nella società in nome collettivo, qual è l’odierna intimata, non si ha una soggettività giuridica distinta da quella delle persone fisiche dei singoli soci e la gestione di un’attività aziendale da quella effettuata va imputata ai soci stessi (v. ad es.

Cass. sez. 3 n. 6722 del 9/12/1982).

Quanto alla asserita violazione delle suddette norme collettive è fondata l’eccezione di inammissibilità di tale censura sollevata al riguardo dalla difesa della controricorrente, la quale ha obiettato che la denunzia di tale supposto vizio è nuova, non essendo stata prospettata dal ricorrente nei precedenti gradi del merito. Infatti, nell’impugnata sentenza non è contenuta alcuna valutazione della legittimità del licenziamento alla luce delle summenzionate norme collettive, tant’è vero che i riferimenti al contratto collettivo concernono esclusivamente le questioni economiche. Pertanto, spettava al ricorrente dimostrare in quale fase del giudizio di merito ed in quali termini precisi aveva sottoposto al giudicante l’ipotesi di illegittimità del licenziamento per asserita violazione delle norme collettive di riferimento, producendone in giudizio il testo, mentre tutto ciò non è avvenuto.

Sono, infine, inammissibili le doglianze attraverso le quali il ricorrente tenta di effettuare una rivisitazione delle risultanze istruttorie, operazione, questa, non consentita nel giudizio di legittimità in quanto implicherebbe un giudizio di fatto che è, invece, devoluto al giudice di merito al quale soltanto spetta di valutare il materiale probatorio offrendone adeguata motivazione.

Una volta accertata la correttezza della decisione impugnata in ordine alla ritenuta giustificatezza del licenziamento in esame ne consegue l’infondatezza della censura diretta alla contestazione della negata indennità supplementare.

In definitiva, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo.

Ricorrono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, del contributo unificato di cui in dispositivo ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di Euro 4100,00, di cui Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed oneri accessori.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-

bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 3 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2016

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