Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12815 del 22/05/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 22/05/2017, (ud. 01/02/2017, dep.22/05/2017),  n. 12815

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26679/2014 proposto da:

GENERAL MOTORS POWERTRAIN EUROPE S.R.L., P.I. (OMISSIS), in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA QUATTRO FONTANE 20, presso lo studio dell’avvocato MATTEO

FUSILLO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati PAOLO

EUGENIO BIANCO, ANTONELLA MUSY, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

C.A., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA LUIGI CECI 21, presso lo studio dell’avvocato PAOLO BORIONI, che

lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 612/2014 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 04/06/2014 R.G.N. 201/14;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/02/2017 dal Consigliere Dott. FEDERICO BALESTRIERI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato MATTEO FUSILLO;

udito l’Avvocato PAOLO BORIONI.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Tribunale di Torino, C.A. evocava in giudizio la GENERAL MOTORS POWERTRAIN – EUROPE s.r.l. e, premesso di lavorare alle sue dipendenze sin dal 18.2.08, da ultimo con mansioni di tecnico “service and operation support”, comportanti la raccolta e la ricerca di informazioni circa la convenienza dei prodotti offerti dalle diverse ditte fornitrici della società, esponeva di essere stato licenziato per giusta causa con lettera del 29.2.12, a seguito di contestazione disciplinare del 20.2.12; il ricorrente deduceva anzitutto la nullità del provvedimento espulsivo in ragione della violazione del suo diritto di difesa L. n. 300 del 1970, ex art. 7 (avendo omesso la datrice di lavoro di disporre la sua audizione personale richiesta con la lettera di giustificazioni del 24.2.2012), nonchè della genericità degli addebiti mossigli con la lettera di contestazione, della tardività della contestazione stessa (risalendo i fatti addebitatigli al 2010) e comunque della sproporzione della sanzione adottata rispetto al comportamento contestatogli e, nel merito, respingeva ogni addebito adducendo di non avere posto in essere alcuno dei fatti contestati ed avere sempre operato nell’interesse della datrice di lavoro, rimarcando comunque l’insussistenza in capo a lui di ogni potere decisionale in ordine alla scelta dei fornitori e della inattendibilità delle dichiarazioni rese da tale Co., titolare della Amprimo s.r.l., nella riunione tenutasi il 13.2.2012 presso gli uffici di direzione della GMPE.

Il C. chiedeva quindi che il licenziamento venisse dichiarato nullo o illegittimo con le conseguenze di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18 (nel testo previgente alla riforma di cui alla L. n. 92 del 2012) e inoltre la condanna della società al risarcimento dei danni alla professionalità, all’immagine, alla sua integrità psico-fisica asseritamente subiti in conseguenza dell’illegittimo comportamento aziendale.

Si costituiva la GMPE contestando la fondatezza delle domande, che il Tribunale respingeva.

Avverso tale sentenza proponeva appello il lavoratore; resisteva la società.

Con sentenza depositata il 4.6.14, la Corte d’appello di Torino accoglieva parzialmente il gravame, ritenendo fondata la doglianza inerente la mancata audizione personale del lavoratore, dichiarando nullo il licenziamento, con reintegra nel posto di lavoro e condanna al pagamento del risarcimento del danno previsto dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, rigettando invece le altre domande risarcitorie.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la società, affidato a quattro motivi.

Resiste il lavoratore con controricorso, poi illustrato con memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, in combinato disposto con l’art. 1324 c.c.; degli artt. 1363 e 1366 c.c.; art. 132 c.p.c., n. 4.

Lamenta che la sentenza impugnata ritenne erroneamente chiara ed univoca la richiesta del lavoratore di essere sentito a sua difesa, laddove questi aveva chiesto per iscritto solo “di essere immediatamente sentito dalla GMPE qualora le deduzioni di cui in premessa e le persone informate sui fatti sentite dalla società non venissero ritenute sufficienti a tenerlo indenne dagli addebiti mossi nei propri confronti”.

Il motivo è infondato, avendo la sentenza impugnata adeguatamente accertato che la richiesta del lavoratore di essere sentito personalmente a sua difesa era univoca per il caso, poi verificatosi, in cui l’azienda non avesse ritenuto sufficienti le giustificazioni fornite per iscritto. Dal momento che l’azienda non ritenne effettivamente sufficienti le giustificazioni scritte, non avrebbe potuto intimare il licenziamento a fronte della chiara richiesta del lavoratore di essere ascoltato, in tal caso, personalmente. Tale richiesta, a giudizio della sentenza impugnata, non era equivoca o dilatoria, ma solo condizionata all’eventualità che le giustificazioni fornite per iscritto non fossero state ritenute dall’azienda sufficienti, condizione verificatasi nella specie, con conseguente violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 2.

Trattasi di motivato apprezzamento delle circostanze di fatto da parte del giudice di merito, non censurabili in questa sede, specie a seguito del novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c., comma 1.

2.- Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 342, 434 e 348 bis c.p.c..

Lamenta che la sentenza impugnata non aveva adeguatamente considerato che il ricorso in appello doveva contenere le indicazioni di cui al novellato art. 434 c.p.c..

Il motivo è infondato.

Il nuovo testo dell’art. 434 c.p.c., è il seguente: “Il ricorso deve contenere le indicazioni prescritte dall’art. 414. L’appello deve essere motivato. La motivazione dell’appello deve contenere, a pena di inammissibilità:

1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado;

2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”.

2.1- La Corte osserva che il nuovo testo dell’art. 434 c.p.c., non prevede che l’appellante debba proporre “un ragionato progetto alternativo di decisione”, quanto piuttosto che individui, senza l’adozione di formule particolari, in modo chiaro ed esauriente il “quantum appellatum”, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonchè ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, sì da esplicitare la idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata (Cass. 5.2.2015 n. 2143).

Non è dunque più applicabile il principio, esposto da questa Corte con riferimento alla precedente formulazione dell’art. 434 c.p.c., secondo cui la valutazione dell’osservanza dell’onere di specificità dei motivi di impugnazione spetti al giudice di merito, mentre il giudice di legittimità può solo indirettamente verificare tale profilo avuto riguardo alla correttezza giuridica del procedimento interpretativo e alla logicità del suo esito (Cass. 27.5.2014 n. 11828); deve invece oggi ritenersi, valutato il tenore della novella e l’espressa riconducibilità alla categoria dell’inammissibilità dell’atto difforme al modello legale prescritto dal legislatore, che questa Corte possa valutare, quale giudice del fatto processuale (Cass. sez. un. n. 8077/12, Cass. n. 24481/14), la conformità del ricorso in appello alla luce dei nuovi requisiti.

E’ tuttavia pur vero, come evidenziato dalla medesima pronuncia n. 8077/12, che tale attività da parte della S.C. è subordinata alla condizione che la censura sia stata proposta in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito, ed in particolare dell’art. 366 c.p.c.. A tal fine la ricorrente si limita a riprodurre per estratti l’atto di gravame (senza neppure riportare, peraltro, il contenuto della sentenza di primo grado), evidenziando, in sostanza, che esso non era conforme al modello legale.

In tale contesto questa Corte non può che confermare quanto al riguardo compiutamente e congruamente osservato dalla corte di merito, e cioè che il gravame del C., pur non riportando esplicitamente le espressioni della sentenza impugnata criticate, sostanzialmente le richiamava e specificamente le contestava, con riferimento alle dettagliate questioni affrontate, indicando, al riguardo, le argomentate soluzioni ritenute più corrette, su cui fondare la decisione di riforma della decisione appellata.

Dall’altro lato, occorre rilevare (come evidenziato da Cass. S.U. n. 5700 del 2014 e Cass. S.U. n. 9558 del 2014), che la Corte di Strasburgo afferma che le limitazioni all’accesso alla tutela giurisdizionale per motivi formali non devono pregiudicare l’intima essenza di tale diritto; in particolare tali limitazioni non sono compatibili con l’art. 6, comma 1 CEDU qualora esse non perseguano uno scopo legittimo, ovvero qualora non vi sia una ragionevole relazione di proporzionalità tra il mezzo impiegato e lo scopo perseguito (v. tra le altre Corte EDU Walchli c. Francia 26 luglio 2007, Faltejsek c. Repubblica Ceca 15 maggio 2008). La stessa Corte EDU ha poi affermato che il vincolo del rispetto del diritto ad un processo equo imposto dall’art. 6, comma 1 della CEDU si applica anche ai provvedimenti di autorizzazione all’impugnazione (Corte EDU, Hansen c. Norvegia, 2 ottobre 2014, Dobric c. Serbia, 21 luglio 2011,punto 50).

Un eccessivo formalismo nella redazione dell’atto di appello, finirebbe per contrastare con i principi esposti.

La ricorrente non chiarisce, al di là della non condivisibile tesi secondo cui l’atto di appello debba contenere “un ragionato progetto alternativo di decisione”, per quali specifiche ragioni, non esaminate dalla corte di merito, l’atto di gravame risulti in contrasto col novellato art. 434 c.p.c..

2.2- Quanto alla dedotta violazione dell’art. 348 bis c.p.c., la ricorrente lamenta che il C. si limitò a contestare la valutazione delle prove da parte del primo giudice, con la conseguenza che l’appello avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile.

Anche tale doglianza è in sostanza inammissibile non avendo la ricorrente prodotto l’atto di appello, nè avendolo riprodotto nell’odierno ricorso.

Può solo aggiungersi che la corte di merito non ha ritenuto prima facie inammissibile il gravame, stanti le “molteplici questioni, anche di diritto, sollevate dall’appellante”, con apprezzamento di fatto non adeguatamente contestato.

3.- Il terzo motivo, recante nella rubrica “Sulla riforma parziale della sentenza di secondo grado”, è formalmente inammissibile, difettando delle norme di diritto che si ritengono di diritto violate.

Ed invero, pur considerando che in tema di ricorso per cassazione, l’erronea indicazione della norma processuale violata nella rubrica del motivo non determina “ex se” l’inammissibilità dell’atto, ciò vale esclusivamente qualora la Corte possa agevolmente procedere alla corretta qualificazione giuridica del vizio denunciato sulla base delle argomentazioni giuridiche ed in fatto svolte dal ricorrente a fondamento della censura (Cass. n. 2321/16, Cass. 3.8.2012 n. 14026), nella specie assenti, posto che il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione (trattandosi di giudizio a critica vincolata), pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi (Cass. sez. un. 24.7.2013 n. 17931).

4.- Analoga inammissibilità presenta il quarto motivo (intitolato “Sulla richiesta, in caso di riforma della sentenza, di restituzione delle somme erogate”).

Il motivo, palesemente condizionato all’accoglimento del ricorso, non potrebbe del resto trovare accoglimento stante il rigetto delle precedenti censure.

5.- Il ricorso deve essere pertanto rigettato.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a.. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 1 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2017

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