Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12804 del 22/05/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 22/05/2017, (ud. 12/01/2017, dep.22/05/2017),  n. 12804

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. BRONZINI Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26280/2014 proposto da:

Z.R., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA G. RAMUSIO, 6, presso lo studio dell’avvocato ALFONSO

TINARI, rappresentato e difeso dall’avvocato NICOLA TARIDDI, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

IRPLAST S.P.A., che ha incorporato per fusione RIMOITALIA S.P.A. C.F.

(OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RUGGERO FAURO 43, presso lo

studio dell’avvocato UGO PETRONIO, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato ORONZO MAZZOTTA, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1263/2013 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 31/10/2013 R.G.N. 1102/012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/01/2017 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE BRONZINI;

udito l’Avvocato NICOLA TARIDDI;

udito l’Avvocato ORONZO MAZZOTTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per l’inammissibilità, in

subordine rigetto.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Z.R. chiedeva al Tribunale di Lanciano la dichiarazione di illegittimità della sanzione disciplinare comminatagli dal datore di lavoro Bimo Italia spa (poi incorporata per fusione nella Irplast spa) il 19.1.2006, la dichiarazione di illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli il 19.12.2006, l’accertamento del demansionamento subito dal 4.6.2002 sino al recesso con condotta mobbizzante della datrice di lavoro, con conseguente risarcimento del danno subito. Il Tribunale accoglieva parzialmente la domanda relativa al demansionamento per il quale liquidava la complessiva somma di Euro 19.600,00 a titolo di risarcimento danni pari a Euro 350,00 mensili per tutti i mesi in cui era intervenuto il demansionamento.

2. La Corte di appello di L’Aquila con la sentenza del 31.10.2013, in parziale riforma della sentenza impugnata, riliquidava il danno da demansionamento nella misura del 30% della retribuzione globale di fatto dal 4.6.2003 al 22.2.2008 oltre accessori. La Corte territoriale ribadiva la legittimità della sanzione disciplinare del 19.12.2006 per l’avvenuta, fotocopiatura delle istruzioni operative del reparto controllo che era intervenuta su materiale che conteneva informazioni riservate attinenti al know how aziendale e che quindi costituiva un atto contrario al dovere di riservatezza; confermava l’avvenuto demansionamento posto che erano state assegnate mansioni non coerenti con la professionalità acquisita e che non era stato provato che tale adibizione fosse necessaria per evitare il licenziamento, scelta che comunque eventualmente spettava al solo lavoratore. Doveva ritenersi equo in relazione all’avvenuta dequalificazione un risarcimento pari al 30% della retribuzione per i mesi di demansionamento in accoglimento parziale dell’appello del lavoratore. Per il recesso lo stesso appariva legittimo posto che, nonostante l’intimazione a non farlo, il lavoratore aveva sistematicamente utilizzato i modelli dei rapporti di turno imballaggio per riempirli di espressioni infondate e offensive nei confronti di colleghi e superiori. Alla contestazione lo Z. aveva anche risposto con una lettera polemica mostrando, nel complesso, un comportamento disubbidiente. Doveva anche considerarsi la recidiva e quindi il recesso appariva giustificato e proporzionale come sanzione; non si poteva considerarlo discriminatorio per ragioni sindacali perchè sul punto nulla era emerso; nè era emersa una condotta mobbizzante del datore di lavoro in quanto non erano stati accertati comportamenti specificamente persecutori e prevaricatori, così come analizzato nelle ultime pagine della sentenza impugnata. Infine, circa le scritte apparse sul suo armadietto pretesamente offensive della sensibilità del lavoratore, le stesse non potevano essere ascritte al datore di lavoro.

3. Per la cassazione di tale decisione propone ricorso lo Z. con 4 motivi corredati da memoria; resiste controparte con controricorso corredato da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si allega la violazione e falsa applicazione degli artt. 2016, 1175, 1375, 1455, 2104, 2105, 2697, 2087 c.c., della L. n. 300 del 1970, art. 7, degli artt. 115, 116 e 113 c.p.c., nonchè il difetto di motivazione; in quanto incongrua, inadeguata, incoerente e quindi solo apparente. L’avvenuta fotocopiatura del mansionario degli addetti era finalizzata alla difesa del lavoratore che era stato a lungo dequalificato e non si trattava di un documento riservato; in ogni caso le finalità di tutela dei diritti doveva prevalere sul dovere di riservatezza.

2. Il motivo appare infondato in quanto la Corte di appello ha già osservato che è emerso anche dalla prova testimoniale effettuata che non si trattava in realtà dell’avvenuta fotocopiatura di un mero materiale riservato dell’azienda operazione per la quale è certamente applicabile la giurisprudenza richiamata in sede di memoria difensiva dalla parte ricorrente ma di istruzioni che contenevano specifiche informazioni relative al tipo di materie usate, le procedure e la strumentazione utilizzata dall’operatore di laboratorio, un vero e proprio know-how aziendale la cui riservatezza appare rafforzata dall’esigenza di non diffondere a terzi (tra i quali potrebbero rientrare soggetti che possono essere concorrenti) conoscenze che hanno un rilievo produttivo. Non viene in rilievo, quindi, un generico dovere di non divulgare documenti aziendali ma uno specifico obbligo a mantenere riservati documenti che riguardano anche aspetti importanti e significativi dell’organizzazione produttiva del datore di lavoro; correttamente la Corte di appello ha sottolineato che comunque il lavoratore poteva sempre richiederne l’acquisizione al Giudice che a sua volta avrebbe potuto valutarne la mancata esibizione. Nulla oppone parte ricorrente a questa ricostruzione se non la tesi del carattere apparente della motivazione che invece è puntuale e specifica ed esamina tutti gli aspetti del “fatto” in discussione.

3. Con il secondo motivo si allega la violazione degli artt. 2103 e 1226 c.c., dell’art. 432 c.p.c., e della L. n. 300 del 1970, art. 13; dell’art. 35 Cost., e degli artt. 113, 115 e 116 c.p.c., nonchè il difetto di motivazione in quanto incongrua, inadeguata incoerente e quindi solo apparente. Il risarcimento del danno derivante dall’ingiusto demansionamento per cinque anni non poteva essere inferiore al 50% dell’ultima mensilità di retribuzione, tenuto conto anche dello stato di sofferenza e di stress attestato nella documentazione medica prodotta.

4. Il motivo appare inammissibile posto che il Giudice di prime cure aveva liquidato in 350,00 Euro mensili il danno subito e che la Corte di appello ha, invece, liquidato il 30% della retribuzione, somma tutt’altro che trascurabile e che obiettivamente appare rappresentare un ristoro significativo ed importante del danno provocato; nel motivo (a parte i riferimenti alla documentazione medica prodotta genericamente richiamata che attesterebbe una non meglio circostanziata “sofferenza psico-fisica”) non si cerca di dimostrare in alcun modo che il sensibile risarcimento riconosciuto in appello non sia sufficiente posto che si mira, in buona sostanza, inammissibilmente a sostituire la valutazione del ricorrente a quella compiuta dai Giudici di merito. Non viene in alcun modo argomentata la tesi per cui la dequalificazione subita dovesse necessariamente essere ristorata con un danno parametrato sul 50% della retribuzione.

5. Con il terzo motivo si allega la violazione e falsa applicazione degli artt. 2019, 2016, 1455 e 2697 c.c.; della L. n. 300 del 1970, art. 7, violazione dell’art. 55 CCNL; degli artt. 113, 115 e 116 c.p.c., nonchè difetto di motivazione in quanto incongrua, inadeguata e quindi solo apparente. Il licenziamento era basato sulla fotocopiatura legittima di materiale aziendale e sull’utilizzazione dei rapporti di turno in modo non corretto; su questi punti la motivazione della Corte di appello aveva acriticamente recepito la sentenza di primo grado.

6. Il motivo appare infondato circa i rilievi in ordine all’episodio della fotocopiatura dei documenti aziendali per quanto già osservato in relazione al primo motivo ed inammissibile in ordine alle censure sulla contestazione dell’indebito riempimento dei rapporti di turno, questione esaminata dettagliatamente dalla Corte di appello che ha sottolineato (riportandone anche stralci) come venissero riempiti con affermazioni del tutto incongrue e talvolta offensive; tale congrua, precisa e logica motivazione viene contestata del tutto genericamente e in modo certamente non coerente con la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, applicabile ratione temporis.

7. Con il quarto motivo si allega la violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 2607 e 2106 c.c.; degli artt. 113, 115 e 116 c.p.c., e della L. n. 300 del 1970, art. 7, nonchè difetto di motivazione, in quanto incongrua, inadeguata, incoerente e quindi solo apparente. Non era stato correttamente esaminato il profilo del mobbing perpetrato ai danni del ricorrente a lungo demansionato con violazione del diritto alla salute; il ricorrente era stato vessato con scritte offensive.

8. Il motivo è inammissibile in quanto tutti gli episodi riferiti sono stati dettagliatamente esaminati dalla Corte di appello che ha escluso sia un intento persecutorio ai danni del lavoratore è che le scritte sul suo armadietto fossero ascrivibili in alcun modo, anche indirettamente, alla responsabilità del datore di lavoro. La questione demansionamento è stata valutata ed è del tutto pacifico che dal demansionamento non possa inferirsi automaticamente un mobbing ai danni del lavoratore. Il motivo in realtà muove una serie di censure di merito, dirette ad una rivalutazione del “fatto” come tale inammissibile in questa sede, tanto più dopo la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, che non legittima più censure di natura motivazionale salvo l’ipotesi di un mancato esame di fatti decisivi, nella specie insussistente.

9. Deve quindi rigettarsi il ricorso: le spese di lite – liquidate come al dispositivo della sentenza – seguono la soccombenza.

10. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

PQM

 

Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 200,00 per esborsi, nonchè in Euro 4.000,00 per compensi oltre spese generali al 15% ed accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 12 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2017

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