Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12798 del 06/06/2014


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 12798 Anno 2014
Presidente: TRIOLA ROBERTO MICHELE
Relatore: FALASCHI MILENA

Data pubblicazione: 06/06/2014

Migliorie — Diritto
all’indennità
SENTENZA

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 6018/08) proposto da:
NALON MARCELLINA e NALON ROSA, rappresentate e difese, in forza di procura speciale in
calce al ricorso, dall’Avv.to Angelo Di Lorenzo del foro di Padova e dall’Avv.to Andrea Manzi del
foro di Roma ed elettivamente domiciliate presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via
Confalonieri n. 5;
– ricorrenti –

contro
ANGI ELSA, rappresentata e difesa dall’Avv.to Mario Giantin del foro di Venezia, in virtù di
procura speciale apposta a margine del controricorso, ed elettivamente domiciliata presso lo
studio dell’Avv.to Michela Damadei in Roma, via F. Valesio n. 1;
– controricorrente –

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avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia n. 1319 depositata 1’11 ottobre 2007.
Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 18 febbraio 2014 dal

Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;
uditi gli Avv.ti EmanueleCoglitore (con delega dell’Avv.to Andrea Manzi), per parte

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Lucio

Capasso, che ha concluso per l’accoglimento del sesto motivo di ricorso ed il rigetto dei restanti
motivi.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 25 gennaio 1994 Elsa ANGI evocava, dinanzi al Tribunale di
Venezia, Marcellina e Rosa NALON e premesso che con testamento olografo del 27.1.1979
Antonio Nalon, da lei assistito fino al decesso avvenuto il 2.2.1979, le aveva lasciato la proprietà
dell’immobile sito in Vigonovo, via Rossini, che in data 11.6.1993 aveva dovuto rilasciare alle
convenute a seguito di pronuncia dello stesso Tribunale di Venezia, adito dalle medesime
NALON, che in accoglimento della loro domanda di accertamento della nullità del testamento, le
riconosceva quali eredi legittime di Antonio Nalon, ne chiedeva la condanna al pagamento delle
numerose opere eseguite nell’immobile durante il possesso in buona fede conseguito all’apertura
della successione testamentaria alla morte di Antonio Nalon e del corrispettivo per l’assistenza
prestata al de cuius, nonché al risarcimento dei danni conseguenti all’esecuzione dello sfratto
eseguito in suo danno.
Instaurato il contraddittorio, resistevano le NALON, le quali assumevano che il giudicato formatosi
sul rilascio precludeva la pretesa azionata, mancando nell’attrice la situazione di possesso e lo
stato soggettivo di buona fede, inoltre spiegavano riconvenzionale per ottenere il pagamento delle
spese processuali liquidate nei pregressi giudizi ed il risarcimento dei danni conseguenti

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ricorrente, ed Eugenio Pace (con delega dell’Avv.to Mario Giantin), per parte resistente;

all’abusiva occupazione dell’immobile e alla compressione del diritto di sopraelevazione del
confinante immobile ad opera della proprietaria di quest’ultimo, Rosa Nalon.
Il giudice adito, espletata istruttoria, anche con C.T.U., in accoglimento della domanda attorea,

interessi legali, a titolo di indennità per le migliorie apportate all’immobile durante il possesso in
buona fede dello stesso, rigettate le domande riconvenzionali in quanto la pretesa rimozione delle
opere era preclusa dal combinato disposto degli artt. 535 e 1148 c.c., mentre la richiesta
risarcitoria per mancato rilascio era priva del titolo negoziale e comunque non era riconducibile al
dettato dell’art. 1148 c.c..
In virtù di rituale appello interposto dalle NALON, con il quale lamentavano che il giudice di prime
cure non avesse ritenuto preclusa la domanda attorea per effetto del giudicato formatosi sulla
petizione di eredità dalle stesse introdotta e conclusa positivamente, oltre ad avere ritenuto di
buona fede il possesso della ANGI, la Corte di appello di Venezia, in parziale accoglimento del
gravame, riformava parzialmente la decisione di primo grado, accertava nella misura di E.
23.562,61 il credito dell’appellata per migliorie, determinava in E. 9.136,80 il credito delle
appellanti per frutti percepibili dalla appellata a partire dal 31.8.1979 e operata la compensazione
tra i rispettivi crediti, compreso quello di E. 1.560,10 per spese processuali liquidate in favore delle
appellanti, condannava le NALON a corrispondere alla ANGI l’importo di E. 12.865,71, oltre
interessi legali dal 25.1.1994; dichiarava le spese processuali di entrambi i gradi compensate fra

condannava le convenute, in solido, a corrispondere alla ANGI la somma di E. 23.562,61, oltre ad

le parti per i 4/5, ponendo la restante quota a carico delle appellanti.
A sostegno della decisione adottata la corte territoriale evidenziava che il coordinamento dell’art.
1146 c.c., da un lato, e degli artt. 535 e 533 c.c., dall’altro, portava a ritenere che anche nei
rapporti fra l’erede apparente e l’erede riconosciuto giudizialmente si applicavano le disposizioni
in materia di possesso per quanto riguardava le restituzioni dei frutti, le spese, i miglioramenti e le
addizioni. Non inficiava detta conclusione la circostanza che l’appellata prima del decesso del de

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cuius fosse stata, inizialmente, ospite, e, poi, locataria dell’immobile in forza del contratto dalla
stessa prodotto (del 30.7.1976), per essere successivamente intervenuto il possesso dello stesso
immobile sempre in capo alla ANGI per effetto della sua istituzione quale erede testamentaria.

proposizione della domanda giudiziale di petizione di eredità, non anche nella fase precedente,
giacché l’avere concorso nella causa di nullità del testamento (aiutando fisicamente il testatore
nella sua redazione, facendo così venire meno l’autografia) non escludeva la presunzione di
buona fede (art. 1147, comma 3, c.c.), non essendo ascrivibile l’ignoranza della nullità a colpa
grave (art. 535, comma 3, c.c.). Né poteva ritenersi maturata la prescrizione del diritto del
possessore all’indennità per i miglioramenti, decorrendo detto termine all’atto della restituzione
della cosa migliorata ex art. 2935 c.c., avvenuto nella specie il rilascio dell’immobile in data
11.6.1993, notificato l’atto introduttivo del giudizio il 25.1.1994.
Quanto alla quantificazione dell’indennità, pur considerando che opere erano tutte successive al
venire meno della buona fede, riteneva di commisurarla alle spese sostenute per la loro
realizzazione, poiché sarebbe stato arduo ipotizzare un miglioramento di valore inferiore al costo
delle opere, in alcun modo rivalutato, ed il condono dell’autorimessa ricavata dal rustico
precludeva la valorizzazione della pretesa illiceità del manufatto. Ciò escludeva anche
l’applicabilità alla specie dell’art. 936 c.c..
Concludeva che il venire meno della buona fede nel possesso dell’attrice faceva sorgere in capo
alle appellanti il diritto alla percezione dei frutti dopo la data di introduzione della domanda di
petizione ereditaria in data 31.8.1979, a mente dell’art. 1148, ult. parte, c.c., che venivano
riconosciuti in correlazione alla mancata disponibilità dell’immobile e quindi ai canoni calcolati
secondo i parametri della legge n. 392 del 1978 dal 31.8.1979 all’11.6.1993; di converso non
poteva essere riconosciuto alcun danno dal preteso rifiuto dell’appellata a prestare il consenso al
progetto di ampliamento di immobile confinante di proprietà di Rosa NALON, non apparendo

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Aggiungeva che era cessata la buona fede della appellata soltanto dal momento della

ipotizzabile la violazione di uno specifico obbligo correlato alla gestione del bene in possesso
della ANGI.
Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Venezia agiscono le NALON, in base a
sei motivi, illustrati anche da memoria ex art. 378 c.p.c., cui replica la ANGI con controricorso,

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo le ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 533, 535, 1140, 1146 e 1150
c.c. per avere la corte di merito riconosciuto alla resistente il diritto all’indennità prevista dall’art.
1150 c.c. per le migliorie, riconoscendole la qualità di possessore del bene del de cuius, senza
tenere conto che ai sensi dell’art. 1146 c.c. il possesso continua nell’erede con effetto
dall’apertura della successione, trasmettendosi istantaneamente ipso iure all’erede vero, senza
soluzione di continuità, a prescindere dal fatto che l’erede apprenda materialmente i beni,
essendo condizione necessaria e sufficiente alla trasmissione del possesso all’erede che il de
cuius lo avesse in vita. E ciò per la natura stessa del possesso quale definito dall’art. 1140 c.c. di
potere di fatto corrispondente all’esercizio della proprietà, che esclude ex se il potere di fatto di
altri, come previsto dall’art. 1146 c.c.. Con la conseguenza che il possesso allegato dalla ANGI
non sussisteva essendo possessori ex art. 1146 c.c. le eredi NALON e senza possesso l’attrice
non poteva avere diritto alle migliorie. Ad avviso delle ricorrenti il giudice del gravame avrebbe
fatto mal governo degli artt. 533 e 535 c.c. che disciplinano la condizione di chi possiede beni
ereditari a titolo di erede o senza titolo, ma non attribuirebbero la qualità di possessore a
chiunque abbia l’apprensione dei beni ereditari, presupponendo che il possessore dei beni
ereditari sia tale secondo le disposizioni dell’art. 1140 e ss. c.c., per essere l’art. 1146 c.c. ad
attribuire all’erede vero, ope legis, la qualità di possessore. Proseguono le ricorrenti che il
coordinamento fra gli artt. 533 e 535 c.c., da un lato, e l’art. 1146 c.c., dall’altra, non può portare a

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assistito anche da memoria illustrativa.

ritenere che l’erede apparente ha il possesso contro l’erede vero che è succeduto nel possesso
del de cuius, perché ciò comporterebbe la elisione dell’art. 1146 c.c.. A conclusione del mezzo
vengono formulati i seguenti quesiti di diritto: “se ai sensi dell’art. 1146 c.c. il possesso del bene di
cui è causa si era trasmesso con effetto dall’apertura della successione alle eredi del de cuius

trasmesso il possesso del bene dal de cuius alle odierne ricorrenti, l’attrice in primo grado ne
avesse il possesso nella qualità allegata di erede apparente del de cuius, con diritto all’indennità
secondo la previsione dell’art. 1150 c.c.”.
Con il secondo motivo è denunciata la violazione dell’art. 1141 c.c. in quanto essendo
rimasto accertato che l’attrice — in vita il de cuius – aveva la detenzione dell’immobile dapprima a
titolo di ospitalità e successivamente a titolo di locazione, la corte di merito ne avrebbe dovuto
trarre la conseguenza che alla morte del locatore, nella titolarità del contratto di locazione erano
subentrate le convenute, quali locatrici, per cui la detenzione della conduttrice non poteva mutarsi
in possesso e sostituire la conduttrice stessa nel possesso delle locatrici, contro la previsione
dell’art. 1141, comma 2, c.c., il quale stabilisce che il detentore non può acquistare il possesso, se
non per il mutamento del titolo per causa proveniente da un terzo o per opposizione fatta contro il
possessore, specificando che ciò vale anche per i successori a titolo universale. A corollario del
mezzo è posto il seguente quesito di diritto: “se ai sensi dell’art. 1141 c.c. la detenzione del bene
di cui è causa esercitata dall’attrice in primo grado alla morte del de cuius, in forza di contratto di
locazione, si è mutata in possesso per effetto della sua istituzione testamentaria di erede nulla e
inefficace”.
I primi due motivi formulati dalle ricorrenti — da trattare congiuntamente per la loro evidente
connessione argomentativa — sono destituiti di fondamento e devono, perciò, essere respinti.
Nel capo 9^ del titolo primo del libro delle successioni, destinato alla petizione di eredità, è
disciplinata la possibilità dell’erede di agire contro chi possiede i beni ereditari a titolo di erede

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odierne ricorrenti; se ai sensi degli artt. 1140 e 1146 e degli artt. 533 e 535 c.c., essendosi

(che corrisponde al caso in esame, art. 533 c.c.) o contro i suoi aventi causa (art. 534 c.c.). La
norma successiva stabilisce che le disposizioni in materia di possesso si applicano anche al
possessore di beni ereditari, per quanto riguarda la restituzione dei frutti, le spese, i miglioramenti
e le addizioni.

buona fede di rispondere verso il rivendicante dei frutti percepiti dopo la domanda giudiziale e di
quelli che avrebbe potuto percepire usando la diligenza del buon padre di famiglia. Va aggiunto,
quanto alla buona fede, che secondo l’art. 1147 c.c. “la buona fede è presunta e basta che vi sia
stata al tempo dell’acquisto”. Questa disposizione è comunemente ritenuta portatrice di un
principio di portata generale (Cass n. 8258 del 1997; Cass. n. 6648 del 2000) e quindi è
applicabile anche alla fattispecie di cui all’art. 535 c.c.. Ne consegue che chi agisce per
rivendicare i beni ereditari – eventualmente previo annullamento del testamento che ha chiamato
all’eredità il possessore di buona fede – può pretendere soltanto i frutti indebitamente percepiti, nei
limiti fissati dall’art. 1148 c.c.. Nella specie non risulta (cfr. conclusioni delle appellanti in epigrafe
della sentenza impugnata) che sia stata fatta valere la mala fede della resiste — originaria attrice
quanto alla percezione dei frutti, nè che la mala fede di questa sia stato oggetto del contendere o
di iniziativa probatoria volta a superare la presunzione vantata dall’erede testamentaria.
La decisione della Corte d’appello, quindi, risulta avere fatto buon governo dei principi sopra
enunciati, poiché ritenendo di dovere presumere la buona fede dell’erede testamentaria che si era
immessa nel possesso del bene ereditario, ha considerato cessata tale condizione soltanto dal
momento della proposizione della domanda giudiziale di petizione di eredità.
Del resto le censure delle ricorrenti attengono a circostanze che, nell’impianto argomentativo della
Corte territoriale, non assumono specifica rilevanza ai fini del decisum, non essendo stata
censurata la statuizione relativa all’assenza di colpa grave in epoca antecedente alla introduzione
del predetto giudizio, limitandosi a criticare la pronuncia per non avere ritenuto la loro qualità di

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Occorre quindi fare riferimento agli artt. 1147 e 1148 c.c.: quest’ultimo fa obbligo al possessore di

possessori a pieno titolo del bene del de cuius fin dall’apertura della successione, e sono quindi in
ammissibilmente dedotte.
Con il terzo motivo è dedotta la violazione degli artt. 1150 e 2697 c.c., nonché del
procedimento ex art. 115 c.p.c., oltre a contraddittoria motivazione: la corte di merito pur avendo

l’indennità, ha ugualmente riconosciuto le migliorie nella misura pari alle spese sostenute per la
loro realizzazione poiché sarebbe stato arduo ipotizzare un miglioramento di valore inferiore al
costo delle opere in alcun modo rivalutate. Diversamente l’art. 1150 c.c. prevede il diritto
all’indennità del possessore di mala fede nella minore misura tra l’importo della spesa e l’aumento
di valore conseguito dalla cosa, escludendo che i due criteri alternativi si equivalgano.
Aggiungono le ricorrenti che sarebbe stato onere dell’attrice dimostrare che la spesa sostenuta si
era tradotta nel corrispondente aumento di valore della cosa. Con la conseguenza che il
riconoscimento della spesa delle opere eseguite, quale indicata dal c.t.u., è stata determinata in
violazione delle norme di diritto e del procedimento richiamate, oltre ad essere
contraddittoriamente motivata rispetto alle risultanze della relazione tecnica del 29.5.1997, la
quale non avrebbe accertato alcun aumento di valore dell’immobile, ma solo riportato il costo
relativo alle opere fatte eseguire dall’attrice (pagg. 8-15), dal momento che dalle prove
testimoniali esperite risultava trattarsi di abitazione costruita ex novo nel 1975, dunque di un
immobile nuovo e perfettamente efficiente.
Insistono le ricorrenti che la contraddittorietà della motivazione emergerebbe anche dal
riferimento alla mancata rivalutazione dei costi, che comunque non spetterebbero al possessore
in mala fede. L’illustrazione del mezzo è completata dalla formulazione dei seguenti quesiti di
diritto: “se ai sensi dell’art. 1150 c.c. l’aumento di valore conseguito dalla cosa per i miglioramenti
recati dal possessore equivale all’importo della spesa sostenuta; se ai sensi dell’art. 2697 c.c. il
possessore deve provare positivamente che la spesa sostenuta per il miglioramento ha

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accertato che l’appellata era in mala fede quando ha eseguito le opere per le quali ha chiesto

comportato un aumento di valore della cosa; se ai sensi dell’art. 1150 c.c. l’indennità per i
miglioramenti che sussistono al tempo della restituzione va commisurata alla rivalutazione
successiva del costo delle opere; se ai sensi dell’art. 115 c.p.c. il giudice può porre a fondamento
della decisione, in assenza della relativa prova, il fatto che la spesa sostenuta per i miglioramenti

risultante dalla prova proposta dalla parte che la casa era di nuova costruzione e dotata di tutti gli
impianti e rifiniture efficienti, deve essere posto a fondamento della decisione della sussistenza
dell’aumento di valore del bene”.

Inoltre, quali fatti controversi in relazione ai quali la motivazione è ritenuta contraddittoria
vengono indicati: “l’inesistenza dell’aumento di valore dell’immobile conseguito alle opere
eseguite dall’appellata, non accertato dalla consulenza tecnica e contraddetto dalla prova in
giudizio che la casa era di nuova costruzione e dotata di tutti gli impianti e rifiniture efficienti;
l’irrilevanza della rivalutazione del costo delle opere dopo la restituzione, per la determinazione
dell’indennità di miglioria”.

Il terzo motivo merita accoglimento.
L’impugnata sentenza, pur riconoscendo l’applicabilità alla fattispecie della norma dell’art. 1150
c.c., ne ha negato la concreta operatività in relazione all’accertata mala fede della resistente,
osservando che le spese sostenute per i miglioramenti arrecati all’immobile non potevano essere
inferiori all’aumento di valore del bene medesimo.
L’affermazione è frutto di un evidente errore.
Invero l’art. 1150 c.c., nel disciplinare i diritti del possessore all’atto della restituzione della cosa
indebitamente posseduta e rivendicata dal legittimo proprietario, stabilisce che per i miglioramenti
sussistenti al tempo della restituzione egli ha diritto ad una indennità che per il possessore di
buona fede va commisurata all’aumento del valore conseguito dalla cosa per effetto degli stessi,
mentre per il possessore di mala fede va commisurata alla minore somma tra l’importo della

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realizza un aumento di valore della cosa pari alla spesa; se ai sensi dell’art. 115 c.p.c. il fatto

spesa e l’aumento del valore; per le addizioni costituenti miglioramenti si applica per il
possessore di buona fede lo stesso trattamento che per le migliorie, mentre per il possessore di
mala fede si applica il sistema meno favorevole previsto per le accessioni dall’art. 936 c.c.. Il
diritto del possessore ad un indennizzo, secondo la previsione dell’art. 1150, comma 2, c.c., per i

attuale ed effettivo che si verifica, in conseguenza di tali miglioramenti, nel patrimonio dell’attore
in rivendicazione (Cass. 28 gennaio 1997 n. 845; Cass. 8 aprile 1983 n. 2498).
La Corte veneziana non ha tenuto conto del fatto che pur spettando sempre il diritto all’indennità
per i miglioramenti, ai sensi art. 1150 c.c., al possessore, non di meno la rilevanza della
distinzione tra possessore di buona fede e di mala fede ai fini del calcolo di tale indennità deve
essere valutata in concreto, indagine del tutto mancante nella gravata sentenza la quale si è
limitata a considerare superficialmente che era arduo ipotizzare un miglioramento di valore
inferiore al costo delle opere. Infatti, il diritto all’indennizzo, previsto dall’art. 1150 c.c. a favore del
possessore anche se di malafede, per i miglioramenti arrecati al bene altrui ed esistenti al
momento della restituzione, si correla all’aumento di valore – attuale ed effettivo – che ne ricava il
proprietario del bene (Cass. n. 16012 del 2002; Cass. n. 12342 del 2002). La statuizione,
pertanto, astraendo dall’accertamento della fonte dell’incremento patrimoniale che si pretende
abbiano avuto le proprietarie al momento della restituzione del bene e dalla comparazione con i
costi documentati come sopportati dal possessore per la realizzazione delle opere de quibus, si è
discostata da detto principio, avendo proceduto alla valutazione degli incrementi, come emerge
chiaramente dalle ragioni esposte nella motivazione, in violazione dei menzionati criteri di
effettività ed attualità.
Con il quarto motivo la denuncia di violazione dell’art. 1150 c.c. e del vizio di
contraddittoria motivazione è prospettata con riferimento al riconoscimento dell’indennità quanto
alla trasformazione del rustico in autorimessa, eseguita in assenza di concessione edilizia e in

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miglioramenti arrecati alla cosa ed esistenti al tempo della restituzione, si correla all’incremento

difformità delle norme urbanistiche, la cui sanatoria è stata richiesta dalle stesse appellanti nel
1995, ottenuta nel 1996 ai sensi della legge n. 724 del 1994 e non già dalla ANGI, posto che
l’indennità spetta al possessore per i miglioramenti che sussistono al tempo della restituzione
della cosa, avvenuta 1’11.6.1993, allorchè l’autorimessa era abusiva. A conclusione del mezzo è

per il miglioramento della cosa che non sussiste al tempo della restituzione, ma si realizza
successivamente e per effetto dell’attività del proprietario”.

Inoltre, quale fatto controverso in relazione al quale la motivazione è ritenuta contraddittoria viene
indicato: “l’irrilevanza della sanatoria edilizia non chiesta né ottenuta dal possessore a fondarne il
diritto all’indennità per l’abuso commesso dal medesimo”.

Anche il quarto motivo è da accogliere.
Invero conclusione analoga a quella formulata per il terzo mezzo merita la valutazione che il
giudice di secondo grado ha ritenuto di formulare con riguardo all’autorimessa realizzata dalla
ANGI, superando il dato pacifico rappresentato dalla circostanza che essa era stata costruita
senza l’autorizzazione amministrativa, richiesta dalla normativa urbanistica, con il rilievo, peraltro
non sostenuto da alcuna indicazione di dati concreti, che tale pretesa illiceità (per essere stato il
bene ricavato dal rustico) era stata sanata, senza l’indicazione di chi vi avrebbe provveduto e del
quando sarebbe stata suscettibile di regolarizzazione. Questa conclusione non appare infatti
conforme ai predetti caratteri di effettività ed attualità che la legge richiede ai fini della
sussistenza dell’incremento suscettibile di indennizzo. In particolare, risulta nella specie disatteso
l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’indennizzo non spetta per le opere abusive, alla cui
presenza – in ragione della loro non commerciabilità e comunque precarietà, essendo esse
suscettibili di rimozione – non può collegarsi l’effetto di un effettivo incremento del valore del bene
(Cass. 10 settembre 1997 n. 8834).

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posto il seguente quesito di diritto: “se ai sensi dell’art. 1150 c.c. spetta l’indennità al possessore

Con il quinto motivo è dedotta la violazione degli artt. 936 e 1150 c.c., oltre a motivazione
contraddittoria ed insufficiente, per avere la corte di merito totalmente disatteso la richiesta delle
ricorrenti di fare rimuovere all’appellata le opere eseguite nella loro proprietà, stante la facoltà
alternativa data al proprietario di ritenere e pagare ovvero di fare rimuovere le opere eseguite dal

pagare. L’illustrazione del mezzo è conclusa dalla formulazione del seguente quesito di diritto:
“se ai sensi degli artt. 936 e 1150 c.c. spetta l’indennità al possessore di mala fede per addizioni
costituenti miglioramenti della cosa di cui il proprietario ha domandato la rimozione”.

Inoltre, quale fatto controverso in relazione al quale la motivazione è ritenuta contraddittoria viene
indicato: “le addizioni per le quali la sentenza ha riconosciuto il diritto all’indennità per migliorie, e
la ragione per la quale l’insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la
decisione, è il mancato accertamento delle addizioni per le quali non spetta l’indennità”.

Questo motivo va dichiarato assorbito in ragione dell’accoglimento dei mezzi tre e quattro,
investendo questione, quale quella dell’accertamento del diritto alla rimozione delle opere in
contestazione, ai sensi dell’ari. 936 c.c., dipendente dal tema in essi affrontato.
Con il sesto motivo è dedotta la violazione degli artt. 948 e 2043 c.c., oltre a
contraddittoria motivazione per avere la corte rigettato la domanda di Rosa NALON di
risarcimento danni nonostante la stessa avesse ottenuto dal Comune l’approvazione del progetto
di ampliamento di altro fabbricato di sua proprietà posto a confine con quello di causa, per la
sopraelevazione alla distanza esistente dal confine, ma a condizione del nulla osta del
confinante, che all’epoca appariva essere la ANGI, la quale rifiutava di prestare l’assenso,
cosicchè la stessa aveva dovuto rinunciare al progetto e realizzare una minore superficie di
ampliamento di mq. 52, nonché un minore spazio scoperto di mq. 41, come accertati dal c.t.u..
Infatti il giudice del gravame non ha tenuto conto che prima che dal rifiuto del nulla osta, il danno
le sarebbe derivato dalla indisponibilità dell’immobile ex art. 948 c.c.. A corollario del mezzo è

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terzo. Segue l’elenco delle opere di cui la sentenza impugnata ha fatto obbligo alle ricorrenti di

formulato il seguente quesito di diritto: “se ai sensi degli artt. 948 e 2043 c.c. chi possiede o
detiene un bene di proprietà altrui deve risarcire al proprietario il danno derivante dalla mancata
disponibilità e dalle mancate utilità ritraibili dal bene”.

Infine, quale fatto controverso in relazione al quale la motivazione è ritenuta contraddittoria viene

responsabilità risarcitoria dell’appellata, in luogo della violazione del diritto di proprietà”.

Il motivo è fondato, perché la sentenza, con apodittica affermazione, ha ritenuto che il possesso
dei beni ereditari da parte dell’erede chiamato in forza di testamento successivamente dichiarato
nullo non comporti l’obbligo del risarcimento dei danni, “non apparendo ipotizzabile la violazione
di uno specifico obbligo correlato alla gestione del bene in possesso dell’appellata (rectius: la
Angi)”. Per contro, come già ricordato, nel capo 9^ del titolo primo del libro delle successioni,
destinato alla petizione di eredità, è disciplinata la possibilità dell’erede di agire contro chi
possiede i beni ereditari a titolo di erede (art. 533 c.c.) o contro i suoi aventi causa (art. 534). La
norma successiva stabilisce che le disposizioni in materia di possesso si applicano anche al
possessore di beni ereditari, per quanto riguarda la restituzione dei frutti, le spese, i miglioramenti
e le addizioni, senza aggiungere null’altro. Occorre quindi far riferimento agli artt. 1147 e 1148
c.c.: quest’ultimo fa obbligo al possessore di buona fede di rispondere verso il rivendicante dei
frutti percepiti dopo la domanda giudiziale e di quelli che avrebbe potuto percepire usando la
diligenza del buon padre di famiglia; nessun cenno v’è quindi all’obbligazione risarcitoria. Va
aggiunto, quanto alla buona fede, che secondo l’art. 1147 c.c. “la buona fede è presunta e basta
che vi sia stata al tempo dell’acquisto”. Questa disposizione è comunemente ritenuta portatrice di
un principio di portata generale (Cass. n. 8258 del 1997; Cass. n. 6648 del 2000) e quindi è
applicabile anche alla fattispecie di cui all’art. 535 c.c.. Ne consegue che chi agisce per
rivendicare i beni ereditari può pretendere il risarcimento dei danni, oltre ai frutti indebitamente
percepiti, nei limiti fissati dall’ari. 1148 c.c..

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indicato: “la supposta violazione di un obbligo di gestione del bene, quale fondamento della

Nella specie, essendo risultata accertata dal giudice del gravame la cessazione della buona fede
della ANGI dal momento della introduzione della domanda giudiziale di petizione di eredità, ossia
dal 31.8.1979 (cfr. pag. 12 e 13 della sentenza impugnata), avendo la verifica della mala fede
formato oggetto del contendere, oltre che di iniziativa probatoria volta a superare la presunzione

della dottrina) l’opzione risarcitoria ex art. 2043 c.c., con riferimento all’epoca della mancata
disponibilità del bene per mala fede della resistente ed in relazione all’approvazione del progetto
di sopraelevazione presentato da Rosa NALON, come originariamente approvato dal Comune.
La decisione della Corte d’appello presta quindi il fianco alla censura riassunta nel quesito in
esame, poiché essa, una volta statuito sul tempo in cui era cessata la presunzione di buona fede
dell’erede testamentaria immessa nel possesso dei beni ereditari, poteva — svolti gli accertamenti
di cui sopra – condannarla al risarcimento del danno per indebita detenzione e utilizzazione dei
beni ereditari in considerazione dei danni pretesi e maturati successivamente a detta data.
Conclusivamente, vanno rigettati i primi due motivi di ricorso, accolti il terzo, il quarto ed il sesto,
assorbito il quinto; la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio ad
altra sezione della Corte d’appello di Venezia, che si atterrà ai principi e ai rilievi come sopra
enunciati ed esposti, e provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione, facendone
questa Corte espressa rimessione (art. 385, ult. cpv., c.p.c.).

P.Q.M.
La Corte, accoglie i motivi terzo, quarto e sesto del ricorso, assorbito il quinto, rigettati il primo ed
il secondo;
cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del
giudizio di Cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Venezia.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione Civile, il 18 febbraio 2014.

vantata dall’erede testamentario, per tale via avrebbe dovuto avere spazio (anche secondo parte

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