Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12791 del 13/05/2021

Cassazione civile sez. VI, 13/05/2021, (ud. 12/01/2021, dep. 13/05/2021), n.12791

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI MARZIO Mauro – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7640-2019 proposto da:

BANCA NAZIONALE DEL LAVORO SPA, in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. PISANELLI 40,

presso lo studio dell’avvocato BRUNO Biscotto, che la rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

C.O.F. SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MUZIO CLEMENTI N. 58, presso

lo studio dell’avvocato FILIPPO CALCIOLI, che la rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7476/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 24/11/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 12/01/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MASSIMO

FALAB ELLA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – C.O.F. s.r.l. evocava in giudizio Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. domandando la restituzione degli importi di Euro 32.742,68 e di Euro 18.516,45; tali somme erano pretese quale ripetizione dell’indebito riferita all’applicazione di interessi anatocistici e di commissioni di massimo scoperto; con lo stesso atto di citazione l’attrice domandava l’accertamento della nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori.

Nella resistenza della banca il Tribunale di Roma condannava la convenuta alla ripetizione della somma complessiva di Euro 27.809,98.

2. – C.O.F. proponeva appello cui resisteva la Banca Nazionale del Lavoro. Con sentenza del 24 novembre 2018 la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, condannava la banca al pagamento della maggior somma di Euro 69.794,66 a titolo di ripetizione dell’indebito maturato per l’illegittima applicazione di interessi anatocistici. La ragione della diversa determinazione del quantum discende da ciò: nella sentenza di appello gli interessi anatocistici venivano del tutto eliminati, e non conteggiati con capitalizzazione annuale, come aveva invece disposto il Tribunale nella pronuncia di primo grado.

3. – Avverso la decisione della Corte di Roma ricorre per cassazione, con tre motivi, la Banca Nazionale del Lavoro. Resiste con controricorso C.O.F..

Il Collegio ha autorizzato la redazione della presente ordinanza in forma semplificata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo è dedotta la violazione o falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., oltre che una “errata pronuncia in ordine alla relativa eccezione con conseguente vizio sotto il profilo logico-formale”. Assume la ricorrente che la controparte aveva proposto, in appello, una domanda nuova avente ad oggetto la quantificazione del credito relativo alla ripetizione, siccome riferito all’indebito pagamento degli interessi capitalizzati nella loro interezza. Rileva ancora l’istante che con l’atto introduttivo del giudizio la società correntista si era limitata a domandare la declaratoria di nullità della clausola anatocistica. La stessa attrice non aveva inoltre contestato il quesito formulato dal giudice al consulente tecnico d’ufficio nominato in primo grado: quesito con il quale l’ausiliario era stato richiesto della rideterminazione del saldo del conto con esclusione della capitalizzazione trimestrale degli interessi e l’applicazione di quella annuale; allo stesso modo, la controparte non aveva contestato gli esiti della relazione del c.t.u., nè aveva richiesto il rinnovo o il supplemento di perizia.

Il motivo è inammissibile.

La ricorrente assume la novità della domanda che controparte avrebbe svolto solo in appello, e intesa alla ripetizione delle somme corrisposte per interessi anatocistici “senza capitalizzazione annuale” (domanda che risulterebbe conforme al principio, affermato da Cass. Sez. U. 2 dicembre 2010, n. 24418, secondo cui “dichiarata la nullità della previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall’art. 1283 c.c. (il quale osterebbe anche ad un’eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale), gli interessi a debito del correntista devono essere calcolati senza operare alcuna capitalizzazione”). A tal fine l’istante asserisce che C.O.S., nel proprio atto introduttivo, non ebbe a domandare l’eliminazione di ogni forma di capitalizzazione e non ebbe a contestare la capitalizzazione annuale.

La censura è però anzitutto carente di specificità, in quanto non riproduce, nella parte che rileva, la citazione da cui ha preso avvio il giudizio di primo grado. Infatti, la deduzione con il ricorso per cassazione di errores in procedendo implica che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” (Cass. Sez. U. 25 luglio 2019, n. 20181).

Ma la doglianza, per come svolta, è, altresì priva di decisività: si osserva, in proposito, che la proposizione, avanti al Tribunale, di una domanda diretta alla rideterminazione del saldo di conto corrente previa declaratoria di nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi non implica affatto una delimitazione della pretesa nel senso indicato dalla banca appellante.

A fronte della prospettazione di una nullità, il giudice, ove reputi che questa sia esistente, deve trarne le necessarie conseguenze sul piano giuridico: onde, nella fattispecie, in base al principio di cui si è detto, egli avrebbe dovuto elidere dal conto ogni forma di capitalizzazione. Ben si giustifica, quindi, il motivo di appello con cui la correntista ha censurato la mancata applicazione, da parte del Tribunale, della regula juris che nella fattispecie andava adottata: motivo che, per quanto detto, non riflette affatto la proposizione di una domanda nuova, come invece ritenuto dalla ricorrente.

Nè può credersi che l’attore fosse onerato di contestare quanto affermato dal giudice, accertato dal consulente o dedotto dalla controparte, circa l’applicabilità, nel caso di specie, della nominata capitalizzazione annuale. Infatti, il principio di non contestazione, che oltretutto va riferito alla condotta delle sole parti costituite (e non, quindi, all’operato del giudice o del suo ausiliario), riguarda i fatti, non le norme giuridiche.

In sintesi dunque, la proposizione della domanda di accertamento della nullità della clausola che preveda interessi anatocistici implica che il giudice, una volta riconosciuta la nullità, provveda, in sede di rideterminazione del saldo, alla totale elisione dei detti interessi, non essendo rilevante, in contrario, la mancata contestazione, da parte del correntista, quanto ai rilievi svolti, nel corso della trattazione e dell’istruttoria, dal giudice, dalla banca o dal consulente tecnico d’ufficio in ordine all’applicazione della capitalizzazione annuale, giacchè il principio di non contestazione, oltre a dover riguardare la condotta della sola parte, non opera con riguardo alle norme di diritto; in conseguenza, il correntista che richieda la riforma della sentenza che abbia riconosciuto la detta capitalizzazione annuale e l’integrale eliminazione degli interessi anatocistici non propone, con ciò, una domanda diversa da quella originariamente proposta, ma formula una censura che investe la decisione impugnata nell’erronea applicazione di un principio di diritto.

2. – Col secondo motivo viene lamentata la violazione dell’art. 115 c.p.c. e l’errata pronuncia sul punto della pretesa non contestazione del quantum con conseguente vizio sotto il profilo logico-formale. La censura investe l’affermazione della Corte territoriale per cui la quantificazione del saldo contenuta nella perizia stragiudiziale della società correntista non era stata oggetto di “specifiche e dettagliate contestazioni da parte dell’appellata in ordine alla congruità dei conteggi”. Rileva la banca di aver invece dedotto, in appello: che l’importo di Euro 69.794,66, di cui all’elaborato tecnico prodotto dall’appellante risultava essere superiore alla somma domandata in primo grado; che sul conteggio in questione era mancato il contraddittorio; che controparte non aveva fornito chiarimenti quanto alla differenza tra l’importo originariamente domandato e quello risultante dall’elaborato prodotto avanti al giudice del gravame.

Anche tale motivo è inammissibile.

La Corte di appello, dopo aver riconosciuto che gli interessi andavano conteggiati senza alcuna capitalizzazione, ha valorizzato l’assenza di circostanziate contestazioni circa la congruità dei conteggi contenuti nella perizia dell’appellante (i quali, evidentemente, erano stati redatti espungendo la capitalizzazione annuale degli interessi).

La banca ricorrente non coglie, nella sua precisa dimensione, tale ratio decidendi: essa, difatti, non individua i passaggi dei propri atti difensivi in cui sarebbero state sollevate specifiche contestazioni quanto alla materiale traduzione della regola giuridica reputata corretta dalla Corte distrettuale (quella della non attuabilità di alcuna capitalizzazione) in corrispondenti valori matematici (e quindi nella elaborazione di un saldo depurato da interessi anatocistici, fossero essi trimestrali o annuali). L’istante si sofferma, invece, su asserite deduzioni concernenti profili diversi, estranei al significato che deve assegnarsi al richiamato passaggio motivazionale circa la mancata contestazione. Va qui rammentato che in tema di ricorso per cassazione, è necessario che venga contestata specificamente la ratio decidendi posta a fondamento della pronuncia impugnata.

3. – Il terzo mezzo oppone la violazione dell’art. 112 c.p.c. e, in particolare, la mancata pronuncia circa una domanda o eccezione svolta dalla banca. L’istante si duole del fatto che la Corte di merito non abbia tenuto conto del fatto che le proprie conclusioni di appello, essa aveva domandato, per l’ipotesi di accoglimento, anche solo parziale, dell’impugnazione, di accertare la somma che risultasse dovuta a C.O.F. “dedotto quanto già corrisposto in esecuzione della sentenza impugnata”. Osserva, in proposito, che la stessa appellante, nella propria memoria di replica, aveva dato atto che dall’importo ad essa dovuto doveva essere sottratto quello di Euro 34.017,98, comprensivo delle spese legali.

Pure tale motivo è inammissibile.

La banca, che resisteva alla pretesa restitutoria della controparte, non aveva svolto alcuna domanda giudiziale nei confronti della medesima; nè, a ben vedere, la dedotta omessa pronuncia può avere ad oggetto il tema relativo al pagamento posto in atto in esecuzione della sentenza di primo grado. Tale dato è stato menzionato nel quadro di una difesa di merito diretta a far salva la corretta determinazione della somma ancora complessivamente dovuta dalla Banca Nazionale del Lavoro. Ora, affinchè possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronuncia, è anzitutto necessario che al giudice di merito fossero state rivolte una domanda o un’eccezione autonomamente apprezzabili (Cass. Sez. U. 28 luglio 2005, n. 15781; Cass. 4 marzo 2013, n. 5344); tale non può tuttavia considerarsi l’affermazione relativa all’intervenuto pagamento della somma portata dalla sentenza di primo grado: affermazione con cui la banca ha inteso solo precisare l’ambito entro cui conservava attualità la pretesa azionata da controparte.

Peraltro, la Corte di appello si è disinteressata del detto profilo in quanto, come rammenta la stessa ricorrente, il dato dell’avvenuto pagamento della somma di Euro 34.017,98 era stato riconosciuto da C.O.F. ed era, dunque, da considerarsi pacifico in causa (il che trova ulteriore, indiretta, conferma nel rilievo della controricorrente per cui la sentenza di appello fu posta in esecuzione detraendo l’attuato versamento dalla somma rideterminata dal giudice distrettuale: pag. 18 del controricorso). In tale prospettiva, è quindi da ritenere che la Corte di appello, con la sentenza impugnata, non abbia inteso affatto ignorare, o addirittura sconfessare, il versamento di cui si è detto: essa, col proprio dispositivo, ha piuttosto voluto chiarire in quali termini dovesse essere riformata la sentenza di primo grado, precisando, di conseguenza, quale fosse il complessivo ammontare dell’indebito, maturato nel corso del rapporto di conto corrente, cui era stata indirizzata la domanda di ripetizione.

4. – Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.

5. – Segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

PQM

La Corte:

dichiara inammissibile il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.100,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 6a Sezione Civile, il 12 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2021

 

 

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