Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12732 del 21/06/2016

Cassazione civile sez. III, 21/06/2016, (ud. 08/03/2016, dep. 21/06/2016), n.12732

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

G.R.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

DEI GRACCHI 278, presso lo studio dell’avvocato GAETINI LAURA, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FRANZOSO ROBERTO

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

B.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

SISTINA 121, presso lo studio dell’avvocato BONOTTO MARCELLO, che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato VENTURINO MARCO

giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 159/2014 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 28/01/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/03/2016 dal Consigliere Dott. GRAZIOSI CHIARA;

udito l’Avvocato MEUCCI MARINA per delega non scritta;

udito l’Avvocato VENTURINO MARCO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO ALBERTO che ha concluso per il rigetto del 1^ motivo del

ricorso e inammissibilità degli altri.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con sentenza del 5 dicembre 2003 il Tribunale di Asti, in relazione a una causa di divisione dell’eredità paterna tra due fratelli, G.O. e G.R., confermava con modifiche il progetto di divisione predisposto dal giudice istruttore con ordinanza del 21 maggio 2003 sulla base degli esiti di una c.t.u., imponendo a G.O. – cui veniva attribuito il lotto immobiliare di maggior valore – il versamento di una somma a titolo di conguaglio.

Avendo G.O. proposto appello ritenendo erronea ed esorbitante tale somma, anche perchè derivata da una duplicazione di poste, la Corte d’appello di Torino, con sentenza del 5 febbraio 2009, lo respingeva, ritenendo che la sua pretesa di rivedere i conteggi era già stata correttamente rigettata dal Tribunale per mancanza di specifiche contestazioni tempestive riguardanti il progetto del giudice istruttore; e la sentenza passava in giudicato.

Il 15 e il 24 luglio 2009 G.O. versava al fratello, tra l’altro, quello che a suo avviso era il dovuto conguaglio; con precetto del 13 ottobre 2009 G.R. gli intimava un ulteriore pagamento di Euro 173.669,69, contro il quale G. O. proponeva opposizione a precetto per asserita carenza di condanna nelle sentenze precedenti e per erroneità dei conteggi per duplicazione di poste.

Il Tribunale di Asti, con sentenza del 20-30 dicembre 2010, rigettava l’opposizione, riconoscendo che vi era stata una duplicazione di poste emergente dagli atti che aveva comportato un surplus di Lire 177.439.865, ma affermando altresì che il giudicato formatosi era intangibile e che non vi era alcuno spazio per l’interpretazione del titolo, in quanto ciò avrebbe posto il giudice dell’esecuzione in contrasto col giudicato.

G.O. proponeva appello; durante le more del giudizio decedeva e gli succedeva in esso l’erede B.G.. Con sentenza del 10 gennaio-28 gennaio 2014 la Corte d’appello di Torino accoglieva l’appello, ritenendo chef la duplicazione di poste emergendo dalla c.t.u. costituente parte integrante del titolo esecutivo, rientrava nel potere interpretativo del titolo del giudice dell’esecuzione determinare la somma effettivamente dovuta, senza confliggere pertanto con il giudicato.

2. Ha presentato ricorso G.R., sulla base di tre motivi, il primo denunciante, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c., ovvero del principio del ne bis in idem; il secondo motivo, ancora ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c. per ultrapetizione ed extrapetizione, nonchè dell’art. 615 c.p.c., comma 2; il terzo motivo, infine, denuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di fatti decisivi e discussi.

Si è difesa con controricorso la B., chiedendo che il ricorso sia dichiarata inammissibile o sia rigettato; ha inoltre depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

3. Il ricorso è infondato.

3.1 Il primo motivo denuncia, in riferimento alla pretesa violazione e/o falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c., mancato rispetto del principio del ne bis in idem. La Corte d’appello nella sentenza impugnata ha accolto una questione di duplicazione di poste per determinare il conguaglio che era già stata oggetto di impugnazione della sentenza del 5 dicembre 2003 del Tribunale di Asti, ed era quindi già stata esaminata nella relativa sentenza d’appello, emessa dalla stessa corte territoriale il 5 febbraio 2009.

In quest’ultima pronuncia l’appello sarebbe stato integralmente respinto in considerazione del fatto che, ai sensi dell’art. 789 c.p.c., le contestazioni del progetto di divisione avrebbero dovuto essere proposte all’udienza fissata per discuterlo. E nessun sostegno potrebbe trovare la sentenza impugnata, ad avviso del ricorrente, nella ivi richiamata S.U. 2 luglio 2012 n. 11066 (per cui il titolo esecutivo giudiziale, ex art. 474 c.p.c., comma 2, n. 1, “non si identifica, nè si esaurisce, nel documento giudiziario in cui è consacrato l’obbligo da eseguire, essendo consentita l’interpretazione extratestuale del provvedimento, sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui esso si è formato”) dal momento che tale arresto riguarda un’ipotesi di determinazione di somme generica e incerta, laddove nel caso in esame la somma sarebbe determinata in modo chiaro e specifico; e anche la successiva giurisprudenza riconoscerebbe al giudice dell’esecuzione soltanto una attività interpretativa che comunque non vada a inficiare l’intangibilità del giudicato.

Proprio dalla illustrazione del motivo emerge la natura effettiva della doglianza che esso introduce. Il nucleo della censura, infatti, è da identificarsi nel contenuto del titolo esecutivo, contenuto che, ad avviso del ricorrente, nel caso in esame avrebbe già di per sè determinato inequivocamente l’importo del conguaglio, così da rendere non necessaria, e pertanto erronea (e qui, tramutando l’asseritamente erronea interpretazione del giudice dell’esecuzione in una violazione dei limiti del suo potere il ricorrente tenta di introdurre un preteso mancato rispetto del giudicato nel senso di ulteriore accertamento sullo stesso oggetto: bis in idem), l’integrazione del titolo con elementi ulteriori (nel caso di specie, la c.t.u., peraltro definita parte integrante del titolo). Invece,la corte territoriale ha ritenuto necessario sorreggere la sua valutazione interpretativa del titolo esecutivo tenendo conto, appunto, pure della c.t.u. cui la sentenza rimanda, c.t.u. dalla quale sarebbe emersa la duplicazione delle poste.

Ma se è così, la questione che viene denunciata nel motivo non è riconducibile alla violazione del principio del ne bis in idem, che chiaramente deve essere rispettato anche dal giudice dell’esecuzione nell’espletamento della sua attività interpretativa del titolo esecutivo giudiziale. Invero, quel che lamenta il ricorrente è ancora a monte di tale pretesa violazione: e cioè concerne le modalità con cui è stata espletata l’interpretazione del titolo esecutivo, che ad avviso del ricorrente sarebbe stata erronea, non emergendo dal titolo alcuna incertezza e pertanto non occorrendo alcuna integrazione extratestuale. Quel che contesta il ricorrente, dunque, è la concreta valutazione, ovvero l’interpretazione, da parte del giudice dell’esecuzione – qui come giudice dell’opposizione al precetto -, del contenuto del titolo esecutivo. L’interpretazione del contenuto del titolo esecutivo, incluso l’accertamento della rilevanza e della idoneità delle fonti di integrazione extratestuale, compete però al giudice di merito (da ultimo, v.

Cass. sez. lav., 1 ottobre 2015 n. 19641): solo quest’ultimo può determinare se il titolo esecutivo gode, appunto, di un contenuto autosufficiente e univocamente definito oppure se si correla e si supporta, di per sè non essendo esaustivo, con altri elementi emergenti dagli atti del processo. Detta interpretazione, dunque, costituisce un accertamento di fatto, che può essere sottoposto al controllo del giudice di legittimità non in via diretta – come avviene nel motivo in esame -, bensì mediata, ovvero in quanto accertamento derivante da violazione della normativa che statuisce le regole ermeneutiche (art. 1362 c.c., e s.s.) – la cui violazione deve essere dunque l’oggetto della denuncia – ovvero in quanto esternata tramite un apparato motivazionale viziato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (cfr. sulla natura fattuale che assume anche il contenuto di un giudicato ai fini dell’esecuzione Cass. sez. 3, 21 novembre 2001 n. 14727 – per cui “l’interpretazione del titolo esecutivo, consistente in una sentenza passata in giudicato, compiuta dal giudice dell’opposizione a precetto o all’esecuzione, si risolve nell’apprezzamento di un “fatto”, come tale incensurabile in sede di legittimità se esente da vizi logici o giuridici, senza che possa diversamente opinarsi alla luce dei poteri di rilievo officioso e di diretta interpretazione del giudicato esterno da parte del giudice di legittimità, atteso che, in sede di esecuzione, la sentenza passata in giudicato, pur ponendosi come “giudicato esterno” (in quanto decisione assunta fuori dal processo esecutivo), non opera come decisione della lite, bensì come titolo esecutivo e, pertanto, al pari degli altri titoli esecutivi, non va intesa come momento terminale della funzione cognitiva del giudice, bensì come presupposto fattuale dell’esecuzione, ossia come condizione necessaria e sufficiente per procedere ad essa” – e le conformi Cass. sez. 3, 25 marzo 2003 n. 4382, Cass. sez. 3, 9 agosto 2007 n. 17482, Cass. sez. 3, 6 luglio 2010 n. 15852).

Nel caso in esame, invece, come si è visto la critica è diretta nell’investire il contenuto dell’interpretazione, non risultando conformata nè come denuncia di vizio motivazionale nè come censura in relazione alla normativa ermeneutica. Pertanto, il motivo non merita accoglimento, assorbendosi ogni altro profilo, dal momento che la censura di pretesa violazione del principio del ne bis in idem in realtà si volge a perseguire una inammissibile revisione, da parte del giudice di legittimità, dell’accertamento di fatto che ne costituirebbe il presupposto.

3.2 Il secondo motivo, invocando l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 99, 112 c.p.c. e art. 615 c.p.c., comma 2, adducendo che il contenuto sostanziale di quella che definisce domanda di parte appellante (sic) riguarderebbe solo la presunta duplicazione di Lire 177.439.865, pari a Euro 91.640,04, laddove il totale precettato ammonta a Euro 173.669,63.

Poichè il precetto non è nullo se intima il pagamento di una somma superiore al dovuto, l’intimazione sarebbe rimasta valida per la somma realmente dovuta, che il giudice deve rideterminare. Ma il giudice d’appello, incorrendo in ultrapetizione e/o extrapetizione, ha dichiarato nullo l’intero precetto.

Questo motivo è inammissibile, in quanto si fonda – in modo più palese del motivo precedente – su argomenti puramente fattuali, chiedendo in sostanza al giudice di legittimità di effettuare un ricalcolo in relazione a un preteso residuo importo del precetto che non sarebbe coperto dalla duplicazione riconosciuta nella sentenza impugnata. E ciò a prescindere dal rilievo dell’attuale controricorrente nel senso che, in effetti, viene così presentata una inammissibile questione nuova, che non era stata in precedenza resa oggetto di vaglio.

3.3 Il terzo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quello che definisce omesso esame di fatto decisivo e discusso, ma che in realtà si articola in una pluralità di fatti. In particolare, viene addebitato al giudice d’appello l’omesso esame della redazione del progetto divisorio da parte del giudice istruttore del Tribunale di Asti con ordinanza del 21 maggio 2003, che, nel verbale dell’udienza fissata ex art. 789 c.p.c. per la sua discussione il 23 maggio 2003, G.O. non avrebbe contestato in ordine alla duplicazione di poste; inoltre, la sua non contestazione sarebbe stata tale che nell’atto di appello contro la sentenza del Tribunale di Asti del 5 dicembre 2003 egli avrebbe ammesso di dovere pagare per conguaglio Euro 233.612,76, pur manifestando poi la volontà di corrispondere soltanto Euro 103.266,39; ancora, nelle precisate conclusioni e nella conclusionale del giudizio di primo grado sfociato nella suddetta sentenza il fratello defunto del ricorrente non avrebbe contestato il procedimento logico adottato per determinare il conguaglio e, quindi, il fatto che nel susseguente appello egli abbia riconosciuto di dovere all’attuale ricorrente Euro 233.000 al titolo di conguaglio in forza della sentenza appellata avrebbe dovuto essere considerato nella sentenza in questa sede impugnata.

A ben guardare – e a tacer d’altro a proposito dell’effettivo contenuto della motivazione della sentenza impugnata -, nessuno dei fatti che il ricorrente asserisce essere avvenuti può essere qualificato decisivo. In primo luogo, deve osservarsi che l’ordinanza del 21 maggio 2003 non può qualificarsi fatto decisivo essendo un provvedimento giurisdizionale (non può non ricordarsi poi che il vizio motivazionale concerne esclusivamente la esternazione dell’accertamento di fatto), senza contare che neppure come tale le potrebbe mai essere attribuita alcuna decisività, in quanto il Tribunale di Asti modificò nella sentenza del 5 dicembre 2003 il progetto di divisione in essa racchiuso. In secondo luogo, e a prescindere da ogni profilo di autosufficienza, il ricorrente fa riferimento ad atti – o a parti di atti – processuali che estrapola dalla complessiva difesa del suo defunto fratello: peraltro, non avendo egli addotto che siano attribuibili personalmente alla parte sostanziale, e non avendo quindi valore confessorio – in difetto di una specifica procura, come rileva la controricorrente: procura che il ricorrente non adduce che suo fratello abbia rilasciato, appunto, al difensore – gli atti processuali attribuibili esclusivamente al difensore, non si vede come questi possano esplicare alcun effetto di decisività (sull’essere attribuibile il valore confessorio unicamente agli atti processuali sottoscritti anche dalla parte sostanziale v. Cass. sez. 1, 23 luglio 1997 n. 6909, Cass. sez. 3, 26 marzo 1999 n. 2894, Cass. sez. 2, 13 dicembre 2001 n. 15760 e Cass. sez. L, 13 gennaio 2004 n. 319). E tutto ciò conduce all’inammissibilità pure questo motivo.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

Sussistono D.P.R. n. 115 del 2012, ex art. 13, comma 1 quater, i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. comma 1 bis.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 7000, oltre Euro 200 per esborsi e oltre gli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 8 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2016

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