Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1273 del 22/01/2021

Cassazione civile sez. trib., 22/01/2021, (ud. 07/07/2020, dep. 22/01/2021), n.1273

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PERRINO Angelina Maria – Presidente –

Dott. CATALLOZZI Paolo – rel. Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. GALATI Vincenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5414/2012 R.G. proposto da:

Hancatherm Italia s.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Leonardo Paoletti, con

domicilio eletto in Roma, via Marianna Dionigi, 57, presso lo studio

dell’avv. Claudia De Curtis;

– ricorrente, intimato in via incidentale –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

– controricorrente, ricorrente in via incidentale –

Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro

tempore;

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del

Veneto, n. 2/11, depositata il 12 gennaio 2011.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 7 luglio 2020

dal Consigliere Paolo Catallozzi;

 

Fatto

RILEVATO

che:

– la Hancatherm Italia s.p.a. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto, depositata il 12 gennaio 2011, che, in reiezione dell’appello principale dalla medesima proposto e in parziale accoglimento di quello incidentale dell’Ufficio, ha dichiarato la legittimità del rilievo dell’impugnato avviso di accertamento concernente l’omessa contabilizzazione di una sopravvenienza attiva, confermando, per il resto, la sentenza di primo grado;

– dall’esame di tale decisione si evince che con l’atto impositivo l’Ufficio aveva contestato, relativamente all’anno 2003, ai fini dell’1.v.a, violazioni formali e di obblighi contabili, e, ai fini delle di imposte dirette, oltre alla menzionata omessa contabilizzazione di una sopravvenienza attiva, l’indebita deduzione di costi e di perdite;

– la sentenza dà atto che il giudice di primo grado aveva ritenuto legittimo l’avviso di accertamento, con la sola esclusione dei rilievi concernenti l’omessa contabilizzazione della sopravvenienza attiva e la deduzione di costi di ristorazione;

– il ricorso è affidato a quattro motivi;

– resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate, la quale propone ricorso incidentale;

– avverso tale ricorso incidentale la Hancatherm s.p.a. non spiega alcuna attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– va dichiarata, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso principale proposto nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, essendo quest’ultimo privo della necessaria legittimazione passiva poichè il giudizio di appello è stato introdotto dopo il 1 gennaio 2001, data in cui è divenuta operativa l’istituzione dell’Agenzia delle Entrate, cui spetta esclusivamente la legittimazione ad causam e ad processum nei procedimenti introdotti successivamente a tale data (cfr. Cass., sez. un., 14 febbraio 2006, n. 3118);

– con il primo motivo del ricorso principale la società denunzia l’error in procedendo in cui sarebbe incorso il giudice di appello per omessa pronuncia su punti decisivi della controversia, nonchè per motivazione carente;

– il motivo è inammissibile, in quanto la parte omette di indicare quali siano i punti controversi – devoluti alla cognizione del giudice del gravame – che non sarebbero stati esaminati;

– sotto altro aspetto, la sentenza della Commissione regionale illustra adeguatamente le conclusioni cui giunge in ordine alla legittimità dei rilievi oggetto del suo esame, evidenziando, quanto ai costi e alle perdite indebitamente dedotti, per alcuni, l’assenza di competenza, e, per altri, la mancata certezza;

– quanto all’omessa contabilizzazione della sopravvenienza attiva, costituita da una somma oggetto di nota di accredito per storno fattura per acconto riscosso, il giudice di appello ritiene legittimo il rilievo in considerazione dell’assenza di prove in ordine all’effettiva restituzione dell’importo in questione;

– così argomentata, la decisione del giudice di appello si sottrae alla censura prospettata, poichè consente di individuare il ragionamento seguito dal giudice;

– con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., per aver la sentenza impugnata ritenuto legittimo l’avviso di accertamento impugnato – salvo che per il rilievo rappresentato dall’indeducibilità dei costi di ristorazione – pur in assenza della prova da parte dell’Ufficio della sussistenza della propria pretesa;

– il motivo è inammissibile, in quanto si risolve in una censura della valutazione operata dal giudice di appello in ordine all’idoneità degli elementi probatori acquisiti al giudizio a dimostrare la sussistenza della pretesa erariale vantata dall’Amministrazione finanziaria;

– una siffatta censura non può trovare ingresso in questa sede in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale e non può riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa (cfr. Cass. 28 novembre 2014, n. 25332; Cass., ord., 22 settembre 2014, n. 19959);

– non viene, dunque, prospettata la violazione della regola del riparto dell’onere probatorio, espressa dall’invocato art. 2697 c.c. – peraltro, infondata, atteso che la sentenza impugnata non ha sollevato l’Ufficio dell’onere di dimostrare i fatti costitutivi della propria pretesa -, ma unicamente la non condivisione della valutazione degli elementi probatori effettuata dal giudice di appello, valutazione che è a questi riservata;

– può, in ogni caso, rammentarsi che, in materia di deducibilità dei costi d’impresa, grava sul contribuente l’onere della dimostrazione della posta passiva, in applicazione del principio generale espresso T.U. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, nella formulazione vigente ratione temporis, e, laddove sia contestata l’inesistenza oggettiva delle relative operazioni ovvero il difetto di inerenza del costo, tale prova non può, tuttavia, consistere nella esibizione della fattura, nè nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui desumere l’esistenza dell’operazione, il relativo importo e la ragione e la coerenza economica della stessa (Cass. 19 dicembre 2019, n. 33915; Cass. 8 ottobre 2014, n. 21184);

– pertanto, non decisiva è l’allegata esistenza di fatture a sostegno dell’effettività delle operazioni in contestazione;

– con il terzo motivo la contribuente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 2727 c.c., per aver la Commissione regionale ritenuto legittimo l’avviso di accertamento benchè fondato su presunzioni a catena, in violazione del divieto di praesumptio de praesumpto;

– il motivo è inammissibile per difetto di specificità, in quanto la censura non è corredata dall’indicazione dei passi motivazionali in cui la sentenza di appello avrebbe fatto ricorso a tale presunzione, nè gli stessi sono, comunque, agevolmente individuabili dall’esposizione della censura;

– si osserva, in ogni caso, che, secondo costante orientamento della giurisprudenza di legittimità è possibile in questa sede censurare la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. solo allorchè ricorra il cd. vizio di sussunzione, ovvero quando il giudice di merito, dopo avere qualificato come gravi, precisi e concordanti gli indizi raccolti, li ritenga, però, inidonei a fornire la prova presuntiva oppure qualora, pur avendoli considerati non gravi, non precisi e non concordanti, li reputi, tuttavia, sufficienti a dimostrare il fatto controverso (così, da ultimo, Cass., ord., 13 febbraio 2020, n. 3541);

– nel caso in esame non ricorre un siffatto vizio;

– con l’ultimo motivo del ricorso principale la società lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 39 e 42, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, n. 21, 23 e 26, e del T.U. n. 917 del 1986, artt. 55 e 75, per aver il giudice di appello ritenuto legittimo l’avviso di accertamento benchè carente di motivazione, sia sui suoi presupposti fattuali e giuridici, sia sul mancato accoglimento delle osservazioni proposte ai sensi della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7;

– con la medesima censura allega che l’atto impositivo sarebbe fondato su un unico elemento presuntivo;

– con riferimento al primo aspetto, il motivo è inammissibile, atteso che la parte omette di riprodurre, quanto meno per le parti salienti, il contenuto dell’atto di appello, necessario, in assenza di utili indicazioni ricavabili dalla sentenza, al fine di verificare che le questioni sottoposte con i richiamati motivi di impugnazione non siano “nuove” e di valutare la rilevanza e la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte (cfr. Cass., sez. un., 28 luglio 2005, n. 15781; in tal senso, successivamente, Cass. 20 agosto 2015, n. 17049);

– in tal modo non ha assolto all’onere imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e ha, dunque, violato il principio di specificità ivi contemplato, non offrendo gli elementi indispensabili per consentire di effettuare un giudizio positivo in ordine all’ammissibilità e alla fondatezza della questione prospettata;

– in ordine al secondo aspetto, il motivo investe l’apprezzamento effettuato dal giudice di appello delle risultanze istruttorie che, come evidenziato in precedenza, è sottratto al sindacato del giudice di legittimità, se non sotto il profilo, non censurato in questa sede, del vizio di motivazione;

– può aggiungersi che, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, in tema di prova civile conseguente ad accertamento tributario, gli elementi assunti a fonte di presunzione non debbono essere necessariamente plurimi, potendosi il convincimento del giudice fondare anche su un elemento unico, preciso e grave (cfr. Cass., ord., 27 settembre 2018, n. 19987; Cass. 15 gennaio 2014, n. 656);

– inoltre, in merito alla parte della doglianza dedicata alla contestazione della sentenza nella parte in cui respinge il motivo di appello concernente il recupero della somma oggetto di storno, si osserva che la Commissione regionale ha ritenuto che tale storno fosse stato erroneamente disposto, in quanto non rappresentativo della operazione descritta;

– ha, altresì, ritenuto che la somma in questione, originariamente incassata dalla contribuente quale acconto per una futura operazione di vendita immobiliare che successivamente era stata perfezionata da altro soggetto, dovesse essere assoggettata ad imposizione, avuto riguardo alla inconcludenza della documentazione contabile esaminata e alle incongruenze in essa rilevate;

– con particolare riferimento alla nota di variazione che la società contribuente avrebbe emesso, si osserva che, in presenza della contestazione dell’Amministrazione finanziaria, è onere del contribuente dimostrare la ricorrenza dei presupposti di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 26, comma 2, per accedere al regime della variazione in diminuzione dell’imposta tramite la corretta e completa registrazione delle operazioni, da cui emerga inequivocabilmente la corrispondenza tra le stesse, oppure, ove tale onere non possa essere così assolto, attraverso altri mezzi di prova nel rispetto delle regole generali ed in particolare dell’art. 2704 c.c. (così, Cass., ord., 27 luglio 2018, n. 20035; Cass. 11 aprile 2014, n. 8535);

– nel caso in esame, dall’accertamento operato dalla Commissione regionale non emergono elementi da cui desumere la sussistenza di tali presupposti sostanziali, nè la parte ha dedotto nel ricorso il venir meno dell’operazione in oggetto, con restituzione dell’acconto ricevuto;

– pertanto, anche sotto tale profilo, l’argomentazione del giudice di appello si sottrae alla censura prospettata dalla contribuente;

– con il ricorso incidentale l’Agenzia delle Entrate critica la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omessa pronuncia, in relazione al motivo di appello incidentale relativo al rilievo avente ad oggetto la deduzione dei costi per ristorazione e per riparazione di autovetture;

– il motivo è inammissibile per violazione del criterio dell’autosufficienza, atteso che la parte ha omesso di riportare compiutamente il motivo di gravame non esaminato, non consentendo a questa Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano “nuove” e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte (cfr. Cass. 20 agosto 2015, n. 17049; Cass. 17 agosto 2012, n. 14561);

– infatti, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso (cfr. Cass., Sez. Un., 5 novembre 2019, n. 28332; Cass., ord., 29 settembre 2017, n. 22880);

– pertanto, per le suesposte considerazioni, nè il ricorso principale, nè incidentale possono essere accolti;

– in considerazione della reciproca soccombenza appare opportuno disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale; compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 13 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 22 gennaio 2021

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