Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12707 del 25/06/2020

Cassazione civile sez. lav., 25/06/2020, (ud. 28/02/2019, dep. 25/06/2020), n.12707

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Presidente –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6686-2016 proposto da:

C.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COSSERIA 2,

presso lo studio del Dott. ALFREDO PLACIDI, rappresentata e difesa

dall’avvocato UMBERTO FERRARI;

– ricorrente –

contro

CA.FL., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE

MAZZINI 55, presso lo studio dell’avvocato PAOLA PETRELLA TIRONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato ELIANA BERNARDINI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 721/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 25/09/2015 R.G.N. 235/2013.

Fatto

RILEVATO

che la Corte territoriale di Milano, con sentenza pubblicata il 25.9.2015, riformando integralmente la pronunzia del Tribunale di Lodi n. 164/2012, depositata il 18.10.2012, ha rigettato le domande di C.E., nei confronti di Ca.Fl., dirette al riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra le parti dall’1.4.2008 al 30.4.2011 e ad ottenere il pagamento, in suo favore, del TFR, nella misura di Euro 6.073,98;

che per la cassazione della sentenza ricorre C.E. articolando tre motivi, cui resiste con controricorso tardivo Ca.Fl.;

che il PG non ha formulato richieste.

Diritto

CONSIDERATO

che, con il ricorso, si deduce: 1) la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 2094 c.c. in combinato disposto con l’art. 2697 c.c., artt. 115 e 416 c.p.c. in combinato disposto, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e si deduce che la Corte di merito non avrebbe valutato gli elementi c.d. sussidiari o complementari della subordinazione, commettendo, in tal modo, un errore di qualificazione del rapporto di cui si tratta, al quale, a parere della ricorrente, si sarebbe dovuto riconoscere, contrariamente alle conclusioni cui è pervenuta la Corte territoriale, il connotato della subordinazione; 2) la violazione o falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 115 e 416 c.p.c. e “si contesta la determinazione dei criteri generali ed astratti impiegati di Giudice di Appello per statuire sul caso concreto, nonchè l’erronea ripartizione dell’onere della prova”; 3) la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, perchè la Corte di merito, senza una adeguata motivazione, si sarebbe limitata ad affermare che la C. non avrebbe dimostrato la natura subordinata del rapporto di lavoro;

che i primi due motivi, da trattare congiuntamente per ragioni di connessione, non sono fondati, perchè i giudici di seconda istanza hanno preso in considerazione gli elementi che connotano la subordinazione e, dopo avere vagliato le risultanze istruttorie, sono pervenuti, attraverso un percorso motivazionale del tutto coerente, ad escluderne la sussistenza con riferimento alla fattispecie. Al riguardo, è da premettere che il caso all’esame ripropone la vexata quaestio della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e rapporto di lavoro subordinato in una fattispecie che, per alcuni versi, presenta dei connotati peculiari. Deve, del resto, prendersi atto che oggi i due cennati tipi di rapporto non compaiono che raramente nelle loro forme e prospettazioni “primordiali” e più semplici, in quanto gli aspetti molteplici di una vita quotidiana e di una realtà sociale in continuo sviluppo e le diuturne sollecitazioni che ne promanano hanno insinuato in ognuno di essi elementi per così dire perturbatori che appannano, turbano, appunto, la primigenia simplicitas del “tipo legale” e fanno dei medesimi, non di rado, qualcosa di ibrido e, comunque, di difficilmente definibile.

Per cui la qualificazione sub specie di locatio operis o locatio operarum e la sua sussunzione sotto l’uno o l’altro nomen iuris diventa più delicata e richiede una più approfondita opera di accertamento della realtà fattuale e di affinamento di quei momenti che la teoria ermeneutica caratterizza come subtilitas explicandi e, soprattutto, come subtilitas applicandi.

Soccorre, peraltro, in questa actio finium regundorum tra lavoro autonomo e subordinato l’insegnamento della giurisprudenza che, intervenendo con molta consapevolezza sul tema, ha dato alla dibattuta questione una soluzione che può, nei principi, ormai dirsi consolidata. E’ noto, difatti, che, secondo il richiamato e consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, l’elemento essenziale di differenziazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato consiste nel vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, da ricercare in base ad un accertamento esclusivamente compiuto sulle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. In particolare, mentre la subordinazione implica l’inserimento del lavoratore nella organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro mediante la messa a disposizione, in suo favore, delle proprie energie lavorative (operae) ed il contestuale assoggettamento al potere direttivo di costui, nel lavoro autonomo l’oggetto della prestazione è costituito dal risultato dell’attività (opus): ex multis, e già da epoca non recente, Cass. nn. 12926/1999; 5464/1997; 2690/1994; 4770/2003; 5645/2009, secondo cui, ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato oppure autonomo, il primario parametro distintivo della subordinazione, intesa come assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro, deve essere accertato o escluso mediante il ricorso agli elementi che il giudice deve concretamente individuare dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dalle modalità di svolgimento del rapporto (cfr. pure, tra le molte, Cass. nn. 1717/2009, 1153/2013). In subordine, l’elemento tipico che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato è costituito dalla subordinazione, intesa, come innanzi detto, quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore di lavoro, con assoggettamento alle direttive dallo stesso impartite circa le modalità di esecuzione dell’attività lavorativa; mentre, è stato pure precisato, altri elementi – come l’assenza del rischio economico, il luogo della prestazione, la forma della retribuzione e la stessa collaborazione – possono avere solo valore indicativo e non determinante (v. Cass. n. 7171/2003), costituendo quegli elementi, ex se, solo fattori che, seppur rilevanti nella ricostruzione del rapporto, possono in astratto conciliarsi sia con l’una che con l’altra qualificazione del rapporto stesso (fra le altre – e già da epoca risalente – Cass. nn. 7796/1993; 4131/1984); ciò precisato, è da aggiungere che, anche in ordine alla questione relativa alla qualificazione del rapporto contrattualmente operata, sovviene l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità. Alla cui stregua, onde pervenire alla identificazione della natura del rapporto come autonomo o subordinato, non si può prescindere dalla ricerca della volontà delle parti, dovendosi tra l’altro tener conto del relativo reciproco affidamento e di quanto dalle stesse voluto nell’esercizio della loro autonomia contrattuale: pertanto, quando i contraenti abbiano dichiarato di voler escludere l’elemento della subordinazione, specie nei casi caratterizzati dalla presenza di elementi compatibili sia con l’uno che con l’altro tipo di prestazione d’opera, è possibile addivenire ad una diversa qualificazione solo ove si dimostri che, in concreto, l’elemento della subordinazione si sia di fatto realizzato nello svolgimento del rapporto medesimo (v., fra le molte, e già da epoca meno recente, Cass. nn. 4220/1991; 12926/1999). Il nomen iuris eventualmente assegnato dalle parti al contratto non è quindi vincolante per il giudice ed è comunque sempre superabile in presenza di effettive, univoche, diverse modalità di adempimento della prestazione (Cass. n. 812/1993); al proposito, la Corte di legittimità ha avuto, altresì, modo di ribadire che, ai fini della individuazione della c.d. natura giuridica del rapporto, il primario parametro distintivo della subordinazione deve essere necessariamente accertato o escluso mediante il ricorso ad elementi sussidiari che il giudice deve individuare in concreto dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dall’effettivo svolgimento del rapporto, essendo il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento necessario non solo ai fini della sua interpretazione (ai sensi dell’art. 1362 c.c., comma 2), ma anche ai fini dell’accertamento di una nuova e diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell’attuazione del rapporto e diretta a modificare singole sue clausole e talora la stessa natura del rapporto lavorativo inizialmente prevista, da autonoma a subordinata; con la conseguenza che, in caso di contrasto fra i dati formali iniziali di individuazione della natura del rapporto e quelli di fatto emergenti dal suo concreto svolgimento, a questi ultimi deve darsi necessariamente rilievo prevalente nell’ambito di una richiesta di tutela formulata tra le parti del contratto (Cass. nn. 4770/2003; 5960/1999). Del resto, come è stato osservato, il ricorso al dato della concretezza e della effettività appare condivisibile anche sotto altro angolo visuale, ossia in considerazione della posizione debole di uno dei contraenti, che potrebbe essere indotto ad accettare una qualifica del rapporto diversa da quella reale pur di garantirsi un posto di lavoro. Più di recente, con la sentenza n. 7024/2015, questa Corte ha ribadito che gli indici di subordinazione sono dati dalla retribuzione fissa mensile in relazione sinallagmatica con la prestazione lavorativa; l’orario di lavoro fisso e continuativo; la continuità della prestazione in funzione di collegamento tecnico organizzativo e produttivo con le esigenze aziendali; il vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia; l’inserimento nell’organizzazione aziendale. E sul lavoratore che intenda rivendicare in giudizio l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato grava l’onere di fornire gli elementi di fatto corrispondenti alla fattispecie astratta invocata (cfr., tra le molte, Cass. n. 11937/2009);

che, tutto ciò premesso, deve osservarsi che, nella fattispecie, la Corte di merito ha sottolineato che la C. non ha fornito la prova relativa al requisito della eterodirezione; ha, altresì, esaminato tutti gli elementi qualificanti la subordinazione, quali enunciati dalla Corte di legittimità, pervenendo (come innanzi già sottolineato) – attraverso la delibazione dei punti di emersione probatoria ed alla luce dei richiamati, costanti insegnamenti giurisprudenziali – con un iter motivazionale del tutto coerente, ad escluderne la sussistenza con riferimento alla fattispecie, dando atto (v., in particolare, pagg. 3 e 4 della sentenza impugnata) che risultano “scarsi gli elementi agli atti (retribuzione fissa mensile, continuità della prestazione, svolgimento di essa in locali e con attrezzature del Ca.) in condizione di superare il nomea iuris dato al rapporto dalle parti in un contesto come quello all’esame della corte, caratterizzato dall’essere la C. un architetto iscritto all’albo professionale, con anche un proprio studio e propri clienti, come allegato nella memoria difensiva dell’odierno appellante e non contestato dalla controparte”;

che il terzo motivo è inammissibile per la formulazione non più consona con le modifiche introdotte all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile, ratione temporis, al caso di specie, poichè la sentenza oggetto del giudizio di legittimità è stata pubblicata, come riferito in narrativa, il 25.9.2015;

che, per tutto quanto esposto, il ricorso va rigettato;

che nulla va disposto in ordine alle spese, essendo il controricorso tardivo;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 28 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 giugno 2020

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