Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12701 del 25/06/2020

Cassazione civile sez. I, 25/06/2020, (ud. 20/11/2019, dep. 25/06/2020), n.12701

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. PACILLI Giuseppina A.R. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 36146/2018 proposto da:

I.A.A., elettivamente domiciliato in Rionero in Vulture,

Via G. Marconi, n. 76, presso lo studio dell’avv. Ameriga Petrucci,

che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’Interno, elettivamente domiciliato in Roma, Via Dei

Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso il decreto del TRIBUNALE di POTENZA, depositato il

17/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

20/11/2019 dal Cons. GIUSEPPINA ANNA ROSARIA PACILLI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con decreto del 17 ottobre 2018 il Tribunale di Potenza ha respinto la domanda proposta da I.A.A., nativo del Ghana, volta al riconoscimento della protezione internazionale o di quella umanitaria.

Il ricorrente ha dichiarato di essere cittadino del Ghana, di fede islamica; di essere il padre, fervente musulmano, morto a seguito di una maledizione, che lo aveva colpito per essersi rifiutato di succedere al ruolo di custode dell’idolo del villaggio; di avere egli rifiutato la stessa richiesta, ricevuta dal padre, e di temere di essere vittima della maledizione, in caso di rientro nel paese di origine.

In estrema sintesi, il Tribunale anzidetto ha ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione, invocata dal richiedente, avuto riguardo alle dichiarazioni rese da quest’ultimo e alla situazione generale del Ghana, rappresentata nel decreto impugnato con indicazione delle fonti di conoscenza.

Avverso il descritto decreto il richiedente propone ricorso per cassazione, affidandosi a tre motivi.

Il Ministero dell’Interno resiste, depositando controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

I) Con il primo motivo si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Secondo il ricorrente, il Tribunale avrebbe errato nell’affermare che non era stato censurato il mancato riconoscimento dello status di rifugiato, essendo ciò invece stato oggetto di specifica doglianza.

I.I) Con il primo motivo si lamenta, inoltre, la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riguardo alla valutazione sulla credibilità del ricorrente, fondata solo sull’affermata esistenza di lacune e contraddizioni, senza considerare la documentazione offerta dal ricorrente, comprovante la credenza alla stregoneria nel Ghana, e senza, quindi, attivare i poteri officiosi D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 8, ai fini di una compiuta valutazione della situazione socio politica del paese di provenienza del ricorrente.

Il motivo, in tutte le sue articolazioni, non è consentito.

Prendendo le mosse, per cagioni di ordine logico, dalle censure relative al vaglio della credibilità del richiedente, compiuto dal giudice di merito, e alla mancata attivazione dei poteri officiosi, giova premettere che questa Corte ha più volte affermato che la domanda di protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli di ufficio (Cass., 29 ottobre 2018, n. 27336; 28 settembre 2015, n. 19197).

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, infatti, stabilisce che il richiedente “è tenuto a presentare… tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda”. Il richiedente, quindi, non gode di alcuna agevolazione rispetto alle regole ordinarie del giudizio civile, tale da giustificare un quadro assertivo non adeguatamente circostanziato.

Una volta allegati, i fatti posti a sostegno della domanda di protezione internazionale vanno provati dal richiedente, sia pure entro speciali limiti e con peculiari agevolazioni. Si è, in particolare, affermato (Cass., 12 giugno 2019 n. 15794) che la già citata previsione, che sollecita il richiedente a depositare la documentazione necessaria, rende evidente che, in linea di principio, il giudizio volto al riconoscimento della protezione internazionale è governato dalle regole generali dettate in ordine al riparto dell’onere probatorio dall’art. 2697 c.c., comma 1, con la conseguenza che, se la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale non è provata, la domanda è da rigettare.

Se il richiedente, però, proprio a cagione delle persecuzioni o danni gravi subiti nel Paese di provenienza, o anche solo paventati, non è in grado di offrire la prova delle circostanze allegate, il principio dispositivo è attenuato e sorge il dovere c.d. di cooperazione istruttoria. Stabilisce, difatti, il menzionato art. 3, comma 5, che, qualora taluni elementi, posti a sostegno della domanda di protezione internazionale, non siano suffragati da prove (prove che dunque la norma ribadisce di porre di regola a carico dell’interessato), essi sono considerati veritieri, ove possa ritenersi che il richiedente, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda:

1) abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla e, così, abbia offerto tutti gli elementi pertinenti in suo possesso e fornito un’idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi;

2) abbia reso dichiarazioni coerenti e plausibili e non in contraddizione con le informazioni generali e specifiche, pertinenti al suo caso, e risulti, altresì, in generale credibile.

Il dovere di cooperazione istruttoria, collocato esclusivamente dal versante probatorio, trova, quindi, “per espressa previsione normativa, un preciso limite tanto nella reticenza del richiedente (in ciò risolvendosi l’omissione di uno sforzo ragionevole per circostanziare i fatti) quanto nella non credibilità delle circostanze che egli pone a sostegno della domanda. Si tratta quindi di deficienze, reticenza e non credibilità, parimenti riferibili al quadro delle allegazioni, di guisa che, intanto si concretizza il dovere di cooperazione istruttoria, in quanto si sia in presenza di allegazioni precise, complete, circostanziate e credibili, e non invece generiche, non personalizzate, stereotipate, approssimative e, a maggior ragione, non credibili” (in questi termini Cass. n. 15794/2019 cit.).

Alla luce di siffatte coordinate ermeneutiche deve rilevarsi che, nel caso in esame, a sostegno della domanda il ricorrente ha dichiarato di essere cittadino del Ghana, di fede islamica; di avere rifiutato la stessa richiesta, ricevuta dal padre, fervente musulmano, morto a seguito di una maledizione, che lo aveva colpito per essersi rifiutato di succedere al ruolo di custode dell’idolo del villaggio; di temere di essere vittima della maledizione, in caso di rientro nel paese di origine.

Il Tribunale di Potenza non ha ritenuto credibile il racconto del ricorrente, che neppure “all’udienza del 28 marzo 2018, in sede di audizione, aveva fugato i molteplici dubbi che hanno portato la Commissione a non riconoscergli la protezione internazionale. Permane, difatti, una grave carenza descrittiva nella dinamica dei fatti, ed una sommaria descrizione degli elementi di timore in caso di rientro. Il racconto reso è sicuramente vago e non adeguatamente circostanziato e solleva perplessità soprattutto in ordine alla ragione per cui fu chiesto a due persone di chiara fede musulmana (quale l’instante e il padre) di custodire l’idolo del villaggio. Inoltre, in sede di audizione innanzi al giudice il ricorrente non è stato in grado di precisare e chiarire per quale ragione riteneva che in Italia la maledizione non lo avrebbe raggiunto comunque, limitandosi ad affermare di temere di poter morire anche in Italia come suo padre ma di sentirsi nel nostro paese più sicuro”.

E’ di tutta evidenza che, così argomentando, il Tribunale ha compiuto il vaglio di credibilità alla stregua dei criteri indicati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, ed è correttamente pervenuto ad un epilogo sfavorevole al richiedente, avendo ritenuto che quest’ultimo aveva reso dichiarazioni vaghe, non circostanziate e destanti perplessità.

E’ altresì evidente che, al cospetto di siffatte dichiarazioni, il medesimo ricorrente non ha attivato il dovere di cooperazione istruttoria.

Deve aggiungersi che, in presenza della valutazione negativa, compiuta dal giudice di merito sulla credibilità del richiedente, quest’ultimo non ha interesse a lamentare la mancata risposta alla richiesta del riconoscimento dello status di rifugiato.

Difatti, quand’anche si dovesse annullare il decreto impugnato in accoglimento di tale censura, in sede di rinvio il richiedente non potrebbe ottenere un esito a sè favorevole, stante per l’appunto la non credibilità del racconto, preclusiva dell’attivazione dei poteri officiosi e del riconoscimento dello status invocato.

II) Il secondo motivo denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere il decreto impugnato escluso la sussistenza dei presupposti per la protezione sussidiaria.

Deve premettersi che questa Corte (cfr., amplius, Cass. n. 32064 del 2018, in motivazione) ha chiarito che la nozione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), deve essere interpretata in conformità alla fonte Eurocomunitaria di cui è attuazione (direttive 2004/83/CE e 2011/95/UE), in coerenza con le indicazioni ermeneutiche fornite dalla Corte di Giustizia UE (Grande Sezione, 18 dicembre 2014, C-542/13, par. 36), secondo cui i rischi, ai quali è esposta in generale la popolazione di un paese, o una parte di essa, di norma non costituiscono, di per sè, una minaccia individuale da definirsi come danno grave (cfr. 26 Considerando della direttiva n. 2011/95/UE). Ciò in quanto l’esistenza di un conflitto armato interno potrà portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente se il grado di violenza indiscriminata, che caratterizza gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, raggiunga un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, rinviato nel paese o, se del caso, nella regione in questione, correrebbe un rischio effettivo di subire una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona, quale individuato dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 (cfr., in questo senso, Corte Giustizia UE 17 febbraio 2009, Elgafaji, C-465/07, e 30 gennaio 2014, Diakitè, C285/12; vedi pure Cass. n. 13858 del 2018).

Una specifica situazione di tal tipo, però, è stata esclusa dal Tribunale di Potenza e questo accertamento costituisce un’indagine di fatto che può esser censurata in sede di legittimità nei limiti consentiti dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: il che, nonostante il richiamo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, contenuto nel ricorso, non è stato effettivamente fatto, sicchè l’odierna doglianza deve reputarsi come semplicemente finalizzata a sovvertire l’esito della decisione.

III) Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere il decreto impugnato escluso la sussistenza dei presupposti per la protezione umanitaria, senza considerare che la situazione di vulnerabilità può dipendere anche dall’esposizione seria alla lesione del diritto alla salute e senza comparare la situazione del ricorrente in Italia e quella a cui si troverebbe esposto in caso di rimpatrio.

Il motivo è inammissibile.

Deve ricordarsi che in ordine alla protezione umanitaria, secondo la giurisprudenza di questa Corte la valutazione deve essere autonoma, nel senso che il diniego di riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per ragioni umanitarie non può conseguire automaticamente dal rigetto delle altre domande di protezione internazionale, essendo necessario che l’accertamento da svolgersi sia fondato su uno scrutinio avente ad oggetto l’esistenza delle condizioni di vulnerabilità, che ne integrano i requisiti (Cass. n. 28990/2018). Ciò nondimeno il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato e il potere istruttorio ufficioso può esercitarsi solo in presenza di allegazioni specifiche sui profili concreti di vulnerabilità (Cass. n. 27336/2018).

Nel caso in esame, il Tribunale di Potenza, richiamando la decisione della Corte di cassazione n. 455/2018, ricordata dallo stesso ricorrente (secondo la quale la vulnerabilità può derivare “da una situazione di instabilità politico-sociale, che esponga a situazioni di pericolo per l’incolumità personale”, ovvero “può essere la conseguenza di un’esposizione seria alla lesione del diritto alla salute.. oppure può essere conseguente ad una situazione politico economica molto grave con effetti di impoverimento radicale o anche discendere da una situazione geo politica che non offre alcuna garanzia di vita all’interno del paese di origine), ha rimarcato che, nel caso concreto, alla luce dei principi esposti, non può dirsi ravvisabile una situazione di vulnerabilità, emergendo invece dalle dichiarazioni, rese dallo stesso ricorrente nel corso della fase istruttoria, e dal materiale probatorio che il medesimo ricorrente ha abbandonato il proprio paese d’origine esclusivamente per il desiderio di trovare migliori occasioni di vita. A fronte di siffatta motivazione, con cui si è rimarcata la mancanza di allegazioni da parte dello stesso richiedente in ordine ai fatti costitutivi del diritto azionato, il motivo di ricorso è teso a promuovere la rinnovazione del sindacato di merito compiuto dal giudice di primo grado. Ciò anche con riguardo alle censure svolte in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, dal momento che le stesse pongono in discussione non il significato e la portata applicativa delle norme invocate ma il governo del materiale probatorio, operato dal giudice di merito, nell’escludere il riconoscimento della protezione richiesta sotto tutti i profili coinvolti.

Giova peraltro aggiungere che le deduzioni sull’integrazione del ricorrente in Italia sono generiche, essendosi il medesimo richiedente limitato ad affermare di avere prodotto documenti attestanti l’occupazione lavorativa e la frequenza a corsi di italiano e di partecipazione a progetti sociali.

IV) Il ricorso, dunque, va dichiarato inammissibile. Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna il ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 2.100,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, se dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello richiesto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 20 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 giugno 2020

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