Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12698 del 25/06/2020

Cassazione civile sez. I, 25/06/2020, (ud. 20/11/2019, dep. 25/06/2020), n.12698

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. PACILLI Giuseppina A.R. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

M.S., elettivamente domiciliato in Roma, Via Vigliena, 10,

presso lo studio dell’avv. Alessandro Malara, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avv. Ilaria Di Punzio;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, elettivamente domiciliato in Roma, Via Dei

Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale Dello Stato, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di TRIESTE, depositato il

17/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

20/11/2019 dal Cons. GIUSEPPINA ANNA ROSARIA PACILLI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con decreto del 16 ottobre 2018 il Tribunale di Trieste ha rigettato la domanda proposta da M.S., nativo del Pakistan, volta al riconoscimento della protezione internazionale o di quella umanitaria.

In estrema sintesi, il Tribunale anzidetto ha ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione, invocata dal richiedente, avuto riguardo alle dichiarazioni rese da quest’ultimo e alla situazione generale del Pakistan, rappresentata nel decreto impugnato con indicazione delle fonti di conoscenza.

Avverso il descritto decreto il richiedente propone ricorso per cassazione, affidandosi a due motivi.

Il Ministero dell’Interno resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

I) Con il primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5, in relazione all’art. 1 della Convenzione di Ginevra. Evidenzia l’erroneità della motivazione impugnata, che avrebbe ritenuto non provato il racconto del ricorrente, applicando le regole ordinarie in tema di onere della prova e non il regime “attenuato”.

Già il primo motivo è inammissibile.

Il ricorrente ha dichiarato che si era allontanato dal suo paese perchè minacciato da alcuni membri del PMLN, che gli avrebbero detto che, se non avesse smesso di fare propaganda per il suo partito, lo avrebbero ucciso.

Il Tribunale di Potenza ha ritenuto che le dichiarazioni del richiedente non erano “sufficienti a provare la sua storia, nemmeno alla luce dei criteri di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5”. Il ricorrente aveva riferito, infatti, fatti molto generici, non avendo, ad es., “indicato il nome di nessuno dei suoi persecutori, dei politici locali che sosteneva o delle persone che si recavano con lui a fare propaganda nelle case”; nè aveva riferito o “comunque era dato cogliere il motivo per cui egli sarebbe stato così influente da potere condizionare i voti delle persone”.

A fronte di siffatte argomentazioni deve ricordarsi che questa Corte ha più volte affermato che la domanda di protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli di ufficio (Cass., 29 ottobre 2018, n. 27336; 28 settembre 2015, n. 19197).

L’art. 3 citato, infatti, stabilisce che il richiedente “è tenuto a presentare… tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda”. Il richiedente, quindi, non gode di alcuna agevolazione rispetto alle regole ordinarie del giudizio civile, tale da giustificare un quadro assertivo non adeguatamente circostanziato.

Una volta allegati, i fatti posti a sostegno della domanda di protezione internazionale vanno provati dal richiedente, sia pure entro speciali limiti e con peculiari agevolazioni. Si è, in particolare, affermato (Cass., 12 giugno 2019 n. 15794) che la già citata previsione, che sollecita il richiedente a depositare la documentazione necessaria, rende evidente che, in linea di principio, il giudizio volto al riconoscimento della protezione internazionale è governato dalle regole generali dettate in ordine al riparto dell’onere probatorio dall’art. 2697 c.c., comma 1, con la conseguenza che, se la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale non è provata, la domanda è da rigettare.

Se il richiedente, però, proprio a cagione delle persecuzioni o danni gravi subiti nel Paese di provenienza, o anche solo paventati, non è in grado di offrire la prova delle circostanze allegate, il principio dispositivo è attenuato e sorge il dovere c.d. di cooperazione istruttoria. Stabilisce, difatti, il menzionato art. 3, comma 5, che, qualora taluni elementi, posti a sostegno della domanda di protezione internazionale, non siano suffragati da prove (prove che dunque la norma ribadisce di porre di regola a carico dell’interessato), essi sono considerati veritieri, ove possa ritenersi che il richiedente, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda:

1) abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla e, così, abbia offerto tutti gli elementi pertinenti in suo possesso e fornito un’idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi;

2) abbia fornito dichiarazioni coerenti e plausibili e non in contraddizione con le informazioni generali e specifiche, pertinenti al suo caso, e risulti altresì, in generale credibile.

Il dovere di cooperazione istruttoria, collocato esclusivamente dal versante probatorio, trova, quindi, “per espressa previsione normativa, un preciso limite tanto nella reticenza del richiedente (in ciò risolvendosi l’omissione di uno sforzo ragionevole per circostanziare i fatti) quanto nella non credibilità delle circostanze che egli pone a sostegno della domanda. Si tratta quindi di deficienze, reticenza e non credibilità, parimenti riferibili al quadro delle allegazioni, di guisa che, intanto si concretizza il dovere di cooperazione istruttoria, in quanto si sia in presenza di allegazioni precise, complete, circostanziate e credibili, e non invece generiche, non personalizzate, stereotipate, approssimative e, a maggior ragione, non credibili” (in questi termini Cass. n. 15794/2019 cit.).

A tali coordinate ermeneutiche si è correttamente conformato il giudice di merito laddove ha ritenuto il racconto del richiedente generico, non circostanziato e, quindi, non idoneo ad attivare il dovere di collaborazione istruttorio.

Di contro, il motivo di ricorso si palesa inammissibilmente teso ad una contestazione di merito.

II) Con il secondo motivo si censura, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il provvedimento impugnato per la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), e dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra, sul rilievo che il Collegio di merito “avrebbe omesso la valutazione comparativa, necessaria ad appurare lo stato di fragilità individuale del ricorrente, ritenendo erroneamente insussistenti le condizioni dettate dalla succitata normativa nonchè trascurando in parte e travisando del tutto le fonti informative assunte, interpretando non correttamente quanto dichiarato dal ricorrente e senza tener conto di alcune circostanze decisive”.

Il secondo motivo risulta anch’esso inammissibile.

Esso si compone di doglianze generiche, svincolate da una critica alla motivazione impugnata e che non lasciano trasparire se il ricorrente abbia censurato il mancato riconoscimento della protezione sussidiaria o di quella umanitaria.

Ad ogni modo, giova rilevare che il Tribunale ha ritenuto non sussistente in Punjab una situazione di conflitto armato interno o internazionale tale da porre in pericolo tutti i cittadini indistintamente e questo accertamento costituisce un’indagine di fatto, che può esser censurata in sede di legittimità nei limiti consentiti dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: il che non è stato fatto, sicchè l’odierna doglianza deve reputarsi come semplicemente finalizzata a sovvertirne l’esito.

Quanto alla protezione umanitaria il Tribunale ha affermato che il richiedente non aveva “una situazione di marginalizzazione e di mancanza di condizioni minime di sopravvivenza nel paese di origine (il ricorrente ha dichiarato alla Commissione territoriale che non aveva problemi economici)”.

Trattasi anche in questo caso di accertamento di fatto incensurabile in questa sede, al cui cospetto il motivo in scrutinio si sostanzia in una mera prospettazione di merito, come tale inammissibile.

III) Il ricorso è dunque inammissibile. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da separato dispositivo.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 2.100,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, se dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello richiesto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 20 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 giugno 2020

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