Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12690 del 25/05/2010

Cassazione civile sez. III, 25/05/2010, (ud. 03/03/2010, dep. 25/05/2010), n.12690

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI NANNI Luigi Francesco – Presidente –

Dott. FINOCCHIARO Mario – Consigliere –

Dott. URBAN Giancarlo – Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 169-2006 proposto da:

M.P. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA G. BELLI 27, presso lo studio dell’avvocato MEREU GIACOMO,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato SAVIOZZI ALBERTO

giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

ALLIANZ SUBALPINA ASSICURAZIONI SPA (OMISSIS) in persona dei

legali rappresentanti dr.ssa M.R. e dr. R.G.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PANAMA 88, presso lo studio

dell’avvocato SPADAFORA GIORGIO, che la rappresenta e difende giusta

delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

D.E.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 883/2004 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

SECONDA SEZIONE CIVILE, emessa il 26/5/04, depositata il 26/10/2004,

R.G. N. 264/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/03/2010 dal Consigliere Dott. GIACOMO TRAVAGLINO;

udito l’Avvocato PAOLO MEREU, per delega dell’Avvocato GIACOMO MEREU;

udito l’Avvocato GIORGIO SPADAFORA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ABBRITTI Pietro che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

IN FATTO

Il tribunale di Brescia, accogliendo la domanda risarcitoria proposta da M.P., investita mentre attraversava la strada dal veicolo condotto da D.E., condannò quest’ultima (ritenendola responsabile esclusiva del sinistro), in solido con la sua compagnia di assicurazioni Allianz, al pagamento della somma di L. 311.651.660 – detratto il pagamento parziale percepito dall’attrice nelle more del giudizio, somma composta dalla liquidazione del danno biologico permanente nella misura del 38% (calcolato secondo le tabelle in uso presso quell’ufficio giudiziario), del danno morale (equitativamente determinato in L. 90 milioni), del danno patrimoniale da lucro cessante (determinato in L. 30 milioni, in relazione ad un lavoro dipendente che la M. avrebbe intrapreso di lì a qualche giorno), del danno patrimoniale da invalidità permanente (determinato nella misura del triplo della pensione sociale).

L’impugnazione principale proposta da M.P. e quella incidentale della Allianz (che contestava il mancato riconoscimento, da parte del primo giudice, di un concorso di colpa della danneggiata e l’erronea liquidazione del danno da lucro cessante) furono rigettate dalla corte di appello di Brescia ad eccezione della doglianza – contenuta nel terzo motivo dell’appello principale – relativa alla insufficiente liquidazione del danno morale, che venne elevato a L. 110 milioni dalla corte bresciana.

La sentenza è stata impugnata dall’appellante principale con ricorso per cassazione sorretto da 4 motivi.

Resiste con controricorso la Allianz.

Diritto

IN DIRITTO

Il ricorso è infondato.

Con il primo motivo, si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 32 Cost.; artt. 2043, 2059, 2056 e 1223 c.c. la omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione; la erronea applicazione dei valori monetar di tabella in uso presso il foro bresciano in luogo di quelli milanesi – ingiustificata, mancata personalizzazione del risarcimento sia per il danno biologico che per il danno morale.

Il motivo è privo di pregio.

Esso si infrange, difatti, sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello nella parte in cui ha ritenuto, da un canto, che l’applicazione delle tabelle in uso presso il locale foro (applicazione, va soggiunto, del tutto legittima, e non soggetta ad obbligo di motivazione alcuno) garantisse unità di trattamento almeno in ambito locale, dall’altro, che i complessivi effetti permanenti sulla persona e sulla psiche della ricorrente – emergenti dalla documentazione di parte ritualmente prodotta in prime cure – fossero stati oggetto di precipuo esame da parte del CTU, il quale li aveva correttamente posti in relazione con l’età, le precedenti condizioni di vita, le precedenti aspettative concrete dell’infortunata, avvalendosi altresì di uno specialista in neuropsichiatria per meglio valutare anche tale aspetto della vicenda di danno, e così pervenendo ad una adeguata personalizzazione di criteri di liquidazione del danno (ff. 7-8 della sentenza impugnata), in essa ricompresa l’aumento (del tutto congruo rispetto ai criteri invalsi nella sua liquidazione in epoca antecedente al dictum delle sezioni unite di questa corte del 11 novembre 2008) dell’importo liquidato a titolo di danno morale rispetto al decisum di prime cure.

La motivazione si sottrae, pertanto, alle pur articolate ed analitiche censure mosse dalla difesa della ricorrente con il motivo in esame, motivo che, nel suo complesso, pur lamentando formalmente una (peraltro del tutto generica) violazione di legge e un decisivo difetto di motivazione, si risolve, nella sostanza, in una (ormai non più proponibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito. Il ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili, perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), nell’aderire motivatamente alla risultanze di una consulenza d’ufficio, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. E’ principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 c.p.c., n. 5 non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione. Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) si come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai indiscutibile, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’incidenza maggiore o minore di questo o di quell’elemento fattuale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello – non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata – quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità.

Quanto al preteso “errore di calcolo” compiuto dal primo giudice, di cui è doglianza al f. 29 del ricorso, va di converso osservato che non di errore di calcolo di cui all’art. 1430 c.c. si tratta, ma di mero errore materiale, del quale andava chiesta la correzione nelle sedi opportune (e non dinanzi alla corte di cassazione).

Con ñ1 secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (della L. n. 39 del 1977, art. 4; della L. n. 144 del 1988, art. 2; artt. 2043, 2059, 2056 e 1223 c.c.; artt. 3 e 32 Cost.); motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria.

Lamenta il ricorrente la errata liquidazione del danno patrimoniale, l’errato computo del reddito netto e non lordo a titolo di lucro cessante, l’errata applicazione del criterio del triplo della pensione sociale.

Il motivo è infondato.

La motivazione della sentenza impugnata, difatti, anche in relazione ai riferiti profili di censura, resiste alle critiche mosse dalla difesa della ricorrente.

Va premesso che la doglianza di cui al f. 32 del ricorso (mancata applicazione del disposto di cui alla L. n. 140 del 1985, art. 2) risulta del tutto nuova (in appello, la questione sollevata aveva avuto riguardo alla manca applicazione della normativa di cui alla L. n. 544 del 1988), non essendovi traccia di essa nel corpo della motivazione della sentenza di appello, nè il ricorrente indica, in spregio al principio di autosufficienza del ricorso, in quale fase del giudizio di merito la relativa questione sia stata tempestivamente proposta ed illegittimamente disattesa, onde consentirne il controllo ex actis a questa corte di legittimità.

La residua parte della doglianza è poi destituita di giuridico fondamento, atteso che la valutazione equitativa operata in sede di giudizio di merito ha correttamente assunto a parametro indicativo il reddito netto presuntivamente percepibile dall’infortunata(onde la inesattezza del richiamo alla L. n. 39 del 1977, art. 4), operando in fatto una altrettanto corretta valutazione prognostica degli sviluppi lavorativi futuri della M. con motivazione esente da vizi logico-giuridici, che questa corte non può che confermare.

Con il terzo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 2043, 2059, 2056, 1223 e 1224 c.c.; art. 100 c.p.c); motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria.

Il motivo è inammissibile.

Al fine di contrastare il dictum della corte di merito nella parte in cui onerava la parte oggi ricorrente della prova concreta – previa “laboriosa dimostrazione matematica” – della sussistenza di un interesse ad altra e più complessa operazione funzionale al calcolo della rivalutazione e degli interessi, era specifico onere del ricorrente prospettare a questa corte, previa elaborazione di tale operazione, l’esistenza e la concretezza dell’interesse de quo, e non anche limitarsi, come nella specie, ad una del tutto apodittica e generica affermazione di “matematica evidenza” di un diverso criterio di calcolo, priva di qualsiasi utile supporto probatorio.

Con il quarto motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c..

La doglianza non può essere accolta, avendo la corte bresciana correttamente applicato il criterio della reciproca, sostanziale soccombenza.

Il ricorso è pertanto rigettato.

La disciplina delle spese segue, giusta il principio della soccombenza, come da dispositivo.

PQM

La corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 4200, di cui Euro 200 per spese generali.

Così deciso in Roma, il 3 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2010

 

 

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