Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12681 del 12/05/2021

Cassazione civile sez. III, 12/05/2021, (ud. 01/12/2020, dep. 12/05/2021), n.12681

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 36471-2018 proposto da:

(OMISSIS) SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GRAMSCI 22,

presso lo studio dell’avvocato SALVATORE SORICE, che lo rappresenta

e difende unitamente all’avvocato LEONARDO COCCO;

– ricorrenti –

e contro

F.C., F.G., F.P., F.D.,

F.E., MINISTERO DELLA SALUTE, (OMISSIS);

– intimati –

Nonchè da:

F.C., F.E., F.P., F.G.,

F.D., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE MAZZINI 146, presso

lo studio dell’avvocato CLAUDIA DE CURTIS, rappresentati e difesi

dall’avvocato CESARE FORMATO;

– ricorrenti incidentali –

contro

MINISTERO DELLA SALUTE, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso. AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che

lo rappresenta e difende;

MINISTERO DELLA SALUTE (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso. AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che

lo rappresenta e difende;

– controricorrenti all’incidentale –

nonchè contro

(OMISSIS) SRL;

– intimati –

avverso la sentenza n. 4587/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 09/11/2017.

 

Fatto

RILEVATO

che:

con atto di citazione del 20 settembre 2006, C., G., P., D. ed F.E., quali eredi di B.M.R., evocavano in giudizio la S.r.l. (OMISSIS) e il Ministero della Salute, per ottenere il risarcimento del danno conseguente alla morte della B. verificatasi a causa di una emotrasfusione cui era stata sottoposta presso (OMISSIS) nel (OMISSIS). Si costituiva il Ministero della Salute eccependo la prescrizione del diritto, la carenza di legittimazione passiva e l’infondatezza della pretesa. La società (OMISSIS) rimaneva contumace. La causa era istruita con il deposito di consulenza tecnica relativa sul rapporto di causalità tra la trasfusione e il pregiudizio subito;

con sentenza del 24 dicembre 2012 il Tribunale di Napoli accoglieva la domanda, con condanna dei convenuti al pagamento della somma di Euro 34.898, oltre interessi e spese a titolo di danno iure hereditatis, rigettando la domanda di risarcimento iure proprio, perchè non provata;

avverso tale decisione gli attori proponevano impugnazione con atto notificato il 11 dicembre 2013 davanti alla Corte d’Appello di Napoli, limitatamente al rigetto della domanda iure proprio rilevando che il pregiudizio poteva ritenersi provato in via presuntiva e liquidato equitativamente. Si costituiva la S.r.l. (OMISSIS) chiedendo il rigetto dell’appello, mentre il Ministero restava contumace;

la Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 9 novembre 2017, accoglieva l’appello proposto dagli originari attori, condannando gli appellati al pagamento in solido, in aggiunta a quanto stabilito nella decisione impugnata, della somma di Euro 30.000 da ripartire in proporzione alle quote di successione ereditaria e della somma di Euro 250.000 in favore di ciascuno degli appellati a titolo di risarcimento del danno iure proprio, provvedendo sulle spese di lite;

avverso tale decisione propone ricorso per cassazione la (OMISSIS) S.r.l. affidandosi a un unico motivo. Si costituiscono con controricorso C., G., P., D. ed F.E. spiegando ricorso incidentale sulla base di un unico motivo. Resiste con controricorso il Ministero della Salute.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il ricorso si deduce la violazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 2729 c.c. in tema di presunzioni semplici, erroneamente utilizzate per colmare l’omessa allegazione degli elementi costitutivi del danno e dell’art. 2056 e 1226 c.c., in relazione alla valutazione equitativa del danno liquidato sulla base del semplice rapporto di parentela. La Corte d’Appello avrebbe utilizzato il criterio della sussistenza del danno, in re ipsa, con conseguente automatica liquidazione in via equitativa. Nel fare ciò la Corte territoriale avrebbe violato il principio affermato dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 907 del 2018) secondo cui il danno morale deve essere allegato e non può essere considerato esistente in re ipsa, per cui la presunzione può essere utilizzata solo in presenza di una allegazione adeguata del fatto relativo agli elementi costitutivi del danno. In sostanza, il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale è comunque un danno conseguenza che deve essere allegato e provato. Nel caso di specie l’unico elemento allegato era il rapporto familiare, desumibile dal certificato dello stato di famiglia. Ma il vincolo familiare sussiste indipendentemente dall’esistenza o meno di una reale affectio familiaris. Pertanto, gli attori avrebbero dovuto dimostrare le caratteristiche dei rapporti eventualmente esistenti tra i familiari. Al contrario, non avrebbero specificato nulla riguardo all’intensità del legame familiare, alle modalità di estrinsecazione dello stesso, alla diversa incidenza del medesimo sui soggetti con età e sensibilità diverse, alla diversa capacità di reazione e sopportazione del trauma. La stessa decisione di legittimità richiamata nella sentenza impugnata richiede che vengano allegate la “età della vittima e quella dei familiari danneggiati, la personalità di costoro, la loro capacità di reazione e sopportazione del trauma e ogni altra circostanze del caso concreto”;

il motivo è infondato. La questione sollevata dalla ricorrente attiene alla natura giuridica del danno non patrimoniale (ed in particolare quello relativo alla perdita di un congiunto) ed al relativo regime probatorio;

nell’ipotesi di pregiudizio non patrimoniale, il ricorso alla prova presuntiva assume particolare rilievo, attenendo ad un bene immateriale e può costituire anche l’unica fonte di convincimento del giudice, pur essendo onere del danneggiato l’allegazione di tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata dei fatti noti, onde consentire di risalire al fatto ignoto (così definitivamente superandosi la concezione del danno in re ipsa, secondo la quale il danno costituirebbe una conseguenza imprescindibile della lesione, tale da rendere sufficiente la dimostrazione di quest’ultima affinchè possa ritenersi sussistente il diritto al risarcimento);

occorre, quindi, verificare se, alla complessità della morfologia del danno non patrimoniale, derivante dalla complessità contenutistica dei diritti della persona di volta in volta lesi, corrisponda un altrettanto articolato onere assertorio e probatorio. In ossequio al disposto dell’art. 163 c.p.c., comma 2, n. 4, oggetto di allegazione devono essere i fatti primari, ovvero i fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno e, con specifico riguardo alle conseguenze pregiudizievoli causalmente riconducibili alla condotta, l’attività assertoria deve consistere nella compiuta descrizione di tutte le sofferenze di cui si pretende la riparazione (mentre all’onere di allegazione dei danni non corrisponde un onere di qualificazione giuridica, ovvero il loro inquadramento sub specie iuris, alla luce del principio iura novit curia);

l’onere di allegazione è funzionale all’esplicazione del diritto di difesa, onde consentire di circoscrivere il contenuto dello speculare onere di contestazione e, di conseguenza, di delimitare, nell’ambito dei fatti allegati, quelli da provare;

in tema di danno non patrimoniale, la rilevanza pratica di tale principio è, tuttavia, marginale atteso che, considerata la dimensione eminentemente soggettiva del danno morale, alla sua esistenza non corrisponde sempre una fenomenologia suscettibile di percezione immediata e, quindi, di conoscenza ad opera delle parti contrapposte al danneggiato;

questa Corte ha recentemente evidenziato (Cass. n. 25164 del 10 novembre 2020) che l’onere di allegazione riflette la complessità e multiformità delle concrete alterazioni in cui può esteriorizzarsi il danno non patrimoniale che, a sua volta, deriva dall’ampiezza contenutistica dei diritti della persona investiti dalla lesione ingiusta. Ma a fronte di un siffatto onere di allegazione, quello probatorio non è parimenti ampio. Esiste, difatti, nel territorio della prova dei fatti allegati, un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, in forza del quale al giudice è consentito di riconoscere come esistente un certo pregiudizio in tutti i casi in cui si verifichi una determinata lesione, sovente ricorrendosi, a tal fine, alla categoria del fatto notorio per indicare il presupposto di tale ragionamento inferenziale, mentre il riferimento più corretto ha riferimento alle massime di esperienza, atteso che i fatti notori, quali circostanze storiche concrete ed inoppugnabili, non sono soggetti a prova e sono sottratti all’onere di allegazione;

sotto tale profilo va puntualizzato che, diversamente da quanto sostenuto dai controricorrenti (pagina 8), la categoria cui occorre fare riferimento è più propriamente quella delle massime di esperienza e non del fatto notorio. Categoria che la Corte territoriale ha utilizzato e che consente l’eventuale prova contraria;

la massima di esperienza, difatti, non opera sul terreno dell’accadimento storico, ma su quello della valutazione dei fatti, è regola di giudizio basata su leggi naturali, statistiche, di scienza o di esperienza, comunemente accettate in un determinato contesto storico-ambientale, la cui utilizzazione nel ragionamento probatorio, e la cui conseguente applicazione, risultano doverose per il giudice, ravvisandosi, in difetto, illogicità della motivazione, volta che la massima di esperienza può da sola essere sufficiente a fondare il convincimento dell’organo giudicante;

non sussistono ostacoli sistematici al ricorso al ragionamento probatorio fondato sulla massima di esperienza specie nella materia del danno non patrimoniale, e segnatamente in tema di danno morale, ma tale strumento di giudizio consente di evitare che la parte si veda costretta, nell’impossibilità di provare il pregiudizio dell’essere, ovvero della condizione di afflizione fisica e psicologica in cui si è venuta a trovare in seguito alla lesione subita, ad articolare estenuanti capitoli di prova relativi al significativo mutamento di stati d’animo interiori da cui possa inferirsi la dimostrazione del pregiudizio patito;

d’altra parte, a fondamento del parametro standard di valutazione che è alla base del sistema delle tabelle per la liquidazione del danno alla salute, altro non v’è se non un ragionamento presuntivo fondato sulla massima di esperienza per la quale ad un certo tipo di lesione corrispondono, secondo l’id quod plerumque accidit, determinate menomazioni dinamico-relazionali, per così dire, ordinarie. Un attendibile criterio logico-presuntivo funzionale all’accertamento del danno morale quale autonoma componente del danno alla salute (così come di qualsiasi altra vicenda lesiva di un valore/interesse della persona costituzionalmente tutelato: Corte Cost. n. 233 del 2003) è quella della corrispondenza, su di una base di proporzionalità diretta, della gravità della lesione rispetto all’insorgere di una sofferenza soggettiva: tanto più grave, difatti, sarà la lesione della salute, tanto più il ragionamento inferenziale consentirà di presumere l’esistenza di un correlato danno morale inteso quale sofferenza interiore, morfologicamente diversa dall’aspetto dinamico relazionale conseguente alla lesione stessa;

tali principi vanno armonizzati con la giurisprudenza di questa Corte che, con il tema specifico del danno morale da morte e di quello da perdita del rapporto parentale secondo cui il danno subito dai congiunti del danneggiato principale (persino in caso di uccisione dello stesso) resta sempre “un danno-conseguenza”, sicchè esso “non coincide con la lesione dell’interesse (non è “in re ipsa”) e come tale deve essere allegato e provato da chi chiede il relativo risarcimento” (Cass. Sez. 3, 19 agosto 2003, n. 12124, Rv. 565963-01);

il danno da perdita del rapporto parentale, è risarcibile se sia provata l’effettività e la consistenza di tale relazione, e questi parametri possono provarsi per presunzioni in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza ed alla gravità delle ricadute della condotta. Rispetto all’effettività e alla consistenza della relazione parentale, il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità (Cass. Sez. 3 n. 7743 del 08/04/2020, Rv. 657503 – 01);

il danno non patrimoniale, consistente nella sofferenza morale patita dal prossimo congiunto di una persona lesa in modo non lieve dall’altrui illecito, può essere dimostrato con ricorso alla prova presuntiva ed in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza ed alla gravità delle ricadute della condotta (Cass. Sez. 3 n. 2788 del 31/01/2019, Rv. 652664 – 02);

orbene, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi in tema di prova presuntiva riferita al danno morale, fondata sulla massima di esperienza per la quale, ad un certo tipo di lesione corrispondono, secondo l’id quod plerumque accidit, determinate menomazioni dinamico-relazionali, per così dire, ordinarie. Il giudice di appello ha preso le mosse dalla documentata esistenza di un rapporto stretto di parentela (gli attori erano, rispettivamente, coniuge e figli della B.), dal dato della convivenza, oltre che da quello dell’età e da ciò ha considerato dimostrato, sulla base di massime di esperienza, il danno per perdita del rapporto parentale, ritenendo presumibile e ragionevole una notevole sofferenza per la perdita di una persona cara, venuta meno in età ancora relativamente giovane;

come allegato dai controricorrenti nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., n. 6 (pagine 15, 16 e 17), la Corte territoriale ha valutato una serie di elementi evidenziati nell’atto di citazione e nel giudizio di merito e relativi alle caratteristiche dello shock emotivo subito dai familiari, con specifico riferimento ai rapporti che facevano capo a ciascuno dei congiunti (per il coniuge, ad esempio, la circostanza di vedere il partner licenziarsi anzitempo; per i figli, vivere una infanzia e una adolescenza senza contare sulle attenzioni della madre e successivamente la descrizione degli effetti collaterali devastanti, ma soprattutto dei lunghi periodi di ospedalizzazione e le conseguenze sul figlio G., afflitto da disturbo comportamentale e ritardo mentale, insistendo sullo stravolgimento della serenità dell’intero nucleo familiare e dei figli, in particolare, all’epoca tutti minori). Tali elementi hanno ragionevolmente costituito il supporto fattuale della prova presuntiva relativa a ciò che, nella normalità dei casi, avviene nei rapporti di convivenza, in considerazione della gravità delle ricadute di una condotta che determini la perdita di una persona cara;

con il primo motivo del ricorso incidentale si lamenta la violazione dell’art. 32 Cost. dell’art. 2059 c.c. e art. 185c.p.c. e degli artt. 112,113,114,115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 La Corte territoriale avrebbe erroneamente liquidato il danno biologico sofferto in vita dal de cuius sulla base della semplice invalidità temporanea assoluta e parziale, riferita ai periodi di ricovero ed ai trattamenti terapeutici, in luogo dell’integrale risarcibilità del danno biologico. Anche se il consulente non ha determinato una percentuale di invalidità permanente, ha fatto riferimento a svariati protocolli terapeutici, ricoveri e terapie, oltre al danno connesso alla consapevolezza di avere contratto una patologia cronica, dalla prognosi potenzialmente assai severa. Inoltre, la qualità della vita è stata sfavorevolmente influenzata dai rilevanti e devastanti effetti collaterali delle terapie effettuate, come le turbe della sfera psico-emotiva, accertate da una consulenza psichiatrica che evidenziava uno stato depressivo. In definitiva, le risultanze processuali consentivano di sconfessare le conclusioni del consulente d’ufficio e di individuare una menomazione permanente medicalmente accertabile, che la Corte territoriale avrebbe dovuto prendere in considerazione;

Il motivo è infondato. Va ribadito, infatti, il definitivo superamento la concezione del danno in re ipsa, secondo la quale il danno costituirebbe una conseguenza imprescindibile della lesione, tale da rendere sufficiente la dimostrazione di quest’ultima affinchè possa ritenersi sussistente il diritto al risarcimento (in questi termini, nuovamente Cass. n. 25164 del 2020). In tema di risarcimento del danno non patrimoniale, in assenza di lesione alla salute, ogni “vulnus” arrecato ad altro valore costituzionalmente tutelato va valutato ed accertato, all’esito di compiuta istruttoria, in assenza di qualsiasi automatismo, sotto il duplice aspetto risarcibile sia della sofferenza morale, che della privazione, ovvero diminuzione o modificazione delle attività dinamico-relazionali precedentemente esplicate dal danneggiato, cui va attribuita una somma che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito sotto entrambi i profili, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche. (Fattispecie relativa a danno da perdita del rapporto parentale esaminata da Cass. Sez. 3 n. 23469 del 28/09/2018, Rv. 650858 – 03);

questo a prescindere dalla circostanza che il motivo, sebbene strutturato apparentemente come violazione di legge, oltre che come difetto di motivazione o omessa pronunzia, ai sensi art. 360 c.p.c., n. 5, in realtà si atteggia come richiesta di un terzo grado di giudizio, nel quale valutare nuovamente le argomentazioni sviluppate dalle parti e le emergenze istruttorie acquisite nella fase di merito. In particolare, riguardo all’omessa considerazione di risultanze istruttorie o al difetto di motivazione sulle conclusioni del consulente d’ufficio, ritenute in parte non condivisibili dai ricorrenti incidentali, interviene lo sbarramento previsto all’art. 348 ter c.p.c., comma 5 che non consente, nell’ipotesi di doppia conforme, di formulare censure che riguardino l’art. 360 c.p.c., n. 5 o comunque un vizio di motivazione (neppure consentito da tale norma);

la decisione di appello, con riferimento a tale specifico profilo (rigetto della richiesta di danno biologico permanente in capo al de cuius) ha confermato quella di primo grado sulla base del medesimo materiale probatorio;

ne consegue che il ricorso principale e quello incidentale devono essere rigettati;

le spese del presente giudizio di cassazione vanno integralmente compensate tra le parti in virtù dell’esito della lite, anche nei rapporti con il Ministero;

sussistono i presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte della ricorrente principale e di quelli incidentali, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315), evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale e quello incidentale; dichiara integralmente compensate tra tutte le parti le spese di lite;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente e dei ricorrenti incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 1 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2021

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