Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12672 del 25/06/2020

Cassazione civile sez. VI, 25/06/2020, (ud. 23/01/2020, dep. 25/06/2020), n.12672

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 31604-2018 proposto da:

C.I., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TIBULLO 10,

presso lo studio dell’avvocato GUIDO FIORENTINO, rappresentato e

difeso dall’avvocato LORENZO MARCO AGNOLI;

– ricorrente –

contro

M.P., B.L., elettivamente domiciliati in ROMA,

LUNGOTEVERE FLAMINIO 76, presso lo studio dell’avvocato ANTONELLA

CARNEVALI, rappresentati e difesi dall’avvocato GIANNI SCAGLIARINI;

– controricorrenti –

contro

ARDESIA SRL;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1547/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 06/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 23/01/2020 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPE

GRASSO.

Fatto

FATTO E DIRITTO

ritenuto che con la sentenza di cui in epigrafe il la Corte d’appello di Bologna rigettò l’impugnazione proposta da C.I. avverso la sentenza di primo grado, la quale, in accoglimento della domanda avanzata da M.P. e dalla Ardesia di C.L. C. s.a.s., i quali avevano chiesto dichiararsi il limite alle modalità di esercizio di una servitù di passaggio, gravante sul loro fondo e posta a favore di quello del C., aveva riconosciuto il diritto del convenuto “di percorrere lo stradello per cui è causa limitatamente al percorso più breve che dalla pubblica via San Ruffillo conduce alla sua proprietà e quindi attraverso il solo mappale 979 e non anche attraverso i mappali 140 e 900” e, al contempo, rigettato la domanda di acquisto per usucapione della servitù di passaggio interessante “le poqioni altrui “a monte””;

ritenuto che avverso la statuizione d’appello il C. propone ricorso sulla base di quattro censure e che M.P. resiste con controricorso;

considerato che la prima e la seconda doglianza, tra loro connesse, con le quali il ricorrente lamenta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1064,1065 e 1362 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, assumendo che il titolo costitutivo (contratto di compravendita del 14/12/1987) non dava adito a dubbi, che, peraltro la Corte locale non aveva individuato puntualmente e che dal predetto titolo emergeva “la comune volontà delle parti in modo certo e immediato”, di assoggettare alla servitù anche dell’art. 140, risultano manifestamente destituite di giuridico fondamento in quanto:

a) la sentenza impugnata interpreta il contratto, non omettendo di tener conto del canone ermeneutico evidenziato dal ricorrente, tuttavia mediato dagli ulteriori criteri interpretativi di legge, evidenziando che il mappale 979 costituiva, siccome precisato nel titolo, “la sola porzione di strada già esistente… che congiunge la Via San Raffaello al fondo compravenduto” e che, successivamente “divisa la proprietà, l’estensione del fondo di titolarità dell’appellante (mappale 365) non raggiunge più il confine col mappale 140, non esistendo dunque più su di esso alcun titolo legittimante il passaggio da parte del C. che invece permane per il M., in quanto necessario per accedere alla sua proprietà (mappale 951)”;

b) trattasi di un accertamento in fatto, peraltro esaustivo, in questa sede non sindacabile, dovendosi osservare che nonostante gli sforzi argomentativi di parte ricorrente, i quali comunque non incidono sull’argomento portante della decisione, la vicenda resta confinata negli apprezzamenti di merito, non bastando, come più volte chiarito in questa sede, la enunciazione della pretesa violazione di legge in relazione al risultato interpretativo favorevole, disatteso dal giudice del merito, occorrendo individuare, con puntualità, il canone ermeneutico violato correlato al materiale probatorio acquisito; in quanto, “l’opera dell’interprete, mirando a determinare una realtà storica ed obiettiva, qual è la volontà delle parti espressa nel contratto, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali d’ermeneutica contrattuale posti dall’art. 1362 c.c. e ss., oltre che per viti di motivazione nell’applicazione di essi: pertanto, onde far valere una violazione sotto entrambi i due cennati profili (il secondo, ovviamente, sotto il regime del vecchio testo dell’art. 360 c.p., comma 1, n. 5, il ricorrente per cassazione deve, non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito siasi discostato dai canoni legali assuntivamente violati o questi abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti; di conseguenza, ai fini dell’ammissibilità del motivo di ricorso sotto tale profilo prospettato, non può essere considerata idonea – anche ammesso ma non concesso lo si possa fare implicitamente – la mera critica del convincimento, cui quel giudice sia pervenuto, operata, come nella specie, mediante la mera ed apodittica contrapposizione d’una difforme interpretazione a quella desumibile dalla motivazione della sentenza impugnata, trattandosi d’argomentazioni che riportano semplicemente al merito della controversia, il cui riesame non è consentito in sede di legittimità (ex pluribus, da ultimo, Cass. 9.8.04 n. 15381, 23.7.04 n. 13839, 21.7.04 n. 13579. 16.3.04 n. 5359, 19.1.04 n. 7 5 3)” (Sez. 2, n. 18587, 29/10/2012; si veda anche, per la ricchezza di richiami, Sez. 6-3, n. 2988, 7/2/2013);

c) per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un negozio giuridico non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicchè, quando di una clausola negoziale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Sez. 3, n. 24539, 20/11/2009, Rv. 610944; conformi: Sez. 1, n. 16254, 25/9/2012, Rv. 623697; Sez. 1, n. 6125, 17/3/2014, Rv. 630519; Sez. 1, n. 27136, 15/11/2017, Rv. 646063);

d) la denunzia di violazioni di legge non determina, per ciò stesso, nel giudizio di legittimità lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, essendo, all’evidenza, occorrente che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente (cfr., da ultimo, Cass. nn. 11775/019, 6806/019, 30728/018);

considerato che il terzo motivo, con il quale il ricorrente prospetta nullità della sentenza per difetto d’integrità del contraddittorio (art. 102 c.p.c.), per non aver preso parte al giudizio, quali convenuti, tutti i comproprietari del mappale n. 365, è manifestamente infondato, avendo questa Corte avuto modo di condivisamente affermare che l’actio confessoria o negatoria servitutis dà luogo a litisconsorzio necessario passivo solo se, appartenendo il fondo servente “pro indiviso” a più proprietari, l’azione sia diretta anche ad una modificazione della cosa comune che altrimenti non potrebbe essere disposta od attuata “pro quota” in assenza di uno dei contitolari del diritto dominicale, mentre, ove l’azione sia diretta soltanto a far dichiarare, nei confronti di chi ne contesti o ne impedisca l’esercizio, l’esistenza della servitù o a conseguire la cessazione delle molestie, non è configurabile un litisconsorzio necessario, nè dal lato attivo, nè da quello passivo (Sez. 2, n. 6622, 6/4/2016, Rv. 639635; conf. Sez. 2 n. 17663/2018); dovendosi osservare che nel caso al vaglio è proprio questa seconda ipotesi quella che ricorre, poichè l’azione degli attori risulta diretta ad accertare un obbligo negativo utilmente esperibile nei confronti del singolo comproprietario;

considerato che l’ultimo motivo con il quale viene denunziato l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, per non avere la sentenza analizzato lo stato dei luoghi e, in particolare, l’assenza di contiguità tra i mappali 365 e 979, è inammissibile in quanto:

– l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); conseguendone che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (S.U. n. 8053, 7/4/2014, Rv. 629831);

considerato che le spese legali debbono seguire la soccombenza e possono liquidarsi, in favore dei controricorrenti siccome in dispositivo, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle attività espletate;

considerato che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del resistente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, i1 23 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 25 giugno 2020

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