Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12665 del 18/06/2015


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 12665 Anno 2015
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: PETITTI STEFANO

SENTENZA

sentenza con motivazione
semplificata

sul ricorso proposto da:
CARLUCCIO Antonietta, in proprio e nella qualità di erede
di Martano Vita Giuseppe, DE BASI Maria, DE PIERRI
RIZZELLO Romeo, CAZZATO Vincenzo, MICELLO Giuseppe,
rappresentati e difesi, per procura speciale a margine del
ricorso, dall’Avvocato Cosimo Luperto, elettivamente
domiciliati in Roma, via dei Gracchi n. 39, presso
Annamaria Federico;
ricorrenti –

contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro
tempore,

pro

rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale

Data pubblicazione: 18/06/2015

dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei
Portoghesi n. 12, è domiciliato per legge;

controricorrente

avverso il decreto della Corte d’Appello di Potenza,

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 9 aprile 2015 dal Presidente relatore Dott.
Stefano Petitti.
Ritenuto che, con ricorso depositato in data 8 maggio
2012 presso la Corte d’appello di Potenza, CARLUCCIO
Antonietta, in proprio e nella qualità di erede di Martano
Vito Giuseppe, DE BLASI Maria, DE PIERRI RIZZELLO Romeo,
CAZZATO Vincenzo e MICELLO Giuseppe, chiedevano la
condanna del Ministero della giustizia al pagamento del
danno non patrimoniale derivato dalla irragionevole durata
della procedura concernente il fallimento della Venturi
Investimenti S.p.A. (già Me.Fi S.p.A.), iniziata con
dichiarazione di fallimento da parte del Tribunale di
Lecce in data 11 ottobre 1993 e non ancora conclusasi alla
data della domanda;
che l’adita Corte d’appello, stimata come ragionevole
una durata di otto anni, riteneva che fosse indennizzabile
un ritardo di dieci anni nei confronti di Carluccio
Antonietta, in proprio e nella qualità di erede di Màrtano
Vito Giuseppe, De Blasi Maria, De Pierri Rizzello Romeo,

-2-

depositato in data 19 luglio 2013, n. 734 del 2013.

Cazzato Vincenzo e Micelio Giuseppe, e, considerando che
l’inizio del procedimento per ciascun creditore doveva
essere individuato nella data di insinuazione al passivo,
riteneva che potesse essere liquidato un indennizzo di

determinato sulla base del criterio di 500,00 euro per
anno di ritardo per i primi tre anni, e di 750,00 euro per
i successivi;
che, in applicazione delle disposizioni modificative
della legge n. 89 del 2001, introdotte dal decreto legge
n. 83 del 2012, l’adita Corte liquidava, invece, una somma
di euro 1.785,00 in favore di Cazzato Vincenzo, di euro
5.113,00 in favore di De Pierri Rizzello Romeo, di euro
4.651,00 in favore di De Blasi Maria e di euro 4.161,00 in
favore di Carluccio Antonietta, di cui euro 900,00 in
qualità di erede di ~ano Vito Giuseppe, oltre interessi
al tasso legale dalla data di presentazione della domanda
al soddisfo, sul presupposto che

l’indennizzo

per

irragionevole durata non dovesse superare il valore della
causa;
che avverso questo decreto i ricorrenti in epigrafe
indicati hanno proposto ricorso, affidato a quattro
motivi;
che

l’intimato

Ministero

controricorso.

-3-

ha

resistito

con

euro 6.750,00 in favore del ricorrente Micelio Giuseppe,

Considerato che il Collegio ha deliberato l’adozione
della motivazione semplificata nella redazione della
sentenza;
che con il primo motivo i ricorrenti deducono

89 del 2001, dell’art. 111 Cost., dell’art. 1 della legge
costituzionale n. 2 del 1999, dell’art. 6, par. 1, della
CEDU e dell’art. 2056 cod. civ., nonché vizio di
motivazione, dolendosi del fatto che la Corte d’appello
abbia determinato la durata ragionevole della procedura
fallimentare presupposta in otto anni, in contrasto con le
indicazioni della giurisprudenza di legittimità, secondo
cui la detta durata può essere al massimo di sette anni;
che la Corte d’appello, ad avviso dei ricorrenti, non
avrebbe neanche illustrato le ragioni specifiche che nel
caso esaminato inducevano a ritenere ragionevole una
durata di otto anni, e non avrebbe considerato che dalla
relazione della curatrice fallimentare emergevano elementi
nel senso della non complessità della procedura;
che, inoltre, la Corte d’appello si sarebbe discostata
dai parametri relativi all’entità degli indennizzi che la
giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione ha
enucleato (e che prevedono un indennizzo non inferiore a
750,00 euro per ogni anno di ritardo in relazione ai primi
tre anni eccedenti la durata ragionevole e a 1.000,00 euro

-4-

violazione o falsa applicazione dell’art. 2 della legge n.

per ciascuno di quelli successivi), avendo riconosciuto al
ricorrente Micelio Giuseppe un indennizzo pari a 500,00
euro per i primi tre anni di ritardo é a 750,00 euro per i
successivi, e agli altri ricorrenti un indennizzo pari

procedura concorsuale;
che con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la
violazione dell’art. 110 cod. proc. civ., nonché vizio di
motivazione contraddittoria e omesso esame su fatti
decisivi, in relazione alla posizione della ricorrente
Carluccio Antonietta, in qualità di erede di Martano Vito
Giuseppe, censurando il decreto impugnato nella parte in
cui, con riferimento alla sua posizione, ha fatto cessare
la durata non ragionevole del processo alla data del
decesso del dante causa;
che con il terzo motivo i ricorrenti denunciano ancora
violazione dell’art. 2 della

legge n. 99 del 2001, degli

artt. 2056, 1223 e 1226 cod. civ., dell’art. 1 della legge
costituzionale n. 2 del 1999, dell’art. 6, par. 1, della
CEDU, dell’art. 11 delle preleggi, dell’art. 55 del
decreto legge n. 83 del 2012 e dell’art.

2-bis della legge

n. 134 del 2012, nonché vizio di motivazione
contraddittoria e omesso esame su fatti decisivi,
censurando il decreto impugnato per avere la Corte
d’appello fatto applicazione della disposizione da ultimo

-5-

all’importo del credito dagli stessi azionato nella

citata – la quale effettivamente prevede che l’indennizzo
non possa superare il valore della causa in relazione alla
quale viene chiesto -, sebbene la stessa sia applicabile
ai soli ricorsi depositati dopo l’entrata in vigore della

che con il quarto motivo i ricorrenti denunciano la
violazione dell’art. 3 Cost., degli artt. 2056, 1223 e
1226 cod. civ., nonché vizio di motivazione e omesso esame
su fatti decisivi, per avere la adita Corte liquidato
l’indennizzo tenendo conto del valore dei crediti ammessi
al passivo e dunque in misura

non

omogenea per tutti i

ricorrenti, nonché vizio di motivazione sul punto;
che all’esame dei motivi occorre premettere che la
presente controversia non è soggetta,

ratione temporis,

all’applicazione delle disposizioni introdotte dal d.l. n.
83 del 2012, convertito, con modificazione, dalla legge n.
134 del 2012, applicabili ai ricorsi depositati a
decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello di
entrata in vigore della legge di conversione;
che, del resto, alle disposizioni introdotte nel 2012
non può neanche riconoscersi natura di norme di
interpretazione autentica, atteso che, se è vero che per
alcuni aspetti vengono

recepiti orientamenti della

giurisprudenza di questa Corte mutuati dalla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo,

-6-

legge di conversione;

non vi è nulla nel decreto-legge n. 83 del 2012 che possa
indurre a ritenere che il legislatore abbia inteso
attribuire alle nuove disposizioni efficacia retroattiva,
avendo anzi espressamente dettato una specifica previsione

che, tanto premesso, il primo motivo di ricorso è
fondato per quanto di ragione;
che, invero, questa Corte ha avuto modo di affermare
(Cass. n. 8468 del 2012), che la durata ragionevole delle
procedure fallimentari può essere stimata in cinque anni
per quelle di media complessità, ed è elevabile fino a
sette anni, allorquando il procedimento si presenti
notevolmente complesso; ipotesi, questa, ravvisabile in
presenza di un numero elevato di creditori, di una
particolare natura o situazione giuridica dei beni da
liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi ecc.),
della proliferazione

di giudizi connessi alla procedura,

ma autonomi e quindi a loro volta di durata condizionata
dalla complessità del caso, oppure della pluralità delle
procedure concorsuali interdipendenti;
che, all’evidenza, la Corte d’appello si è discostata
dall’indicato orientamento ritenendo ragionevole una
durata di otto anni, adducendo a sostegno di tale
valutazione elementi che già concorrono a determinare la

-7-

per la entrata in vigore della nuova disciplina;

complessità della procedura e a considerare ragionevole la
durata di sette anni in luogo di cinque anni;
che il motivo è invece infondato nella parte in cui i
ricorrenti pretendono di far risalire l’inizio della

procedura rilevante ai fini dell’equa riparazione alla
dichiarazione di fallimento, atteso che correttamente la
Corte d’appello ha fatto riferimento alla data della
domanda di insinuazione al passivo (Cass. n. 2207 del
2010; Cass. n. 20732 del 2011);
che è del pari condivisibile la decisione nella parte
in cui ha limitato la durata rilevante alla data di
proposizione della domanda di equa riparazione, trovando
applicazione il principio per cui ove la domanda di equa
riparazione «sia proposta durante la pendenza del processo
presupposto, il giudice deve prendere in considerazione,
ai fini della valutazione della ragionevolezza della
durata di detto processo, il solo periodo intercorrente
tra il suo promovimento e la proposizione del ricorso per
equa riparazione, non potendo considerare altresì
l’ulteriore ritardo, futuro ed incerto, suscettibile di
maturazione nel prosieguo del primo processo; tale
valutazione prognostica è infatti esclusa dalla lettera
dell’art. 2 della legge cit., che si riferisce ad un
evento lesivo storicamente già verificatosi e dunque
certo, mentre a sua volta l’art. 4, permettendo

-8-

ìs.

l’esercizio dell’azione anche in pendenza del processo
presupposto, come nella specie avvenuto, delimita l’ambito
del pregiudizio, anticipando la liquidazione per ogni
violazione già integrata, e fa implicitamente salva la

ritardo ulteriore» (Cass. n. 8547 del 2011);
che il motivo è altresì infondato quanto ai parametri
relativi all’entità degli indennizzi accordati ai
ricorrenti;
che, premesso che la Corte d’appello ha erroneamente
fatto richiamo al decreto-legge n. 83 del 2012, poi
convertito nella legge n. 134 del 2012, modificativo della
legge n. 89 del 2001, trattandosi di disposizione ratione
temporis

non applicabile nella specie, il criterio

adottato dal giudice di merito appare in linea con le
soglie dettate tanto dalla giurisprudenza Europea quanto
da quella nazionale (e anzi, per la parte eccedente i tre
anni, risulta addirittura superiore al criterio di 500,00
euro per anno di ritardo affermato come idoneo ristoro
dalla più recente giurisprudenza d questa Corte: Cass. n.
16311 del 2014);
che, invero, questa Corte ha già avuto modo di
chiarire che, se è vero che il giudice nazionale deve, in
linea di principio, uniformarsi ai criteri di liquidazione
elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo

-9-

facoltà di proporre altra domanda in caso di eventuale

(secondo cui, data l’esigenza di garantire che la
liquidazione sia satisfattiva di un danno e non
indebitamente lucrativa, la quantificazione del danno non
patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a euro

anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a
euro 1.000,00 per quelli successivi), permane, tuttavia,
in capo allo stesso giudice, il potere di discostarsene,
in misura ragionevole, qualora, avuto riguardo alle
peculiarità della singola fattispecie, ravvisi elementi
concreti di positiva smentita di detti criteri, dei quali
deve dar conto in motivazione (Cass. n. 18617 del 2001;
Cass. n. 17922 del 2010);
che, nel caso di specie, come rilevato, la Corte
d’appello, tenuto conto della entità dei crediti ammessi e
del comportamento dei creditori, ha ritenuto di potersi
discostare dagli ordinari criteri di liquidazione
dell’indennizzo, adottando quello di euro 500,00 per
ciascuno dei primi tre anni di ritardo e di 750,00 euro
per ciascuno degli anni successivi (Cass. n. 16311 del
2014);
che non vale ad inficiare la valutazione della Corte
d’appello il rilievo secondo cui, pur avendo la stessa
affermato di voler valorizzare il criterio del valore
della posta in gioco, ha poi finito per liquidare un

– l o-

750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre

indennizzo uguale pur a fronte di creditori ammessi al
passivo per crediti significativamente differenti, proprio
perché la Corte territoriale non ha applicato la nuova
disciplina ma, in base ai criteri desumibili dalla

in senso riduttivo, dall’ordinario criterio di
liquidazione;
che il secondo motivo di ricorso è infondato;
che la continuità della posizione processuale degli
eredi intervenuti rispetto a quella del dante causa
prevista dall’art. 110 cod. proc. civ., nel caso di specie
della ricorrente Carluccio Antonietta, non toglie che il
sistema sanzionatorio delineato dalla CEDU e tradotto in
norme nazionali dalla legge n. 89 del 2001, non si fonda
sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello
Stato, ma sulla somministrazione di sanzioni riparatorie a
beneficio di chi dal ritardo abbia ricevuto danni
patrimoniali o non patrimoniali, mediante indennizzi
modulabili in relazione al concreto paterna subito, il
quale presuppone la conoscenza del processo e l’interesse
alla sua rapida conclusione (principio oramai consolidato:
vedi, da ultimo, Cass. n. 10517 del 2013; Cass. n. 995 del
2012);
che, dunque, essendo presupposto ineliminabile per la
legittimazione a far valere l’equa riparazione l’incidenza

giurisprudenza di legittimità, ha inteso solo discostarsi,

che la non congrua durata del giudizio abbia su chi di
quel giudizio sia chiamato a far parte, non vi è luogo a
discorrere di equa riparazione sin tanto che il chiamato
all’eredità non sia, quanto meno, evocato in riassunzione,

prova dell’assunzione – per accettazione espressa o per
facta concludentia – della stessa qualità di erede (Cass.
n. 4003 del 2014);
che tale principio risulta estensibile anche al caso
in cui il procedimento presupposto sia una procedura
fallimentare in quanto, senza una espressa manifestazione
in tal senso da parte dell’erede, alcuna prova può essere
data del patema d’animo sofferto in proprio dallo stesso a
causa della lungaggine processuale;
che il terzo motivo di ricorso è fondato;
che, come già rilevato e come disposto dall’art. 55,
comma 2, del decreto-legge n. 83 del 2012, modificativo
della legge n. 89 del 2001, le previsioni nello stesso
contenute si applicano ai ricorsi depositati dal
trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore
della legge di conversione del decreto, ovvero dall’il
settembre 2012;
che, essendo stato il ricorso in questione depositato
in un momento antecedente a tale data, nessuna delle nuove
disposizioni può essere ad esso direttamente applicata,

-12-

atteso che fino a quel momento può mancare addirittura la

con la conseguenza che il decreto impugnato è errato nella
parte in cui statuisce che, non potendo l’indennizzo
superare il valore della causa, lo stesso deve essere
liquidato nella minor somma tra la somma astrattamente

passivo della procedura;
che il quarto motivo di ricorso rimane assorbito
dall’accoglimento dei precedenti;
che, dunque, accolto il primo e il terzo motivo di
ricorso, rigettato il secondo, assorbito il quarto, il
decreto impugnato deve essere cassato;
che, tuttavia, non apparendo necessari ulteriori
accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel
merito ai sensi dell’art. 384, secondo comma, cod. proc.
civ.;
che, infatti, accertata la irragionevole durata della
procedura fallimentare in anni undici, il Collegio ritiene
che si debba procedere alla liquidazione della somma
dovuta ai ricorrenti avendo riguardo al criterio di 500,00
euro per anno di ritardo, già valutato come congruo in
riferimento alle domande di equa riparazione formulate con
riferimento alla medesima procedura fallimentare e,
quindi, ad un indennizzo di euro 5.500,00;
che tale statuizione trova applicazione per i soli
ricorrenti in favore dei quali la Corte d’appello ha

– 13 –

riconosciuta spettante e quella in concreto ammessa al

pronunciato condanna del Ministero della

giustizia al

pagamento di una somma inferiore all’importo ora indicato;
che, invero, trova applicazione il principio per cui
«in tema di equa riparazione, ai sensi della legge 24

ragionevole durata del processo, l’importo unitario, in
base al quale è stata effettuata dal giudice di merito la
liquidazione del pregiudizio, pur in assenza di ricorso
incidentale, non è suscettibile di passare in giudicato,
trovando applicazione, in materia, il principio
enunciato

con

riferimento

alla

indennità

di

espropriazione, ma di portata generale – secondo cui non è
concepibile un’acquiescenza al criterio legale di
determinazione dell’indennità stessa, posto che il bene
della vita alla cui attribuzione tende l’impugnante è
l’indennità, da liquidarsi nella misura

di

legge, non

l’indicato criterio legale in sé considerato» (Cass. n.
14966 del 2012; Cass. n. 26442 del 2013);
che ciò comporta che, in mancanza di ricorso
incidentale, resta fermo l’indennizzo determinato in
misura superiore dal decreto impugnato per il ricorrente
Micelio Giuseppe, il quale, quindi, non può neanche
beneficiare dell’effetto della rideterminazione della
durata della procedura fallimentare presupposta con la
maggiorazione di un anno;

-14-

marzo 2001, n. 89, per violazione del diritto alla

che, invece, deve riconoscersi il diritto di De Blasi
Maria, De Pierri Rizzello Romeo, Cazzato Vincenzo e di
Carluccio Antonietta, in proprio, a vedersi corrisposto un
indennizzo pari alla indicata somma di euro 5.500,00,

liquidato dalla Corte d’appello di Potenza (euro 900,00,
nella qualità di erede di Màrtano Vito;
che, dunque, il Ministero della giustizia deve essere
condannato al pagamento, in favore di De Blasi Maria, De
Pierri Rizzello Romeo, Cazzato Vincenzo e di Carluccio
Antonietta, in proprio, della somma di euro 5.500,00,
oltre agli interessi legali dalla data della domanda al
soddisfo, mentre restano ferme le pronunce di condanna
adottate nei confronti di Micelio Giuseppe e di Carluccio
Antonia, nella qualità di erede di Martano Vito Giuseppe
al pagamento, rispettivamente, della somma di euro
6.750,00 e della somma di euro 900,00;
che, quanto alle spese del giudizio di merito, restano
ferme le statuizioni adottate dalla Corte d’appello, ivi
compresa quella relativa alla distrazione delle spese in
favore del difensore antistatario;
che, tenuto conto dell’esito del presente giudizio, le
spese

relative, come liquidate in dispositivo, possono

essere compensate per metà e poste a carico del Ministero
della giustizia per la restante metà.

– 15 –

somma alla quale deve aggiungersi l’importo alla medesima

PER QUESTI MOTIVI
La Corte
cassa

accoglie il ricorso per quanto di ragione;

il decreto impugnato in relazione alle censure

accolte e, decidendo nel merito,

condanna

il

Ministero

De Pierri Rizzello Romeo, Cazzato Vincenzo e di Carluccio
Antonietta, in proprio, della somma di euro 5.500,00,
oltre agli interessi legali dalla data della domanda al
saldo; in favore della ricorrente Carluccio Antonietta,
quale erede di Wartano Vito Giuseppe, della somma di euro
900,00, oltre agli interessi legali dalla data della
domanda

al saldo;

in favore di Micelio Giuseppe, della

somma di euro 6.750,00, oltre agli interessi legali dalla
data della domanda al saldo;

conferma le statuizioni sulle

spese adottate nel decreto impugnato, ivi compresa

la

disposta distrazione in favore del difensore antistatario;
condanna

altresì il Ministero alla rifusione della metà

delle spese del giudizio di

cassazione che liquida, per

l’intero, in euro 700,00 per compensi, oltre agli
accessori di legge e alle spese generali.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della
VI – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione,

della giustizia al pagamento, in favore di De Blasi

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