Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12643 del 25/06/2020

Cassazione civile sez. II, 25/06/2020, (ud. 20/09/2019, dep. 25/06/2020), n.12643

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26752/2015 proposto da:

P.A., elettivamente domiciliata in Roma, via Varrone n. 9,

presso lo studio dell’avvocato Francesco Vannicelli, rappresento e

difeso dall’avvocato Luigi Robol del Foro di Rovereto;

– ricorrente –

contro

F.M., e S.L., domiciliati in Domegliara (VR), via

A. Diaz n. 4, presso lo studio degli avvocati Gianluigi Bonfante e

Giada De Angeli, da cui sono rappresentati e difesi;

– controricorrenti –

contro

FE.EL.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1083/2015 della Corte di appello di Venezia

depositata il 24 aprile 2015 e notificata il 27 luglio 2015;

udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 20

settembre 2019 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. MISTRI Riccardo, che ha concluso per

l’inammissibilità e/o il rigetto del ricorso;

udito l’Avv.to Federica Sagemi (con delega dell’Avv.to Gianluigi

Bonfante), per parti resistenti.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato in data 7-17 novembre 2007 F.M. evocava, dinanzi al Tribunale di Verona, FE.El. esponendo di avere concluso con la convenuta contratto preliminare di compravendita di terreno agricolo destinato parte a bosco e parte a vigneto, sito nel Comune di (OMISSIS), concordato il prezzo di L. 145.000.000 e con immissione in possesso alla data di stipula del preliminare. Eguale vicenda veniva illustrata da S.L., la quale esponeva di avere sottoscritto a mezzo di procuratore speciale, il coniuge della promissaria acquirente, F.S., con la FE. contratto preliminare di altro terreno agricolo dotato di “ricovero per attrezzi”, sito nella medesima frazione del Comune di (OMISSIS), pattuendo il prezzo di Lire 90.000.000. Entrambi chiedevano che venisse pronunciata sentenza che tenesse luogo del contratto non concluso, per la indisponibilità della promittente venditrice a comparire dinanzi a notaio designato dai promissari acquirenti.

Instaurato il contraddittorio, resisteva la convenuta assumendo che, quanto al primo preliminare, il contratto doveva ritenersi inefficace per avere le parti in data 20.07.1998 sottoscritto altro negozio, con il quale avevano trasformato la promessa di vendita in affitto, rinnovando così contestualmente il vecchio rapporto di affitto, mentre relativamente al secondo, la sottoscrizione del solo coniuge, senza essere fornito di alcun mandato, configurava un conflitto di interessi, oltre ad intervenire, con atto del 19.09.2011, P.A., coniuge della convenuta, che chiedeva il rigetto delle domande e in subordine la sospensione del giudizio in attesa della definizione della causa di riconoscimento dell’esistenza di un’impresa familiare per l’attribuzione dei beni de quibus alla stessa. Il giudice adito, istruita la causa, rigettata l’istanza di sospensione, con sentenza n. 1625/2012, accoglieva le domande attoree.

In virtù di rituale appello interposto dall’interveniente P., insistendo sull’incapacità della FE. a promettere in vendita i fondi in questione in quanto non era proprietaria esclusiva degli stessi, la Corte di appello di Venezia, nella resistenza degli appellati F. e S., rimasta contumace la FE., ritenuta l’ammissibilità del gravame, lo rigettava nel merito e per l’effetto confermava la sentenza di primo grado.

A sostegno della adottata sentenza la Corte distrettuale evidenziava, preliminarmente, che l’intervento spiegato dall’appellante in primo grado doveva definirsi principale, avendo chiesto l’accoglimento delle eccezioni di risoluzione e di annullamento dei preliminari, e ciò lo legittimava alla proposizione del gravame. Nel merito, rilevava che dalla documentazione prodotta in appello, esaminabile in quanto formatasi nel corso del giudizio, emergeva che i terreni in questione non erano oggetto di comproprietà, per essere la FE. l’unica intestataria degli stessi. Nè poteva essere dichiarata la comproprietà sulla base dell’art. 230 bis c.c., giacchè l’accertata esistenza dell’impresa familiare agricola costituita fra i due coniugi non determinava nel partecipante non intestatario dei beni la trasmissione del diritto dominicale, neanche ove fosse stata dimostrata la provenienza degli acquisiti con denaro dell’appellante e del suo lavoro, usufruendo il membro della comunione pretermesso dall’intestazione solo di un diritto di credito verso l’altro intestatario del bene, per cui gli era consentito esercitare non già azione reale per il loro recupero, ma solo quella risarcitoria. Aggiungeva che non poteva trovare accoglimento neanche l’eccezione di annullabilità del contratto preliminare per conflitto di interessi per tardività dell’eccezione formulata solo dopo la costituzione e comunque per essere decorso il quinquennio dalla conclusione dell’affare, ritualmente trascritto il contratto in data 09.11.2002; nè quella di risoluzione dell’altro preliminare per mutuo consenso, non sussistendo la dedotta antinomia fra la vendita e l’affitto.

Avverso l’indicata sentenza della Corte di Appello di Venezia ha proposto ricorso per cassazione il P., articolato su quattro motivi, al quale hanno resistito il F. e la S. con controricorso. E’ rimasta intimata la FE..

In prossimità della pubblica udienza parte controricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Preliminare è l’eccezione di tardività nel deposito del ricorso. La stessa è priva di pregio e va rigettata.

I controricorrenti deducono il deposito del ricorso oltre i venti giorni previsti dall’art. 369 c.p.c., comma 1, secondo il quale “il ricorso deve essere depositato nella cancelleria…, nel termine di giorni venti dall’ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto”. Dall’esame degli atti, risulta che il ricorso è pervenuto all’Ufficio protocollo della Corte di Cassazione in data 19 novembre 2015 a “mezzo corriere” (come da annotazione del medesimo ufficio) e ne è stato perfezionato il depositato all’Ufficio Depositi il successivo 21 novembre 2015 e, quindi, entro venti giorni decorrenti dal 30 ottobre 2015, data di consegna del plico della notificazione del ricorso alla Fe., l’ultima degli intimati nei confronti della quale era stato proposto. Infatti il termine di venti giorni dall’ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto, previsto dall’art. 369 c.p.c., a pena di improcedibilità, decorre dalla data di consegna del plico all’ultimo dei destinatari (Cass. 26 luglio 2007 n. 14742; Cass. 6 maggio 2004 n. 8642; Cass. 17 luglio 2003 n. 11201). Tanto, coerentemente, al principio, secondo cui “Il principio sancito dalla sentenza n. 477 del 2002 della Corte costituzionale (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 c.p.c. e della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 4, comma 3, nella parte in cui prevede che la notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anzichè a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario) trova applicazione limitatamente al tema della tempestività della notifica dell’atto, ma non anche con riguardo alla questione relativa alla tempestività del deposito del ricorso ex art. 369 c.p.c.. Sicchè, in ipotesi di notificazione a mezzo del servizio postale del ricorso per cassazione, il termine di venti giorni dall’ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto, previsto dall’art. 369 c.p.c., a pena di improcedibilità, decorre dalla data di consegna del plico al destinatario (Cass. 26 giugno 2007 n. 14742 cit.; Cass. 7 maggio 2014 n. 9861). In definitiva, mentre per il ricorrente, ai fini del deposito del ricorso, vale la data di consegna del plico all’ufficio postale, per il calcolo dei venti giorni dall’ultima notifica, vale la data di ricezione dell’ultima notifica alla parte contro cui il ricorso è diretto.

Va esaminata sempre con priorità la questione della procedibilità del ricorso, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., commi 2 e 4, n. 2, secondo cui unitamente con il ricorso, deve essere depositata (a pena di improcedibilità) “copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relazione di notificazione, se questa è avvenuta”. Secondo i principi enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte (con la sentenza n. 9005 del 16 aprile 2009) “la previsione – di cui dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2 – dell’onere di deposito a pena di improcedibilità, entro il termine di cui al comma 1 della stessa norma, della copia della decisione impugnata con la relazione di notificazione, ove questa sia avvenuta, è funzionale al riscontro, da parte della Corte di Cassazione – a tutela dell’esigenza pubblicistica (e, quindi, non disponibile dalle parti) del rispetto del vincolo della cosa giudicata formale – della tempestività dell’esercizio del diritto di impugnazione, il quale, una volta avvenuta la notificazione della sentenza, è esercitabile soltanto con l’osservanza del cosiddetto termine breve. Nell’ipotesi in cui il ricorrente, espressamente od implicitamente, alleghi che la sentenza impugnata gli è stata notificata, limitandosi a produrre una copia autentica della sentenza impugnata senza la relata di notificazione, il ricorso per cassazione dev’essere dichiarato improcedibile, restando possibile evitare la declaratoria di improcedibilità soltanto attraverso la produzione separata di una copia con la relata avvenuta nel rispetto dell’art. 372 c.p.c., comma 2, applicabile estensivamente, purchè entro il termine di cui dell’art. 369 c.p.c., comma 1 e dovendosi, invece, escludere ogni rilievo dell’eventuale non contestazione dell’osservanza del termine breve da parte del controricorrente ovvero del deposito da parte sua di una copia con la relata o della presenza di tale copia nel fascicolo d’ufficio, da cui emerga in ipotesi la tempestività dell’impugnazione”. Le Sezioni Unite hanno, altresì, chiarito che “nell’ipotesi in cui il ricorrente per cassazione non alleghi che la sentenza impugnata gli è stata notificata, la Corte di cassazione deve ritenere che lo stesso ricorrente abbia esercitato il diritto di impugnazione entro il c.d. termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c., procedendo all’accertamento della sua osservanza.

Tuttavia, qualora o per eccezione del controricorrente o per le emergenze del diretto esame delle produzioni delle parti o del fascicolo d’ufficio emerga che la sentenza impugnata era stata notificata ai fini del decorso del termine di impugnazione, la Corte di Cassazione, indipendentemente dal riscontro della tempestività o meno del rispetto del termine breve, deve accertare se la parte ricorrente abbia ottemperato all’onere del deposito della copia della sentenza impugnata entro il termine di cui dell’art. 369 c.p.c., comma 1 e, in mancanza, deve dichiarare improcedibile il ricorso, atteso che il riscontro della improcedibilità precede quello dell’eventuale inammissibilità” (coni., Cass. n. 6706 del 2013).

Nel caso in esame, il P. ha affermato, in ricorso, che la sentenza impugnata gli è stata notificata in data 27 luglio 2015, ma dall’esame degli atti del fascicolo non è dato evincere se la notifica sia effettivamente avvenuta in tale data, poichè dalla copia autentica della sentenza depositata risulta soltanto che è stata eseguita da F.M. e S.L. con notificazione effettuata dall’avvocato a mezzo posta ai sensi della L. n. 53 del 1994 – a mezzo posta inviata a cura dello stesso difensore dei predetti in data 21 luglio 2015 indirizzata al destinatario della notifica, allegata alla sentenza – e che l’atto è stato spedito, come comprovato dalla etichetta adesiva apposta sullo stesso, ma manca un timbro di partenza attestante la data in cui è stato avviato il procedimento di notifica mediante spedizione a mezzo servizio postale e neppure risulta annotata, nell’allegata busta della raccomandata, la data di avvenuta ricezione del plico da parte della destinataria. Ne consegue che, sebbene debba ritenersi provata l’avvenuta notifica della sentenza, questo Collegio, sulla base degli elementi evincibili dalla copia autentica della sentenza depositata dalla ricorrente, non ha possibilità di accertare la data in cui la notificazione si è perfezionata.

Considerato, tuttavia, che limitatamente ai casi, come quello in esame, di notificazione della sentenza a mezzo del servizio postale ad opera della parte non ricorrente, il destinatario della notificazione di una sentenza eseguita a mezzo posta non ha la materiale disponibilità dell’avviso di ricevimento, dal quale solo risulta la data di perfezionamento del procedimento notificatorio, che costituisce il dies a quo per la notificazione del ricorso per cassazione nel termine breve ex art. 325 c.p.c., si rende necessario, pur nel rispetto dei principi, del tutto condivisibili, espressi dalle Sezioni Unite con la sentenza sopra richiamata, adottare una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, finalizzata ad evitare che siano posti a carico della parte ricorrente oneri che rendano particolarmente difficoltosa la tutela giurisdizionale (Cass. 19 settembre 2014 n. 19750; Cass. 8 marzo 2019 n. 6864).

Ritiene, pertanto, il Collegio, che, ai fini dell’osservanza del citato art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2 e, quindi, della procedibilità del ricorso, è sufficiente, nel caso in cui il ricorrente alleghi che la sentenza gli è stata notificata a mezzo del servizio postale, o comunque tale circostanza emerga dall’esame degli atti prodotti, che lo stesso ricorrente depositi, unitamente al ricorso, copia autentica della sentenza corredata di documentazione comprovante la spedizione dell’atto, spettando in tal caso alla parte controricorrente, anche in ossequio al c.d. principio di vicinanza della prova, contestare, attraverso il deposito dell’avviso di ricevimento in suo possesso, che la notifica del ricorso sia avvenuta nel termine breve decorrente dalla data del perfezionamento del procedimento notificatorio della sentenza, dalla stessa attivato.

Nel caso in esame i controricorrenti si sono limitati a formulare una generica eccezione di improcedibilità, nulla avendo dedotto con riguardo alla data di perfezionamento della notificazione, pur prodotta dal ricorrente l’originale della copia della sentenza al medesimo notificata, con busta priva dei riferimenti e, pertanto, il ricorso si sottrae alla sanzione della improcedibilità.

Quanto all’ulteriore eccezione di inammissibilità del ricorso, la giurisprudenza di questa corte ammette la produzione di documenti nuovi ex art. 372 c.p.c., non solo nei casi di nullità della sentenza derivante da vizi propri della stessa, per la mancanza dei requisiti di sostanza e di forma prescritti dal codice di rito, ma anche derivante in via riflessa da vizi del procedimento, come quelli relativi alla regolare costituzione del rapporto processuale, e in particolare, nel caso di nullità derivante dalla inesistenza o nullità della notificazione della citazione introduttiva nei casi in cui la sentenza sia impugnabile solo con il ricorso per cassazione, in quanto in questi casi, la produzione di documenti costituisce l’unico modo per dimostrare, con il vizio del procedimento, la nullità della sentenza, per cui il divieto di produzione di nuovi documenti si tradurrebbe in una ingiustificata limitazione del diritto di difesa della parte (in tal senso, Cass. n. 23576 del 2004; Cass. n. 13011 del 2006; Cass. n. 13535 del 2007; Cass. n. 3373 del 2009). Nei casi di nullità inficiante direttamente la sentenza impugnata, il S.C. si è espresso nel senso di ritenere che i documenti vanno prodotti entro il termine di cui all’art. 369 c.p.c., con la conseguenza che il deposito dei documenti riguardanti l’ammissibilità del ricorso e del controricorso, in base alla previsione del comma 2, può avvenire in qualsiasi momento anteriore alla discussione della causa, e deve essere notificato mediante elenco alle altre parti, sempre che sulla relativa questione si sia formato il contraddittorio (così Cass. n. 2431 del 1995; Cass. n. 7600 del 1997; Cass. n. 6656 del 2004 e Cass. n. 8713 del 2004).

Ciò posto, aderendo all’impostazione nettamente maggioritaria sopra riportata, si deve concludere nel caso per l’ammissibilità in senso lato dei documenti prodotti dal ricorrente unitamente al ricorso, non essendo neanche stato dedotto che si tratti di documenti realmente nuovi, per cui al più parrebbe questione di rilevanza degli stessi, per essere stata la produzione compiuta attraverso le modalità previste dell’art. 372 c.p.c., comma 2, atteso che essa è stata effettuata in modo che comunque ha consentito la difesa della controparte, che, dopo avere preso visione degli atti prodotti, in effetti ha accettato il contraddittorio sul punto, replicando alla efficacia degli stessi (Cass. Sez. Un. 3 novembre 1981 n. 5781; Cass. Sez. Un. 19 giugno 2000 n. 450).

Passando al merito della causa, con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 230 bis c.c., per avere la corte territoriale erroneamente interpretato la norma invocata, secondo cui non è possibile attribuire in proprietà ai partecipanti all’impresa familiare beni o quote degli stessi acquistati con gli utili dell’impresa, nonchè gli incrementi della medesima.

La censura è priva di pregio.

L’art. 230 bis c.c., dispone che “il familiare che presta la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonchè agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato”.

L’impresa familiare è stata introdotta nell’ordinamento dalla L. 19 maggio 1975, n. 151, art. 89, contenente la riforma del diritto di famiglia, quale approdo di una lunga evoluzione dottrinaria e giurisprudenziale della comunione tacita familiare, di origine agricola, disciplinata dal previgente art. 2140 c.c.. Essa rappresenta un istituto rivolto ad approntare una tutela minima a quei rapporti di lavoro comune che si svolgono negli aggregati familiari, in passato ricondotti, in via presuntiva, ad una causa affectionis vel benevolentiae o comunque ad un contratto innominato di lavoro gratuito e come tali inidonei a generare pretese od obblighi, giuridicamente azionabili, rispetto al familiare imprenditore, beneficiario delle prestazioni.

L’impresa familiare coltivatrice è una specie del più ampio genus dell’impresa familiare disciplinata dall’art. 230-bis c.c.. Alla prima sono quindi applicabili i principi relativi alla seconda in quanto compatibili; essa si configura come un organismo collettivo formato dai familiari dei consorziati, il cui fine è l’esercizio in comune dell’impresa agricola. Dalla natura collettiva dell’impresa familiare discende che obbligati in relazione al credito per gli utili, se ed in quanto esistenti, spettanti a ciascuno dei familiari che abbia prestato la propria attività lavorativa nella famiglia, sono l’impresa familiare e gli altri familiari consorziati e di tale obbligazione essi ne rispondono con i beni comuni. Ne deriva che la domanda volta alla liquidazione della quota di partecipazione agli utili dell’impresa familiare coltivatrice, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro in essa prestato, deve rivolgersi nei confronti di costoro e non invece nei riguardi degli eredi del capofamiglia defunto (Cass. 8 maggio 2013 n. 10777).

La partecipazione del familiare ai beni acquistati presuppone che i beni stessi siano stati acquistati dopo la costituzione dell’impresa e con i relativi utili.

A tal fine la Corte territoriale ha correttamente osservato che, poichè non esiste alcuna presunzione che il denaro per l’acquisto d’un immobile compiuto da un partecipante “in nome proprio” in costanza di comunione provenga dagli utili tratti dall’attività economica comune, colui che afferma che l’acquisto è stato effettuato con denaro comune è tenuto a fornire la prova del proprio assunto (Cass. 30 agosto 1999 n. 9119; Cass. 6 giugno 1988 n. 3812), assenza di presunzione che riguarda, naturalmente, i beni acquistati da uno dei coniugi.

Il giudicante riferisce (nell’esposizione del fatto) che il P. deduceva che “i terreni promessi in vendita dalla Fe. erano stati in realtà di proprietà dell’impresa operante tra la stessa e il marito P.A. fino al 1998”, con la conseguenza che la stessa non era proprietaria esclusiva dei beni e tuttavia – osserva in motivazione – siffatta circostanza risultava sconfessata dalla stessa produzione documentale dell’appellante, che anzi con l’atto introduttivo del gravame ammetteva pacificamente che la moglie era l’unica intestataria dei terreni in questione (v. pag. 13 della sentenza gravata). La decisione è, pertanto, fondata sul fatto che i beni immobili fossero stati acquistati esclusivamente dalla Fe.. E’ da osservare, altresì, che non è in contestazione la intestazione dei beni immobili, che come è ovvio, è agevolmente documentabile.

Aggiungasi – e ciò deve essere detto per mera esigenza di completezza – che in generale può considerarsi che dell’art. 230 bis c.c., u.c., prevede che le comunioni tacite familiari nell’esercizio dell’agricoltura sono regolate dagli usi che non contrastino con la specifica disciplina dettata per l’impresa familiare. In precedenza l’art. 2140 c.c., parimenti, rinviava agli usi la regolamentazione della comunione tacita familiare nell’esercizio dell’agricoltura. Sicchè in sostanza l’istituto, a seguito della riforma del 1975, è stato confermato sia nel suo riferimento al settore dell’agricoltura, sia nel rinvio alla disciplina consuetudinaria; la novità è rappresentata dall’introduzione di un preciso limite a quest’ultima, identificato nella disciplina dell’impresa familiare, non essendo ammissibili usi che contrastino con quest’ultima. In sostanza quindi – salva l’applicabilità, con tale limite, della regolamentazione consuetudinaria – alla comunione tacita familiare è estesa la disciplina dell’impresa familiare.

L’art. 2140 c.c., costituiva, quindi, anche una disposizione sulle fonti di produzione della disciplina dell’istituto, coerentemente all’art. 8 c.c., comma 1, che attribuisce efficacia agli usi quando richiamati da una fonte scritta (legge o regolamento). Secondo tale disposizione e successivamente secondo l’art. 230 bis c.c., la comunione tacita familiare consiste nell’esercizio in forma necessariamente collettiva, e quindi associata, dell’impresa agricola con comunione di beni. La costituzione della comunione tacita familiare – che può avvenire per facta concludentia – postula l’esistenza di un patrimonio indiviso, frutto della comune attività di lavoro, una volta soddisfatti i bisogni della famiglia (colonica) e dei suoi componenti. La comunione tacita familiare è quindi caratterizzata, oltre che dalla comunanza di lucri e di perdite, dalla formazione di un unico peculio, gestito senza particolari formalità ed obblighi di rendiconto, destinato indivisibilmente a fornire i mezzi economici necessari ai bisogni della comunità familiare ed al sostentamento dei suoi partecipanti. Il regime di comunione sui beni comuni non comporta però, ove un bene sia acquistato in proprio dal singolo partecipante con i proventi comuni, l’acquisto automatico da parte della collettività, bensì un obbligo di trasferimento dal singolo acquirente agli altri membri della comunione, salvo che non risulti uno specifico uso che consideri fatti per la comunione anche gli acquisti nomine proprio dei singoli partecipanti.

La corte d’appello con sintetica, ma puntuale, motivazione ha ricostruito la vicenda ed ha chiarito che neanche nel giudizio pendente avanti a questa Corte nella controversia riguardante l’accertamento della esistenza della impresa familiare, con richiesta di divisione degli utili e degli incrementi, mai il P. aveva chiesto di essere riconosciuto titolare di un diritto dominicale sui terreni facenti parti dell’impresa medesima, che facevano capo non alla comunione, ma stante la formale intestazione solamente ad alcuno dei membri della famiglia. La corte territoriale ha, poi, esaminato le risultanze istruttorie per pervenire in detto giudizio alla conclusione dell’esistenza tra le parti di una comunione tacita familiare, da cui però non ne era conseguito l’acquisto dei beni immobile in questione con i proventi dell’attività svolta in comune.

Anche gli altri motivi non sono meritevoli di accoglimento.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 295 c.p.c. o dell’art. 337 c.p.c., comma 2, per non avere la corte accolto la censura di mancata sospensione del giudizio in attesa della definizione dell’azione esperita ai sensi dell’art. 230 bis c.c., che andava ritenuta pregiudiziale, costituendo all’evidenza un indispensabile antecedente logico-giuridico della causa ex art. 2932 c.c..

Con il terzo motivo il ricorrente lamenta l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio quanto alla dedotta risoluzione del preliminare per mutuo consenso alla luce della circostanza della stipula del contratto d’affitto tra le stesse parti.

Con il quarto mezzo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 1442 c.c., comma 4, per non avere i giudici di merito tenuto conto dell’eccezione di annullabilità del contratto nonostante ai sensi della norma invocata possa essere opposta dalla parte convenuta per l’esecuzione del contratto anche se è prescritta l’azione per farla valere.

Infatti, confermata (con il rigetto della prima doglianza) la statuizione del giudice distrettuale che ha escluso la legittimazione del P. a far valere le proprie ragioni nei confronti degli originari attori per non essere egli titolare di alcun diritto dominicale rispetto ai terreni oggetto delle promesse di vendita, le ulteriori censure sono destinate ad infrangersi sul corretto impianto motivazionale della pregiudiziale questione della titolarità e quindi appaiono superate dallo stesso essendo volte a metterne in discussione la medesima determinazione, seppure sotto diversi giuridici diversi.

In conclusione, il ricorso va respinto.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese sostenute dai controricorrenti nel presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente alla rifusione in favore dei controricorrenti delle spese di legittimità che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misure del 15% e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 20 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 giugno 2020

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