Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12637 del 12/05/2021

Cassazione civile sez. lav., 12/05/2021, (ud. 13/01/2021, dep. 12/05/2021), n.12637

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26009/2019 proposto da:

A.E., + ALTRI OMESSI, tutti elettivamente domiciliati

in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 209, presso lo studio

dell’avvocato LUCA SILVESTRI, rappresentati e difesi dall’avvocato

ERNESTO MARIA CIRILLO;

– ricorrenti –

contro

ALMAVIVA CONTACT S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI DUE MACELLI 66,

presso lo studio dell’avvocato GIAMPIERO FALASCA, che la rappresenta

e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2819/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 01/07/2019 R.G.N. 161/2019;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/01/2021 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VISONA’ Stefano, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato ERNESTO MARIA CIRILLO;

udito l’Avvocato GIAMPIERO FALASCA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza del 1.7.2019, la Corte d’appello di Roma confermava la decisione del Tribunale di Roma – salvo che sulle spese di lite, che erano compensate per il doppio grado -, che aveva confermato l’ordinanza di rigetto della domanda dei lavoratori epigrafati, intesa all’accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimato ai predetti, ordinanza emessa all’esito della prima fase del procedimento ex lege Fornero.

2. La Corte distrettuale osservava che i lavoratori, dipendenti a tempo indeterminato della società con mansioni di operatori di call center in servizio presso l’unità produttiva di (OMISSIS), erano stati licenziati all’esito della procedura di licenziamento collettivo avviata con comunicazione del 5.10.2016 (dopo la revoca di precedente procedura) con la quale era stato dichiarato l’esubero di 1623 posizioni full time equivalent corrispondenti a 2511 lavoratori, dislocati presso le sedi operative di (OMISSIS) (1.666 lavoratori) e di (OMISSIS) (845 lavoratori).

3. Rilevava che l’accertata crisi, determinata da una forte riduzione dei ricavi, aveva reso necessario il nuovo progetto riorganizzativo dei siti produttivi, con previsione di misure, quali la chiusura delle unità produttive di (OMISSIS) (limitatamente alle Divisioni (OMISSIS)) e di (OMISSIS), il consolidamento, ove possibile, delle attività svolte in tali siti presso altre sedi secondo logiche di contenimento dei costi, azioni di efficientamento dell’unità produttiva di (OMISSIS) e che, non essendo più possibile fare ricorso a nuovi ammortizzatori sociali, nella comunicazione di avvio della procedura si dava atto che i criteri di scelta sarebbero stati applicati comparando il personale operante con profilo equivalente all’interno dei siti produttivi interessati dagli esuberi. Ognuno di tali siti aveva, invero, caratteristiche tali da rendere infungibili le risorse ivi presenti con il personale collocato presso altre sedi, in quanto le commesse non potevano essere agevolmente spostate da un sito all’altro senza l’attuazione di interventi formativi e logistici. Per i lavoratori della sede di (OMISSIS), in sede di riunione presso il MISE, del 21.12.2016, era stata disposta la prosecuzione del confronto sino al 31.3.2017, con attivazione della CIGS al fine di consentire l’individuazione di eventuali soluzioni di carattere strutturale in relazione all’esubero.

4. Evidenziava, poi, che l’accordo era stato raggiunto all’esito di un incontro in sede amministrativa al quale avevano partecipato, oltre agli esponenti di parte pubblica e della società, le OO.SS. nazionali SLC CGIL, FISTEL, CISL, UILCOM UIL e UGL Telecomunicazioni, la rappresentanza delle strutture sindacali territoriali e delle RSU, nonchè la rappresentanza delle Istituzioni locali delle Regioni Campania e Lazio e che il verbale era stato firmato da tutti i presenti, eccetto che dalle RSU di (OMISSIS), ciò che tuttavia non conduceva a ritenere riferita la dichiarazione congiunta alla sola sede di (OMISSIS) e non anche a quella di (OMISSIS). Ed infatti, il punto 12 dell’Accordo non poteva essere considerato quale mera dichiarazione unilaterale della società, avulsa dall’Accordo secondo una esegesi del testo rispettosa della piana lettura dello stesso e della sequenza numerata delle clausole che anticipavano le dichiarazioni congiunte di positivo esito dell’accordo, rese dalle parti firmatarie dello stesso, a ciò non ostando la mancata sottoscrizione da parte della RSU di (OMISSIS). L’atto era stato firmato, infatti, da tutte le organizzazioni sindacali nazionali a garanzia della piena rappresentatività delle platea dei lavoratori indicata nella comunicazione di avvio della procedura.

5. La Corte capitolina reputava correttamente enunciate dalla società le ragioni per le quali non erano stati ritenuti applicabili i criteri di scelta all’intero organico aziendale, in ragione della rilevata distanza geografica delle unità produttive interessate con gli altri ambiti aziendali, della necessità di modifiche organizzative complesse, dei prevedibili tempi di attuazione e delle caratteristiche di ciascun sito produttivo, che ne rendeva infungibili le risorse in ciascuno presenti.

6. Osservava che anche dall’istruttoria orale era emerso che gli operatori outbound avevano professionalità diverse da quelle degli operatori inbound e che ciò avrebbe reso difficoltoso l’avvio dell’attività a regime nei diversi siti.

7. Ritenuta la ragionevolezza di tale scelta, la Corte rilevava, altresì, che alcune delle commesse erano state concentrate presso le sedi di (OMISSIS) e (OMISSIS) e che non esistevano all’epoca di avvio della procedura altre commesse aventi ad oggetto attività inbound attive presso la sede di (OMISSIS), non avendo poi rilievo l’evenienza che sulla commessa ENI fossero stati impiegati lavoratori in somministrazione in attesa del completamento della formazione di ulteriori dipendenti già in servizio presso la sede di (OMISSIS), cui all’esito la commessa era stata integralmente affidata.

8. Quanto alla deduzione di mancato accertamento della violazione della normativa di cui alla L. n. 68 del 1999, in relazione alla quota delle cosiddette categorie protette, la Corte capitolina osservava che gli istanti non avevano offerto prova che i lavoratori dei quali erano stati indicati i nominativi fossero stati assunti nell’ambito dell’avviamento obbligatorio al lavoro dei soggetti portatori di handicap, nè che fossero stati altrimenti computati dalla società nelle quote che si assumevano violate. In ogni caso rilevava la genericità dell’eccezione formulata al riguardo, per non essere stato riportato alcun dato di fatto riferito al numero dei lavoratori appartenenti alle categorie protette eventualmente impiegati nel complesso aziendale.

9. In ordine alle censure sul carattere discriminatorio e ritorsivo del licenziamento, evidenziava la mancanza di ogni deduzione sulla sussistenza in capo ai lavoratori di un fattore di rischio specifico e, quanto alla ritorsività, osservava che i contenuti di un eventuale accordo raggiunto per la sede di (OMISSIS) non erano affatto determinati e sarebbero stati il frutto di una successiva trattativa, sicchè quello che le RSU romane avevano rifiutato non era un accordo sui temi relativi alla riduzione di retribuzioni e t.f.r., avendo solo negato la disponibilità a proseguire nella trattative su tali temi.

10. Di tale decisione domandano la cassazione i lavoratori, affidando l’impugnazione a sette motivi, cui resiste, con controricorso, la società.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, i ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., nonchè dell’art. 111 Cost., comma 2; violazione del principio di tipicità della prova; omessa decisione circa un punto decisivo della causa, ossia la mancata statuizione circa l’ammissione della prova orale – di cui richiamano i capitoli sui quali si appuntava la denegata istruttoria richiesta – osservando che, a chiusura della discussione, l’acquisizione delle testimonianze rese in altro procedimento sia avvenuta una volta esaurito il contraddittorio, essendosi il giudice del reclamo avvalso in modo improprio delle prove formatesi altrove.

2. Con il secondo motivo, lamentano violazione della L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 1, artt. 1322,1362,1363,1367,1368,2967 c.c., L. 300 del 1970, art. 19 e dell’art. 3 del c.c.n.l. di categoria, sul rilievo che la gravata sentenza violi i principi contrattuali e di ermeneutica anche in relazione alla L. n. 223 del 1991, disattenda “la normativa sull’autonomia delle rappresentanze sindacali aziendali anche in relazione ai contratti di categoria, con motivazione illogica e contraddittoria, laddove, pur ammettendo il dissenso delle RSU romane, giunge a ritenere che la presenza di un unico (formale) verbale di accordo, benchè si discuta di due distinte sedi, porti a negare un mancato accordo per i soli (lavoratori) romani”.

3. Quale terzo motivo, asseritamente connesso al primo, è dedotto l’omesso esame su un punto decisivo della controversia, indicandosi come erronea l’interpretazione dell’accordo del 23.12.2016 fornita dalla Corte e censurandosi la correttezza dell’applicazione dei criteri ermeneutici validi in sede di esegesi delle norme contrattuali. In particolare, si assume che la Corte distrettuale non avrebbe dovuto indagare in ordine alla incontestata esistenza dell’accordo, ma, invece, accertare se fosse stato concordato uno specifico criterio sindacale in deroga a quello legale afferente agli esuberi della sede di (OMISSIS).

3.1. Sostengono i ricorrenti che la Corte abbia omesso di dare una lettura complessiva dell’accordo ai sensi dell’art. 1363 c.c., non considerando che le clausole di cui ai nn. 10 ed 11 prevedevano due impegni programmatici e che, anche per il punto 12, non era presente l’espressione “Le parti convengono”, sicchè doveva ritenersi che fosse stato assunto un impegno unilaterale della società.

3.2. Osservano, inoltre, che l’argomento che non potesse che essere redatto un unico verbale non prova che per la sede di (OMISSIS) l’esito della procedura fosse stato nel senso di un raggiunto accordo, come provato dalla mancata condivisione, da parte della Rsu della stessa sede, dei contenuti dell’intesa e dalla asseverazione, da parte del Ministero, che dichiarava esperita con accordo limitatamente all’ambito territoriale di (OMISSIS) (“ambito territoriale sopra indicato”) la fase amministrativa. Aggiungono che, anche a volere ritenere che le parti intendessero come riferito l’accordo anche alla sede di (OMISSIS), in ogni caso il punto dirimente sia rappresentato dalla circostanza che non sono stati in alcun modo concordati criteri sindacali alternativi a quelli legali, non potendo ritenersi che la prevista applicazione dei detti criteri alla medesima unità produttiva indichi la decisione congiunta di azienda e sindacati di non applicare i criteri legali, ma quelli negoziali che consentono di escludere i criteri del carico di famiglia e dell’anzianità di servizio. Sostengono che il modo di procedere dell’azienda, ossia la delimitazione della platea dei licenziandi alla sede di (OMISSIS), sia stato il frutto di un modus operandi che non aveva affatto avuto riguardo alle esigenze tecnico organizzative, essendo stato il criterio scelto privo di generalità ed astrattezza ed essendo risultata la platea delimitata da un fatto concreto e specifico quale il dissenso prestato dalla rappresentanza specifica dell’unità romana, di per sè discriminatorio.

4. Con il quarto motivo, i ricorrenti si dolgono della violazione della L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 1, anche in relazione alla nuova formulazione dell’art. 2103 c.c., sul concetto giuridico di “equivalenza”.

5. Con il quinto motivo, asseritamente connesso al precedente, ascrivono alla decisione impugnata l’omesso esame su un punto decisivo della controversia, assumendo che essi lavoratori erano totalmente fungibili con i colleghi (OMISSIS), in quanto addetti alle medesime attività di Operatori Call Center e Team Leader e sulle medesime commesse, sicchè la procedura doveva coinvolgere anche dette sedi.

6. Con il sesto motivo, i ricorrenti addebitano alla decisione impugnata violazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 e dell’art. 2120 c.c., degli artt. 1966 e 2113 c.c., con riferimento alla illegittima delimitazione del bacino di ballottaggio ai lavoratori addetti alla Divisione (OMISSIS) in ragione del dissenso manifestato dalle RSU, nonostante la fungibilità delle mansioni di tutti gli addetti ai call center delle altre sedi e la comunanza della procedura con la sede di (OMISSIS), sostenendo che la Corte non abbia correttamente valutato che la discriminazione discendeva dall’avere Almaviva negato la cassa integrazione guadagni ai lavoratori della sede di (OMISSIS) per avere conferito rilievo ad un dissenso delle RSU, espressione di libertà sindacale, con effetto punitivo e condivisione di una logica di abuso negoziale.

7. Con il settimo motivo, i ricorrenti denunziano violazione della L. n. 68 del 1999, in relazione agli invalidi ed alle cd. categorie protette, violazione e falsa applicazione del principio di prossimità o vicinanza della prova e dell’art. 2697 c.c., adducendo che, in relazione ai lavoratori indicati nel motivo di reclamo, stante la mancata contestazione della controparte, doveva ritenersi che ne fosse provata l’appartenenza alle categorie tutelate per legge e che le difese della società non coglievano nel segno, a nulla valendo sostenere che la società era esonerata dall’obbligo di assunzione di nuovi lavoratori appartenenti alle categorie protette, posto che ciò non implicava il corrispondente esonero dal divieto di licenziamento di tali lavoratori, laddove esso portasse al superamento negativo della quota di riserva. Sostengono l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto validamente contestata la circostanza allegata dai ricorrenti, per avere il giudice del gravame ritenuto che la documentazione prodotta riguardava solo un numero ristretto di ricorrenti asseritamente rientranti nel collocamento obbligatorio e che la documentazione de qua dimostrasse solamente che taluni di essi erano stati riconosciuti affetti da invalidità, con effetti rilevanti ai fini di altre normative (es. L. n. 104 del 1992), peraltro in date successive all’assunzione e, comunque, per percentuali che non ne avrebbero consentito il computo diretto. Contestano la motivazione della sentenza anche nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto che non sia stata fornita la prova che, alla data del licenziamento, tali lavoratori fossero computati dalla società nelle quote previste dalla normativa sul collocamento obbligatorio, nonchè per avere ritenuto generica la relativa eccezione per mancata indicazione di alcun dato di fatto, ed osservano che la contestazione della controparte non poteva riferirsi a fatti non esplicitamente dedotti.

8. Quanto al primo motivo, la Corte distrettuale ha rilevato, a pag. 15 della sentenza, come la reale sussistenza delle evidenziate necessità formative e dei tempi relativi, ostativi alla considerazione di una bacino di comparazione allargato all’intera azienda, risultasse confermata dal quadro istruttorio vagliato dal Tribunale (“verbale udienza del 4.7.2018, ma v. anche verbali dell’istruttoria svolta in altro giudizio analogo nel fascicolo telematico”), in particolare con richiamo alle deposizioni dei testi P. e G.M., e ciò contraddice quanto rilevato nella censura che, peraltro, impropriamente richiama la violazione dell’art. 2909 c.c., relativo all’efficacia dell’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato tra le parti ed i loro aventi causa, così come non pertinente risulta il richiamo alle altre norme – di cui si assume la violazione sulla ripartizione dell’onere probatorio e sulla valutazione delle risultanze istruttorie.

8.1. Con riferimento alla questione, pure sollevata, dell’individuazione del valore probatorio del materiale istruttorio acquisito in altro procedimento, se ne sostiene costantemente il valore indiziario (per tutte, v. Cass. 14122/2004, 11652/2002, 2149/2002, 11105/2001, 8063/2001, 8063/2001, 10041/2000, 4503/2000, 852/1999), affermandosi che il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purchè idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato – con le altre risultanze del processo (cfr. Cass. 25.3.2004 n. 5965).

8.2. Il giudice del gravame si è attenuto a tali principi nel conferire alle dichiarazioni testimoniali assunte in altro processo valore indiziario, ritenendo nella sostanza che le stesse siano state confermate da ulteriori prove acquisite nel contraddittorio delle parti, che non ne hanno in alcun modo contraddetto la portata. Va anche considerato che sulla base delle risultanze complessivamente valutate la Corte distrettuale ha valutato l’estrema difficoltà di operare trasferimenti collettivi tra sedi geograficamente distanti ed ha rilevato come al trasferimento dei lavoratori non corrispondesse necessariamente anche un trasferimento delle commesse cui gli stessi erano adibiti e che all’epoca di avvio della procedura non esistevano altre commesse aventi ad oggetto attività inbound attive presso la sede di (OMISSIS).

Infine, va richiamato il principio in forza del quale il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci la mancata ammissione di un mezzo istruttorio, è onerato, a pena d’ inammissibilità del ricorso per violazione del principio di autosufficienza che risulta ora tradotto nelle puntuali e definitive disposizioni contenute nell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, non solo della specifica indicazione del mezzo istruttorio richiesto e della chiara indicazione del nesso eziologico tra l’errore denunciato e la pronuncia emessa in concreto, ma anche della puntuale indicazione e trascrizione del contenuto del provvedimento censurato, così da rendere immediatamente apprezzabile dalla Suprema Corte il vizio dedotto (cfr. Cass. n. 14107 del 07/06/2017).

9. I successivi due motivi, vanno anch’essi disattesi, in ragione del rilievo che con gli stessi si prospetta una interpretazione dell’accordo meramente contrappositiva rispetto alla plausibile interpretazione fornita dalla Corte distrettuale, ad onta del riferimento a singoli canoni ermeneutici dei quali non viene indicata la precisa intervenuta violazione, se non nell’ambito di una valutazione che strumentalmente viene ancorata alla dedotta violazione, senza una specifica censura di applicazione erronea del criterio ermeneutico esaminato, con indicazione del modo in cui il giudice se se ne sia discostato.

9.1. L’accordo raggiunto con la maggioranza delle rappresentanze sindacali doveva contenere, a pena di nullità, secondo i ricorrenti, regole uguali per tutti i lavoratori coinvolti nella procedura dalla comunicazione di apertura, non essendo consentito introdurre criteri di scelta differenziati in ragione di accordi differenziati con diverse OO.SS.. Tuttavia, anche in relazione a tale rilievo non si ricade nelle ipotesi cui si riferiscono le violazioni dedotte con richiamo a specifiche norme, in quanto il criterio prescelto in sede di accordo sindacale era quello delle esigenze tecnico organizzative, cui era dato preminenza, criterio idoneo a delimitare l’ambito territoriale della scelta con riguardo alle singole sedi, essendo la prosecuzione delle trattative per la sede di (OMISSIS) altro rispetto a quanto delineatosi in sede di confronto per la sede di (OMISSIS), diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, in modo affatto indipendente dalla mancata condivisione dell’accordo da parte delle r.s.u. della indicata sede aziendale, come argomentatamente evidenziato dal giudice del gravame.

9.2. In ordine al richiamo effettuato all’art. 3 del CCNL di categoria, la norma ha riguardo alle richieste di rinnovo degli accordi aziendali e prevede la possibilità che il contenuto economico e normativo siglato dalla maggioranza dei componenti delle RSU elette secondo le regole interconfederali vigenti abbia piena vincolatività per tutto il personale in forza e nei confronti delle associazioni sindacali, ma ciò è altro rispetto all’affermazione che, anche in assenza di firma delle RSU locali romane, ma in presenza di sottoscrizione da parte delle altre parti firmatarie dotate di potere rappresentativo, la validità dell’accordo pure per la sede romana dovesse ritenersi pacifica in sede di conclusione della procedura di cui alla L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 24 e della procedura di consultazione sindacale ai sensi del D.Lgs. n. 148 del 2015, art. 24, riguardanti, come correttamente specificato nella sentenza impugnata, la globalità delle materie su cui era stato condotto il confronto sindacale.

10. In continuità con la censure di cui al motivo da ultimo scrutinato, anche con il quarto e quinto motivo, da trattarsi congiuntamente tra loro e con parte della censura di cui al terzo motivo per la parte che attiene alla medesima questione, su cui si fonda la reciproca connessione, si denunzia la violazione della L. n. 223 del 1991, art. 5, contestandosi la valutazione di fungibilità operata dalla Corte del merito, ma, nella sostanza riconducendo il vizio della sentenza alla limitazione alla sola sede di (OMISSIS) della platea dei lavoratori tra i quali effettuare la comparazione. E ciò anche per gli aspetti che vengono ricondotti al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.

10.1. La Corte territoriale ha ritenuto che le ragioni dell’infungibilità con lavoratori addetti ad altre sedi non interessate dagli esuberi erano contenute nelle indicazioni contenute nella comunicazione di avvio della procedura di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, del 5.10.2016, ove era chiarito che la professionalità degli addetti alla sede di (OMISSIS) era infungibile rispetto a quella degli addetti alle sedi non eccedentarie, reputando, quindi, legittima la scelta di non coinvolgere questi ultimi nella procedura di licenziamento collettivo. I giudici di seconde cure hanno proceduto, quindi, all’accertamento ad essi devoluto correttamente, sui due piani di analisi richiesti dalla legge: quello della individuazione dell’unità o del reparto da sopprimere e quello della fungibilità dei lavoratori addetti agli stessi (cfr. da ultimo, Cass. 11.12.2019 n. 32387, Cass. 7.1.2020 n. 118). Ciò, peraltro, senza attribuire carattere decisivo alla sola lontananza geografica delle altre sedi presso le quali avrebbero potuto essere trasferiti i dipendenti coinvolti ma ritenendo preclusive alla comparazione tra tutti i lavoratori dislocati sul territorio ragioni organizzative integrate da necessità di formazione con ulteriori esborsi per far fronte agli oneri economici necessari per la formazione indispensabile per l’adibizione a nuove commesse lavorate presso altre sedi, con reali difficoltà dovute alla diversità delle attività espletata dagli operatori inbound, più complessa di quella espletata dagli operatori outbound, alla differenziazione degli orari presso le altre sedi, alla impossibilità che al trasferimento dei lavoratori seguisse anche il trasferimento della commessa cui in precedenza gli stessi erano adibiti.

10.2. D’altro canto non era neanche emerso, come evidenziato dal giudice del gravame, che i lavoratori della sede di (OMISSIS) fossero idonei, per acquisita esperienza e per pregresso e frequente svolgimento della propria attività in altri reparti, a svolgere attività diverse, con necessità in tal caso di ampliare la scelta dei dipendenti da licenziare.

10.3. Giova, poi, muovere da un principio orientativo unanimemente condiviso: la cessazione dell’attività è scelta dell’imprenditore, che costituisce esercizio incensurabile della libertà di impresa garantita dall’art. 41 Cost. (Cass. 22 dicembre 2008, n. 29936). Sicchè, la procedimentalizzazione dei licenziamenti collettivi che ne derivino, secondo le regole dettate per il collocamento dei lavoratori in mobilità dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, applicabili per effetto dell’art. 24 della stessa Legge, ha la sola funzione di consentire il controllo sindacale sulla effettività di tale scelta (Cass. 22 marzo 2004, n. 5700; Cass. 6 settembre 2019, n. 22366).

10.4. E la previsione della L. n. 223 del 1991 cit., artt. 4 e 5, di una puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda; sicchè, i residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più gli specifici motivi di riduzione del personale, ma la correttezza procedurale dell’operazione (compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso): con la conseguente inammissibilità, in sede giudiziaria, di censure intese a contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5, senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, che investano l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva (Cass. 6 ottobre 2006, n. 21541; Cass. 3 marzo 2009, n. 5089; Cass. 26 novembre 2018, n. 30550).

10.5. Sulla base di questa premessa condivisa occorre allora scrutinare la legittimità dell’operazione compiuta da Almaviva Contact s.p.a., che ha aperto la procedura di mobilità nei termini già indicati nella parte riservata alla esposizione della vicenda per cui è causa.

10.5.1. In applicazione del principio generale su enunciato, va subito detto che le ragioni tecniche, organizzative e produttive, salva la ricorrenza delle ipotesi sopra indicate, non possono essere sindacate: invero neppure sono state oggetto di contestazione, avendone la sentenza impugnata dato atto.

Le questioni che si pongono all’esame di questa Corte attengono allora, in scansione logicamente sequenziale: a) alla completezza informativa della comunicazione di apertura; b) alla legittimità di individuazione della platea degli esuberi limitatamente a singole unità produttive (per quel che qui interessa: le due divisioni romane), anzichè in riferimento all’intero complesso aziendale; c) all’individuazione e applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori, anche in correlazione con la fungibilità o meno delle loro mansioni.

10.5.2. Come è noto, la comunicazione di apertura della procedura, con la quale l’impresa manifesti la volontà di esercitare la facoltà di procedere ad una riduzione del personale alle organizzazioni sindacali aziendali e alle rispettive associazioni di categoria (L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 2), deve contenere le indicazioni prescritte dall’art. 4, comma 3 L. cit. E segnatamente: a) i motivi che determinano la situazione di eccedenza; b) i motivi tecnici, organizzativi e produttivi per i quali non risultino possibili rimedi alternativi ai licenziamenti; c) il numero, la collocazione aziendale e i profili professionali del personale eccedente e di quello abitualmente impiegato; d) i tempi di attuazione del programma di riduzione del personale e delle eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale dei licenziamenti.

Essa deve, infatti, adempiere compiutamente l’obbligo di fornire le informazioni specificate dal citato art. 4, comma 3, così da consentire all’interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale, valutando anche la possibilità di misure alternative al programma di esubero: sicchè, l’inadeguatezza delle informazioni, che abbia potuto condizionare la conclusione dell’accordo tra impresa e organizzazioni sindacali secondo le previsioni del medesimo art. 4, determina l’inefficacia dei licenziamenti per irregolarità della procedura, a norma dell’art. 4, comma 12 (Cass. 16 gennaio 2013, n. 880; Cass. 3 luglio 2015, n. 13794). Ciò che comunque conta, in funzione dell’esercizio del controllo dell’iniziativa imprenditoriale concernente il ridimensionamento dell’impresa (non più, come detto, esercitato ex post dal giudice, ma) devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, è l’idoneità in concreto della comunicazione a renderle effettivamente edotte degli aspetti individuati nel citato art. 4, comma 3, in modo da escludere maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali (Cass. 18 novembre 2016, n. 23526, con richiamo, tra le altre, di: Cass. 6 ottobre 2006, n. 21541; Cass. 21 febbraio 2012, n. 2516).

Nel caso di specie, la Corte territoriale ha accertato la completezza della comunicazione di apertura del 5 ottobre 2016, ritenendola esaustiva per la sua ampia articolazione nei punti specificamente enumerati, sviluppati in numerosi passaggi della sentenza, sulla scorta di argomentazione congrua, a sostegno di un’interpretazione, riservata esclusivamente al giudice di merito, assolutamente plausibile (Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178; Cass. 3 settembre 2010, n. 19044), cui i ricorrenti hanno opposto un’interpretazione propria di parte a quella della Corte territoriale (Cass. 19 marzo 2009, n. 6694; Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 10 maggio 2018, n. 11254), così censurando il risultato interpretativo in sè (Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465; Cass. 26 maggio 2016, n. 10891), pertanto insindacabile in sede di legittimità. E ciò, come già detto, ad onta del riferimento a singoli canoni ermeneutici e con indicazione del modo in cui il giudice se se ne sia discostato.

10.5.3 In particolare, nella comunicazione in esame, Almaviva Contact s.p.a. ha specificamente circoscritto il progetto di ristrutturazione e ridimensionamento aziendale alle unità produttive di (OMISSIS) e (OMISSIS), indicando analiticamente le ragioni ostative ad un’estensione della comparazione al personale impiegato presso le unità produttive non toccate da tale progetto ((OMISSIS)): con delimitazione pertanto della platea “al personale operante con profilo equivalente all’interno di ciascuno dei siti produttivi interessati dagli esuberi ((OMISSIS) e (OMISSIS)), in ragione della chiusura totale delle Divisioni (OMISSIS) (per quanto riguarda (OMISSIS)) e dell’intero sito (per quanto riguarda (OMISSIS))”. In particolare, in essa si legge che “la società ritiene incompatibile con l’attuale situazione di grave criticità aziendale l’applicazione dei criteri di scelta all’intero organico aziendale”; e ciò per “la distanza geografica di queste due unità produttive dagli altri siti aziendali”, che renderebbe “insostenibile sul piano economico, produttivo e organizzativo l’applicazione dei criteri di scelta sull’intero organico aziendale, richiedendo tempi di attuazione e delle modifiche organizzative talmente complesse da compromettere il regolare svolgimento dei servizi… finendo per aggravare ulteriormente la situazione di squilibrio strutturale in cui versa l’azienda… “; inoltre, l’impossibilità di una comparazione del personale a livello dell’intera azienda è giustificata dall’avere “ciascun sito produttivo… caratteristiche tali da rendere infungibili le risorse ivi presenti con il personale collocato presso le altre sedi, in quanto le commesse… non possono essere agevolmente spostate da un sito all’altro (e quindi da una popolazione professionale all’altra) senza l’attuazione di interventi formativi, organizzativi e logistici incompatibili con la situazione economica in cui versa l’azienda” (come si legge nelle pagg. 9 e ss. della sentenza e, per l’ultima giustificazione, a pag. 14).

E’ risaputo che l’individuazione dei lavoratori da licenziare debba avvenire in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi o con accordi sindacali, ovvero, in mancanza, dei criteri, tra loro concorrenti, dei carichi di famiglia, di anzianità e (nuovamente) delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative (L. n. 223 del 1991, art. 5).

Sicchè, “in via preliminare, la delimitazione del personale “a rischio” si opera in relazione a quelle esigenze tecnico produttive ed organizzative che sono state enunciate dal datore con la comunicazione di cui all’art. 4, comma 3 cit.; è ovvio che, essendo la riduzione di personale conseguente alla scelta del datore sulla dimensione quantitativamente e qualitativamente ottimale dell’impresa per addivenire al suo risanamento, dalla medesima scelta non si può prescindere quando si voglia determinare la platea del personale da selezionare. Ma va attribuito il debito rilievo anche alla previsione testuale della norma secondo cui le medesime esigenze tecnico produttive devono essere riferite al “complesso aziendale”; ciò in forza dell’esigenza di ampliare al massimo l’area in cui operare la scelta, onde approntare idonee garanzie contro il pericolo di discriminazioni a danno del singolo lavoratore, in cui tanto più facilmente si può incorrere quanto più si restringe l’ambito della selezione… La delimitazione dell’ambito di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da porre in mobilità è dunque consentita solo quando dipenda dalle ragioni produttive ed organizzative, che si traggono dalle indicazioni contenute nella comunicazione di cui all’art. 4, comma 3, quando cioè gli esposti motivi dell’esubero, le ragioni per cui lo stesso non può essere assorbito, conducono coerentemente a limitare la platea dei lavoratori oggetto della scelta. Per converso, non si può, invece, riconoscere, in tutti i casi, una necessaria corrispondenza tra il dato relativo alla “collocazione del personale” indicato dal datore nella comunicazione di cui all’art. 4 e la precostituzione dell’area di scelta. Il datore infatti segnala la collocazione del personale da espungere (reparto, settore produttivo

), ma ciò non comporta automaticamente che l’applicazione dei criteri di scelta coincida sempre con il medesimo ambito e che i lavoratori interessati siano sempre esclusi dal concorso con tutti gli altri, giacchè ogni delimitazione dell’area di scelta è soggetta alla verifica giudiziale sulla ricorrenza delle esigenze tecnico produttive ed organizzative che la giustificano…. ove il datore, nella comunicazione di cui all’art. 4, indicasse che tutto il personale in esubero è collocato all’interno di un unico reparto, essendo solo questo oggetto di soppressione o di ristrutturazione, non sarebbe giustificato limitare l’ambito di applicazione dei criteri di scelta a quegli stessi lavoratori nel caso in cui svolgessero mansioni assolutamente identiche a quelle ordinariamente svolte anche in altri reparti, salva la dimostrazione di ulteriori ragioni tecnico-produttive ed organizzative comportanti la limitazione della selezione. Ed ancora, quando la riduzione del personale fosse necessitata dall’esistenza di una crisi che induca alla riduzione, genericamente, dei costi, non vi sarebbe, quanto meno in via teorica, alcun motivo di limitare la scelta ad uno dei settori dell’impresa, e quindi la selezione andrebbe operata in relazione al complesso aziendale. Con il che si può spiegare, nell’art. 5 citato, la duplicità – altrimenti scarsamente comprensibile – del richiamo alle “esigenze tecnico produttive ed organizzative”, perchè, nella prima parte, esse si riferiscono all’ambito di selezione, mentre, nella seconda parte, le medesime esigenze concorrono poi nel momento successivo, con gli altri criteri… alla individuazione del singolo lavoratore (salvo che non operino altri criteri concordati con i sindacati)…. pertanto, va dato rilievo non alla categoria di inquadramento, ma al profilo professionale… “(cfr. Cass. 19 maggio 2005, n. 10590, che ha ritenuto corretta la soluzione della Corte di appello di Roma, di valorizzazione dell’accordo sindacale nella parte in cui aveva individuato l’ambito dei reparti interessati dall’eccedenza di personale, con accertamento in fatto dell’inesistenza di posizioni lavorative fungibili e conseguente esclusione della possibilità di comparazione anche con gli altri operai, siccome in possesso di una diversa professionalità).

Nella prospettiva così prefigurata, questa Corte ha affermato, con indirizzo interpretativo consolidato: a) la legittima delimitazione della platea, qualora il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva, ben potendo le esigenze tecnico-produttive ed organizzative costituire criterio esclusivo nella determinazione della platea dei lavoratori da licenziare, purchè il datore indichi nella comunicazione prevista dall’art. 4, comma 3 citato sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti (Cass. 9 marzo 2015, n. 4678; Cass. 12 settembre 2018, n. 22178; Cass. 11 dicembre 2019, n. 32387); b) la funzione dell’accordo sindacale (che ben può essere concluso dalla maggioranza dei lavoratori direttamente o attraverso le associazioni sindacali che li rappresentino, senza che occorra l’unanimità) di determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, nella regolamentazione delegata dalla legge (come evidenziato dalla sentenza Corte Cost. 22 giugno 1994, n. 268), dovendo rispettare non solo il principio di non discriminazione (L. n. 300 del 1970, art. 15), ma anche il principio di razionalità, sicchè i criteri concordati devono avere caratteri di obiettività e di generalità, oltre che di coerenza con il fine dell’istituto della mobilità dei lavoratori (Cass. 20 marzo 2013, n. 6959; Cass. 5 febbraio 2018, n. 2694); c) la legittima limitazione della platea dei lavoratori interessati, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva o ad uno specifico settore dell’azienda, agli addetti ad essi sulla base soltanto di oggettive esigenze aziendali, purchè siano dotati di professionalità specifiche, infungibili rispetto alle atre (Cass. 11 luglio 2013, n. 17177; Cass. 12 gennaio 2015, n. 203; Cass. 1 agosto 2017, n. 19105; Cass. 11 dicembre 2019, n. 32387).

Ebbene, nel caso di specie, la Corte capitolina, con argomentazione congrua, articolata e attenta ad ogni sviluppo della fase negoziale (così risultando la sua interpretazione insindacabile in sede di legittimità, per le ragioni più sopra illustrate in riferimento alla comunicazione di apertura), ha accertato la conclusione di un accordo della società datrice con le organizzazioni sindacali sulla “limitazione di applicazione dei criteri legali alle sole sedi da sopprimere di (OMISSIS) e di (OMISSIS), meglio specificandolo come connesso all’adempimento da parte del datore dell’obbligo di esporre “le ragioni tecnico-produttive di tale scelta”… avendo anche analiticamente indicato le ragioni che non consentivano di estendere l’ambito di comparazione al personale con mansioni omogenee impiegato presso le unità produttive non toccate da tale progetto (come si legge sempre nelle pagg. 14 e 15 della sentenza impugnata): in corrispondenza con quanto comunicato nella lettera di apertura (“Si precisa sin d’ora che i criteri di scelta saranno applicati comparando il personale operante con profilo equivalente all’interno di ciascuno dei siti produttivi interessati dagli esuberi ((OMISSIS) e (OMISSIS)), in ragione della chiusura totale delle Divisioni (OMISSIS) (per quanto riguarda (OMISSIS)) e dell’intero sito (per quanto riguarda (OMISSIS)”). E ciò in applicazione della regola, secondo cui il principio previsto dalla L. n. 223 del 1991, artt. 5 e 24 (in base ai quali i criteri di selezione del personale da licenziare, ove non predeterminati secondo uno specifico ordine stabilito da accordi collettivi, devono essere osservati in concorso tra loro), se impone al datore di lavoro una loro valutazione globale, non esclude tuttavia che il risultato comparativo possa essere quello di accordare prevalenza ad uno e, in particolare, alle esigenze tecnico-produttive, essendo questo il criterio più coerente con le finalità perseguite attraverso la riduzione del personale: sempre che naturalmente una scelta siffatta trovi giustificazione in fattori obiettivi, la cui esistenza sia provata in concreto dal datore di lavoro e non sottenda intenti elusivi o ragioni discriminatorie (Cass. 19 maggio 2006, n. 11886).

Inoltre, la Corte d’appello ha ritenuto che tale accordo non sia discriminatorio, nè contrario a ragionevolezza (Cass. 20 marzo 2013, n. 6959).

Non appare poi corretto il riferimento, pure adombrato, ad una sorta di identificazione “fotografica” dei dipendenti prescelti, posto che essa si configura nell’ipotesi, qui non ricorrente, di una comunicazione datoriale contenente soltanto i nomi dei licenziandi e le relative qualifiche, un semplice cenno a precedenti incontri con le organizzazioni sindacali, solo marginalmente relativi ai motivi tecnici della necessaria riduzione, in violazione delle dettagliate prescrizioni, funzionali alla valutazione da parte sindacale dell’opportunità di chiedere l’esame congiunto della situazione e dei possibili rimedi (Cass. 30 ottobre 1997, n. 10716; Cass. 29 dicembre 2004, n. 24116).

Benchè la questione in esame potesse già ritenersi risolta, la Corte capitolina si è tuttavia onerata di rispondere alla doglianza di non ragionevolezza della limitazione della platea dei lavoratori da licenziare.

E ciò ha fatto, sempre con argomentazioni adeguate e coerenti con la fattispecie in esame ed i principi di diritto regolanti la materia, sul ravvisato presupposto della distanza geografica (oltre cinquecento chilometri) di queste due unità produttive dagli altri siti aziendali (criterio ritenuto sufficiente da: Cass. 31 luglio 2012, n. 13705), combinato con quello della infungibilità delle mansioni.

Secondo l’insegnamento giurisprudenziale di legittimità sopra richiamato, qualora la ricorrenza delle effettive ragioni tecnico-produttive e organizzative sia stata giustificata (e comunicata), la delimitazione della platea è legittima, ove appunto non sia trascurato, nella scelta dei lavoratori impiegati nel sito soppresso o ridotto, “il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative” (così: Cass. 11 luglio 2013, n. 17177, in motivazione con ampi richiami di precedenti conformi; cui adde: Cass. 19 maggio 2005, n. 10590; Cass. 9 marzo 2015, n. 4678; Cass. 12 settembre 2018, n. 22178).

Nel caso di specie, l’infungibilità delle mansioni è stata individuata nella peculiarità di ogni sito produttivo, in ragione delle commesse trattate (in particolare: Trenitalia, Eni), ognuna esigente una diversa e specifica formazione: dovendo il personale inbound avere una conoscenza della committente, tale da porlo in grado di rispondere alle domande della clientela telefonica, specificamente calibrate sul servizio reso, nè consistendo l’attività di addetti al settore interno, appunto inbound, in una omogenea e neutrale ricezione di telefonate. E ciò per l’impossibilità di un loro agevole spostamento dall’uno all’altro sito (e quindi da una popolazione professionale all’altra), senza l’attuazione di interventi formativi, organizzativi e logistici incompatibili con la situazione economica dell’azienda, in quanto ritenuta insostenibile sul piano economico, produttivo e organizzativo, richiedendo tempi di attuazione e delle modifiche organizzative talmente complesse da compromettere il regolare svolgimento dei servizi e finendo, in tal modo, per aggravare ulteriormente la situazione di squilibrio strutturale in cui versa l’azienda (cfr. pag. 15 della sentenza impugnata).

Occorre poi osservare come l’esigenza formativa di ogni lavoratore, se comporta, da una parte, un costo indubbio per l’azienda, induca, dall’altra, per il primo l’acquisizione di un bagaglio di conoscenze e di esperienze nuovo, che ne diversifica e incrementa la professionalità, così rendendolo idoneo a mansioni che non sono più omogenee alle precedenti svolte. Sicchè, l’equivalenza delle mansioni, tale da configurare un mero passaggio indifferenziato tra lavoratori su diverse commesse, neppure risponde a un dato di realtà.

In ogni caso, esso costituisce accertamento in fatto, che il giudice di merito, cui è riservato in via esclusiva, ha compiuto dandone adeguato conto, in esatta applicazione dei principi di diritto enunciati: pertanto, esso è insindacabile in sede di legittimità.

Infine, neppure calza il riferimento, sempre nel caso in cui sia mancato l’accordo con i sindacati sui criteri di scelta, all’irrilevanza dei costi aggiuntivi connessi al trasferimento del personale già assegnato alle sedi soppresse siccome argomento estraneo al tenore testuale della L. n. 223 del 1991, art. 5 (Cass. 11 luglio 2013, n. 17177; Cass. 11 dicembre 2019, n. 32387).

Nel caso di specie, non si tratta, infatti, di singoli e ben individuati trasferimenti personali, bensì di 1.666 lavoratori, e quindi di un trasferimento collettivo, il quale presuppone una procedura concordata in sede sindacale con formazione di graduatorie redatte in base a criteri predeterminati (Cass. 23 novembre 2010, n. 23675; Cass. 19 marzo 2014, n. 6325); ma le organizzazioni sindacali neppure si sono mostrate interessate alle misure organizzative (anche trasferimenti, se compatibili con le esigenze aziendali), per le quali la società aveva dichiarato la propria disponibilità (al punto V della comunicazione di apertura del 5 ottobre 2016), non raccolta dalle prime.

L’alternativa prospettata (anche se poi non concretamente praticata dai lavoratori neppure nella limitata forma proposta dall’impresa di disponibilità, comunicata con la lettera di recesso, di revocare, in via collaborativa per ridurre sia pure minimamente l’impatto sociale, fino a settantacinque licenziamenti nei confronti dei lavoratori richiedenti per iscritto di essere trasferiti presso i siti di (OMISSIS): risultati soltanto diciassette) è stata rappresentata, per l’entità della sua dimensione, fin dalla comunicazione di apertura della procedura, come insostenibile sul piano economico, produttivo e organizzativo, siccome esigente tempi di attuazione e modifiche organizzative talmente complesse da compromettere il regolare svolgimento dei servizi, con aggravamento ulteriormente della situazione di squilibrio strutturale dell’azienda.

Sicchè, di fronte ad una situazione, comunicata in modo esplicito ed esauriente alle organizzazioni sindacali e con le stesse negoziata, talmente grave da pregiudicare la stessa sostenibilità dell’attività d’impresa e quindi da comportarne la cessazione, qualora diversamente affrontata, risulta inammissibile (come anticipato all’esordio del ragionamento motivo) ogni censura intesa ad investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva (nè tanto meno di ragioni per una diversa allocazione delle commesse nell’ambito della propria organizzazione territoriale), senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e di un’adozione discriminatoria dei lavoratori delle procedure: ciò davvero impingendo direttamente sulla libertà di iniziativa di impresa, garantita dall’art. 41 Cost..

10.5.4. Il ragionamento argomentativo svolto ha il suo coerente sviluppo finale nella conclusione di una corretta individuazione ed applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori.

Infatti, la limitazione alla sola platea dei lavoratori inbound delle due divisioni romane, per accordo sindacale e comunque per ragionevole misura in riferimento alla verificata infungibilità delle mansioni svolte dai predetti e con quelle del personale inbound delle altre sedi, ha comportato l’adozione (comunicata sia in sede di apertura che di chiusura della procedura di mobilità, a norma della L. n. 223 del 1991, art. 4, commi 3 e 9: Cass. 28 ottobre 2009, n. 22825) di un criterio (puntualmente indicato anche nelle modalità applicative, oltre che nell’individuazione dei criteri di selezione del personale, anche nella specificazione del suo concreto modo di operare: Cass. 19 settembre 2016, n. 18306; Cass. 10 ottobre 2018, n. 25100), diverso da quelli legali operanti sull’intero complesso aziendale, consistente nelle esigenze tecnico-produttive e organizzative (legittimo, ancorchè difforme da quelli, perchè rispondente a requisiti di obiettività e razionalità: Cass. 20 febbraio 2013, n. 4186; Cass. 28 marzo 2018, n. 7710; Cass. 10 ottobre 2018, n. 25100).

Ed esso ne assorbe ogni altro, posto che, per effetto della deliberata chiusura delle due divisioni romane, tutti i lavoratori addetti ad esse sono stati licenziati, ad eccezione di quarantaquattro lavoratrici madri, per il divieto posto dal D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54.

10.5.5. Quanto al richiamo alla novella dell’art. 2103 c.c., che imporrebbe di considerare la circostanza che vi erano dipendenti delle altre sedi d’Italia che avevano lo stesso livello e la stessa qualifica degli istanti, tutti fungibili sotto il profilo oggettivo, deve rilevarsi che con la novella richiamata si passa dal potere di adibizione “a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte”, previsto dalla precedente disciplina, alla possibilità di assegnare il lavoratore “a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte” secondo il nuovo regime. Ma ciò è altro rispetto a quanto previsto nell’accordo di cui si discute, che abilitava a stabilire i criteri da seguire nell’ambito della procedura di licenziamento collettivo, anche in deroga ai criteri legali, sempre nel rispetto dei requisiti di obiettività, razionalità e non discriminazione. In ultima analisi, la disciplina dei licenziamenti collettivi comporta un piano valutativo diverso da quello proprio dell’equivalenza delle mansioni e della tutela garantita al lavoratore nei casi di dequalificazione che si consumino oltre il livello di inquadramento – ovvero oltre l’assegnazione a mansioni inferiori consentite – nonchè nelle più gravi ipotesi di demansionamento, cioè di svuotamento delle mansioni, in relazione alle quali è configurabile una responsabilità datoriale.

11. In ordine al sesto motivo, l’onere della prova del carattere ritorsivo del licenziamento grava sul lavoratore e si tratta di prova certamente non agevole, in quanto diretta a dimostrare un atteggiamento della volontà datoriale, cioè l’intento ritorsivo, nonchè il ruolo determinante dello stesso alla base della decisione di recesso;

la prova può essere fornita attraverso presunzioni, e a tale riguardo può attribuirsi valore indiziario all’inesistenza della ragione formalmente addotta a giustificazione del recesso (Cass. n. 17087 del 2011) e, in caso di licenziamento collettivo, anche alla violazione dei criteri di scelta (Cass. n. 23149 del 2017). Nel caso in esame, la Corte d’appello ha respinto la domanda di nullità del licenziamento sul presupposto che i lavoratori non avessero allegato i fatti da cui desumere la natura ritorsiva dello stesso e non avessero assolto all’onere di prova del motivo illecito determinante Non è poi idoneamente censurata la ratio decidendi secondo cui era da escludere che la posizione assunta dalle r.s.u. della sede di (OMISSIS) potesse trovare legittima giustificazione in elementi di fatto relativi alla posizione di compromesso raggiunta dai lavoratori di (OMISSIS) per effetto di accordi relativi alla riduzione del trattamento retributivo, elementi indicati come ancora insussistenti al momento del rifiuto della sottoscrizione dell’accordo, e, quanto alla discriminatorietà, è stato argomentatamente escluso che ricorresse alcuna delle ipotesi integranti violazione di specifiche norme di diritto interno o di diritto Europeo quali quelle di cui alla Direttiva 76/207/CE. Il motivo dell’appartenenza sindacale che si assume richiamata in sede di reclamo nelle argomentazioni a supporto dell’impugnazione è stato implicitamente ritenuto irrilevante, in quanto nella fase di merito è stato conferito rilievo ad una circostanza che esulava dalla stretta riferibilità del motivo di esclusione dalla CIGS a tale appartenenza o a ragioni sindacali propriamente intese e, come già evidenziato, la specifica ratio non risulta censurata.

12. L’ultimo motivo è inammissibile laddove si omette di trascrivere, per la parte di interesse, la memoria di costituzione della società, onde consentire di verificare che realmente la contestazione sui nominativi dei lavoratori e sull’appartenenza degli stessi alle categorie protette non vi fosse stata, così come si assume, in contrasto con quanto invece osservato dalla sentenza sulla adeguatezza della difesa della società in relazione alle affermazioni generiche che si leggevano nel ricorso. Peraltro, la Corte capitolina è pervenuta a ritenere non provata la violazione delle percentuali riservate alle assunzioni obbligatorie, attraverso una valutazione a sè riservata, della documentazione prodotta dalle parti ricorrenti, ritenuta non idonea anche in relazione alla non coincidenza, per molti dei nominativi indicati, del dato temporale della accertata invalidità, in ciò confermando quanto già rilevato dal primo giudice.

12.1 Nella sostanza, al di là della violazione di legge rubricata, il motivo scrutinato è essenzialmente inteso alla sollecitazione di una rivisitazione del merito della vicenda e alla contestazione della valutazione probatoria operata dalla Corte territoriale, sostanziante il suo accertamento in fatto, di esclusiva spettanza del giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità (Cass. n. 27197 del 2011; Cass. n. 6288 del 2011). E ciò per la corretta ed esauriente argomentazione, senza alcun vizio logico nel ragionamento decisorio, delle ragioni adottate dalla Corte territoriale, che ha ritenuto insussistente il fondamento della censura, per complessiva rilevata insufficienza degli elementi atti ad individuare il preciso numero dei lavoratori aventi diritto in quanto appartenenti alle categorie protette, ai fini della relativa incidenza nel computo della quota di legge.

13. Il ricorso, alla stregua delle esposte considerazioni, va respinto.

14. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza dei ricorrenti e sono liquidate in dispositivo.

15. Sussistono per i ricorrenti le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 5250,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge, nonchè al rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato D.P.R., ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2021

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