Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12632 del 25/06/2020

Cassazione civile sez. lav., 25/06/2020, (ud. 11/02/2020, dep. 25/06/2020), n.12632

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9466/2016 proposto da:

L.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MUZIO

CLEMENTI 62, presso lo studio dell’avvocato ROSANNA GERARDA

BISCEGLIE, rappresentato e difeso dall’avvocato PIERO BISCEGLIE;

– ricorrente –

contro

CEA COSTRUZIONI ELETTRICHE ABRUZZESI S.R.L., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

SAVOIA 80, presso lo studio dell’avvocato ELETTRA BIANCHI,

rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONIO PIMPINI;

ITAS ISTITUTO TRENTINO ALTO ADIGE PER ASSICURAZIONI – SOCIETA’ MUTUA

DI ASSICURAZIONI, quale società cessionaria dei rami di azienda

delle due branches italiane di RSA GROUP (ROYAL & SUN ALLIANCE

INSURANCE PLC e SUN INSURANCE OFFICE LTD), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

MONTE ZEBIO 28, presso lo studio dell’avvocato GAETANO ALESSI che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROSARIO ALESSI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1006/2015 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 08/10/2015, R.G.N. 458/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/02/2020 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO Alessandro, che ha concluso per l’inammissibilità, in

subordine per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato LUCA PARDINI per delega verbale avvocato PIERO

BISCEGLIE;

udito l’Avvocato ROSARIO ALESSI per delega verbale avvocato ANTONIO

PIMPINI;

udito l’Avvocato ROSARIO ALESSI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso 22/11/2010 L.E. conveniva in giudizio la C.E.A. s.r.l. innanzi al Tribunale di Chieti onde conseguire pronuncia di condanna della società datoriale al risarcimento del danno – patrimoniale e non patrimoniale – risentito per effetto dell’infortunio occorsogli in data 14/9/2004. Nell’espletare le mansioni a lui ascritte, era infatti salito su di un traliccio Enel – in assenza del compimento della preventiva doverosa operazione di richiesta di distacco della corrente elettrica da parte del capo squadra ed in assenza di dotazione dei dispositivi di controllo rimanendo così folgorato.

Costituitesi in giudizio, la C.E.A. s.r.l. e la R.S.A. Sun Insurance ltd dalla prima chiamata in causa, contestavano il fondamento della domanda chiedendone il rigetto.

Il primo giudice, in accoglimento delle domande attoree, liquidava in favore del ricorrente, la somma di Euro 72.118,87 a titolo di danno non patrimoniale, e di Euro 236.421,43 a titolo di danno patrimoniale, condannando in solido fra loro la CEA s.r.l. e la Società R.S.A. al pagamento delle spese di lite nella misura di Euro 27.022,5.

Adita dalla C.E.A. s.r.l. e dalla società R.S.A. con distinti ricorsi in appello successivamente riuniti, la Corte distrettuale, in parziale riforma di tale pronuncia, confermata nel resto, condannava la parte datoriale al pagamento della somma di Euro 84.395,84 a titolo di danno patrimoniale, nonchè alla rifusione delle spese di prime cure in favore del lavoratore che liquidava in Euro 12.750,00, compensando integralmente quelle del giudizio di gravame.

Nel pervenire a tale convincimento, la Corte distrettuale osservava che la liquidazione del danno patrimoniale derivante dalla menomazione della capacità di lavoro specifica, ritenuta ridotta dal giudice di prime cure nella misura del 100%, andava ridimensionata. L’ausiliare nominato nel pregresso grado di giudizio, aveva infatti acclarato che i postumi permanenti riportati dal dipendente erano incompatibili con l’attività svolta dall’infortunato, di operatore addetto al montaggio di cabine secondarie e posti di trasformazione su palo; ma gli stessi erano invece compatibili con altre tipologie di lavoro confacenti con le attitudini personali del lavoratore, tenuto conto dell’età, del sesso, del titolo di studi posseduto e della pregressa esperienza lavorativa, sia pure con alcune limitazioni.

La Corte di merito procedeva, quindi, alla rinnovata liquidazione del risarcimento del danno permanente alla capacità lavorativa specifica da lucro cessante, secondo i meccanismi della capitalizzazione anticipata della rendita Inail, facendo ricorso alle tabelle di cui al R.D. n. 1403 del 1922, e raddoppiando l’importo così determinato, in via equitativa.

La cassazione di tale decisione è domandata da L.E. sulla base di tre motivi.

Resistono con controricorso la C.E.A. s.r.l. e l’Istituto Trentino Alto Adige per assicurazioni – società Mutua di Assicurazioni, quale cessionaria di ramo d’azienda della Sun Insurance Office ltd.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Si critica la statuizione con la quale i giudici del gravame, pur rilevando l’impossibilità per il lavoratore, di svolgere le medesime mansioni disimpegnate al momento dell’infortunio, hanno accertato la sussistenza di una residua capacità lavorativa specifica, tenuto conto del titolo di studio posseduto e della giovane età, incorrendo in irredimibile contraddizione.

Infatti, la considerevole serie di limitazioni elencata dal nominato ausiliare, con riferimento alle specifiche attitudini di operaio specializzato di primo livello possedute, si risolveva in un sostanziale annullamento di detta capacità lavorativa. Nell’ottica descritta, il riferimento ad una nozione di residua capacità lavorativa specifica, in assenza di specifica motivazione, si traduceva in una affermazione apodittica e contraddittoria, tanto da risolversi in mera apparenza di motivazione.

2. Il motivo va disatteso per plurime concorrenti ragioni.

Non può sottacersi che la tecnica redazionale adottata nella formulazione della censura non si sia conformata alle enunciazioni di questa Corte secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione in cui sia denunciata puramente e semplicemente la “violazione o falsa applicazione di norme di diritto” ai sensi dell’art. 112 c.p.c., senza alcun riferimento alle conseguenze che l’errore (sulla legge) processuale comporta, vale a dire alla nullità della sentenza e/o del procedimento, essendosi il ricorrente limitato ad argomentare solo sulla violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (vedi Cass. 28/9/2015 n. 19124). I vizi dell’attività del giudice che possano comportare la nullità della sentenza o del procedimento, rilevanti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non sono, infatti, posti a tutela di un interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma a garanzia dell’eliminazione del pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa in dipendenza del denunciato “error in procedendo” (Cass. 9/7/2014 n. 15676). E’ quindi necessario che il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (così Cass. S.U. 24/7/2013 n. 17931).

E, nello specifico, il motivo incorre nel ricordato stigma, non avendo il ricorrente enunciato gli effetti che la violazione della norma processuale avrebbe riverberato sulla vicenda considerata.

3. In ogni caso la censura è priva di fondamento.

Affinchè sia integrato il vizio di “mancanza della motivazione” agli effetti di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, occorre che la motivazione manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero che essa formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del “decisum” (vedi Cass. 18/9/2009 n. 20112).

Questa enunciazione riassuntiva corrisponde a consolidato principio espresso dalla giurisprudenza della Corte, secondo cui la mancanza di motivazione, quale causa di nullità per mancanza di un requisito indispensabile della sentenza, si configura “nei casi di radicale carenza di essa, ovvero del suo estrinsecarsi in argomentazioni non idonee a rivelare la “ratio decidendi” (cosiddetta motivazione apparente), o fra di loro logicamente inconciliabili, o comunque perplesse od obiettivamente incomprensibili, e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sè, restando esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima in raffronto con le risultanze probatorie” (Cass. S.U. 16/5/1992 n. 5888).

In tal senso è stato precisato che la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da “error in procedendo”, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (vedi Cass. S.U. 3/11/2016 n. 22232).

Muovendo da tali principi, appare evidente che la Corte di merito non sia incorsa nella denunciata mancanza giacchè, aderendo nel proprio incedere argomentativo alle conclusioni rassegnate dal nominato ausiliare, ha elaborato un giudizio congruo, non connotato da assoluta omissione o irredimibile contraddittorietà che avrebbero potuto giustificare un sindacato nella presente sede di legittimità.

Aderendo alle conclusioni rassegnate dal nominato ausiliare, ha infatti argomentato che, pur non essendo il ricorrente più in grado di “svolgere le mansioni che disimpegnava al momento dell’infortunio” poteva “essere adibito, con una considerevole serie di limitazioni, ad altri tipi di lavoro confacenti con le sue attitudini personali”, e ciò tenuto conto dell’età, del sesso del titolo di studi posseduto e della pregressa esperienza lavorativa.

Detta statuizione, congrua e completa per quanto sinora detto, è altresì comunque, conforme ai consolidati dicta di questa Corte secondo cui qualora, invece, alla riduzione della capacità lavorativa generica si associ una riduzione della capacità lavorativa specifica che, a sua volta, dia luogo ad una riduzione della capacità di guadagno, detta diminuzione della produzione di reddito integra un danno patrimoniale. Ne consegue che non può farsi discendere in modo automatico dall’invalidità permanente la presunzione del danno da lucro cessante, derivando esso solo da quella invalidità che abbia prodotto una riduzione della capacità lavorativa specifica.

Tale danno patrimoniale deve essere accertato in concreto attraverso la dimostrazione che il soggetto leso svolgesse – o presumibilmente in futuro avrebbe svolto – un’attività lavorativa produttiva di reddito, ed inoltre attraverso la prova della mancanza di persistenza, dopo l’infortunio, di una capacità generica di attendere ad altri lavori, confacenti alle attitudini e condizioni personali ed ambientali dell’infortunato, ed altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse o ridotte Cass., 18/4/2003, n. 6291, Cass. 12/2/2015 n. 2758); e detta prova, in base alle risultanze dell’elaborato peritale recepite dalla impugnata sentenza, risulta allegata entro il limite del 20%, in relazione al quale è stato modulato il procedimento di liquidazione del danno elaborato dalla Corte di merito.

Sotto tutti i profili delineati, la statuizione si sottrae, dunque, alla formulata censura.

4. Con il secondo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 1123 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si prospetta la illegittimità della liquidazione del danno da lucro cessante in conformità ai criteri sanciti dal R.D. n. 1403 del 1922, che, facendo riferimento al saggio di interesse (4,5%) non più corrispondente alla realtà attuale, finisce per decurtare dal risarcimento un importo superiore a quello che per effetto dell’anticipato pagamento, il danneggiato potrebbe conseguire attraverso l’impegno proficuo di quella somma. Si deduce maitre che la liquidazione del danno permanente era modulata sulla speranza di vita degli anni ‘20, inferiore di oltre un terzo rispetto a quella attuale, compromettendo, anche sotto tale profilo, l’integralità del risarcimento postulata dalla invocata disposizione codicistica.

Si prospetta in via ulteriore la violazione dei dettami di cui all’art. 1123 c.c..

Si critica la statuizione con la quale i giudici del gravame hanno assunto come base per la liquidazione del danno da capacità lavorativa specifica, calcolato su tabelle ritenute illegittime, la percentuale del 20% utilizzata per la liquidazione del danno biologico da parte del CTU nominato in prime cure. Si ribadisce, invece, al riguardo, che il ricorrente avrebbe subito una riduzione totale della capacità lavorativa generica le quali, stante le stringenti limitazioni rilevate dall’ausiliare, escludono che il lavoratore potesse espletare mansioni diverse da quelle alle quali era stato in precedenza addetto.

5. Il motivo va disatteso per le ragioni di seguito esposte.

Deve invero, considerarsi che il giudice del gravame, nel pervenire alla liquidazione del danno patrimoniale subito dal lavoratore a titolo di riduzione della capacità lavorativa permanente, si è avvalso della formula matematica utilizzata per la capitalizzazione anticipata della rendita Inail, facendo ricorso alle tabelle di cui al R.D. n. 1403 del 1922.

Nell’articolato iter argomentativo, dopo aver moltiplicato il reddito annuo desumibile dal modello CUD, per il coefficiente di invalidità del 20% desumibile dalla CTU, aggiornato al 2004, ha detratto da tale importo una percentuale del 10% corrispondente allo scarto fra vita fisica e vita lavorativa, raddoppiando poi il dato complessivo, in via equitativa, per dare rilievo al grave danno alla capacità lavorativa specifica del soggetto arrecato dall’infortunio.

L’esito della complessiva procedura di liquidazione del danno elaborata dal giudice del gravame, non è stato frutto esclusivo della meccanica applicazione delle tabelle di cui al R.D. n. 1403/1922 le quali, a causa dell’innalzamento della durata media della vita e dell’abbassamento dei saggi di interesse, non garantiscono l’integrale ristoro del danno, e con esso il rispetto della regola di cui all’art. 1223 c.c. (vedi ex aliis, Cass. 14/10/2015 n. 20615, Cass. 25/6/2019 n. 16913).

S’impone, infatti, l’evidenza che il risultato dei conteggi elaborati in conformità ai criteri per la capitalizzazione delle rendite Inali, mediante il ricorso anche alle ricordate tabelle, sia stato poi rimodulato complessivamente, mediante un ragionamento decisorio ispirato al criterio dell’equità che, adeguatamente motivato, appare sottrarsi allo scrutinio di questa Corte.

L’esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è, infatti, suscettibile di sindacato in sede di legittimità quando la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito, con motivazione non illogica nè manifestamente arbitraria (cfr. Cass. 13/10/2017 n. 24070).

Ed allora, non può sottacersi che il motivo articolato, non si confronti con il censurato dictum della Corte di merito, la quale ha apportato al computo matematico per la capitalizzazione del danno da riduzione della capacità lavorativa specifica, opportuni meccanismi correttivi onde adattare il risultato tabellare alle condizioni attualmente esistenti.

La doglianza presenta, quindi, profili di inammissibilità per violazione del canone di specificità che governa il ricorso per cassazione ex art. 366, comma 1, nn. 3, 4 e 6, avuto riguardo alla mancata critica del ricordato procedimento di equità adottato dal giudice del gravame; nè si sottrae al medesimo stigma della inammissibilità, quanto alla censurata applicazione della percentuale di riduzione della capacità lavorativa nella misura del 20% mutuata dagli accertamenti resi dal nominato ausiliare.

Per infirmare, sotto il profilo della insufficienza argomentativa, la motivazione della sentenza che recepisca le conclusioni di una relazione di consulenza tecnica d’ufficio di cui il giudice dichiari di condividere il merito, è infatti necessario che la parte alleghi di avere rivolto critiche alla consulenza stessa già dinanzi al giudice “a quo”, e ne trascriva, poi, per autosufficienza, almeno i punti salienti onde consentirne la valutazione in termini di decisività e di rilevanza, atteso che, diversamente, una mera disamina dei vari passaggi dell’elaborato peritale, corredata da notazioni critiche, si risolverebbe nella prospettazione di un sindacato di merito inammissibile in sede di legittimità (vedi Cass. 3/6/2016 n. 11482, Cass. 17/7/2014 n. 16368).

Nello specifico il ricorrente non ha provveduto a riportare il contenuto dell’elaborato peritale per relationem richiamato dalla pronuncia impugnata, neanche nelle sue parti salienti, onde non si sottrae anche sotto tale profilo ad un giudizio di inammissibilità.

6. Con il terzo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.

Si critica la statuizione con la quale i giudici del gravame hanno proceduto alla riduzione degli importi liquidati a titolo di spese legali in riferimento al giudizio di prime cure.

Si stigmatizza altresì la disposta compensazione integrale delle spese di lite inerenti al giudizio di appello, sul rilievo della insussistenza di una situazione di reciproca soccombenza, nè di una novità della questione o del mutamento della giurisprudenza rispetto alte questioni trattate, negandosi che nella specie potesse configurarsi la obiettiva controvertibilità delle questioni trattate.

7. Il motivo non è fondato.

La prima censura, proposta in via condizionata dal medesimo ricorrente, ed attinente alla riduzione delle spese legali disposta dal giudice del gravame rispetto a quelle liquidate in prime cure, resta logicamente assorbita dalla reiezione dei primi due motivi di ricorso.

Il secondo profilo di doglianza riferito alla disposta compensazione delle spese di lite di secondo grado è, invece, privo di pregio.

Ed invero, è bene rammentare che la nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale tra le parti delle spese processuali (art. 92 c.p.c., comma 2), si verifica – anche in relazione al principio di causalità – nelle ipotesi in cui vi è una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate e che siano state cumulate nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero venga accolta parzialmente l’unica domanda proposta, sia essa articolata in un unico capo o in più capi, dei quali siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri (cfr. Cass. 22/08/2018 n. 20888).

La statuizione relativa al governo delle spese inerente al giudizio di appello, facendo leva sulla effettiva situazione di reciproca soccombenza che aveva connotato l’esito del giudizio, si conforma al surrichiamato principio onde resiste alla censura all’esame.

Conclusivamente, al lume delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.

Le spese del presente giudizio seguono il principio della soccombenza nella misura indicata in dispositivo, liquidata in favore di ciascuna delle società controricorrenti.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 ricorrono le condizioni per dare atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, in favore di ciascuna delle controricorrenti, che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 2.000,00 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo per il ricorso a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 25 giugno 2020

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