Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12620 del 25/06/2020

Cassazione civile sez. lav., 25/06/2020, (ud. 03/07/2019, dep. 25/06/2020), n.12620

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BALESTRIERI Federico – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12691/2016 proposto da:

P.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BARBERINI

67, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE BERRETTA, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

BANCA MONTE PASCHI SIENA S.P.A. (già Banca Antonveneta S.p.A.), in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA AVENTINA 3/A, presso lo studio

dell’avvocato SAVERIO CASULLI, che lo rappresenta e difende

unitamente agli avvocati GUGLIELMO BURRAGATO, GAETANO CHIAVETTA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1131/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 13/11/2015 R.G.N. 1220/2013.

LA CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore.

Fatto

RILEVA

che:

con sentenza del 10 ottobre 2013 il giudice del lavoro di Catania rigettava il ricorso proposto dalla Banca MONTE dei PASCHI di SIENA S.p.a. (già Banca Antonveneta S.p.a.), con il quale l’attore P.G., assunto il 1 gennaio 2003 con mansioni di impiegato ed inquadrato al primo livello retributivo – terza area, aveva chiesto il riconoscimento in suo favore della qualifica QD1 per il periodo 17 gennaio 2005 – 16 gennaio 2008 e quindi quello di quadro di secondo livello QD2, in applicazione del contratto collettivo integrativo dell’anno 2002, nonchè per l’effetto la condanna della società convenuta al pagamento della complessiva somma di Euro 42.321,36 a titolo di differenze retributive, oltre al risarcimento del danno patito a causa del “sott’inquadramento”, nonchè alla regolarizzazione della posizione previdenziale, con il versamento dei contributi relativi alle somme dovute, ivi compreso l’adeguamento delle somme accantonate nel fondo pensione aziendale, da quantificarsi con c.t.u. a titolo di risarcimento del danno previdenziale per il mancato versamento dei contributi corrispondenti alla effettiva qualifica spettante; ovvero, in subordine, l’accertamento del vantato diritto alla qualifica QD1 a far tempo dal 17 gennaio 2005, con conseguente riconoscimento del trattamento economico e previdenziale corrispondente al superiore inquadramento. Secondo il primo giudicante, alla luce della istruttoria svolta non poteva ritenersi provato lo svolgimento di mansioni riconducibili alla qualifica di quadro direttivo, non essendo stata dimostrata l’assunzione di posizioni di elevata responsabilità funzionale, nè provato lo svolgimento di compiti con caratteri di autonomia e discrezionalità;

il signor P.G. appellava l’anzidetta pronuncia di rigetto con atto del 20 dicembre 2013 e la Corte d’Appello di Catania con sentenza n. 1131 in data 5 – 13 novembre 2015 rigettava l’interposto gravame, dichiarando tuttavia compensate tra le parti le relative spese;

avverso la pronuncia di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione l’avvocato P.G. come da atto del 13 maggio 2016, affidato a due motivi, cui ha resistito la BANCA MONTE dei PASCHI di SIENA S.p.a. (di seguito per brevità MPS), mediante controricorso del 21 giugno 2016 (ricorso e controricorso, quindi, tempestivamente depositati il 31 maggio ed il 7 luglio 2016);

le parti hanno poi depositato memorie illustrative, che in quanto tali ovviamente non possono introdurre deduzioni nuove rispetto a quelle svolte con il ricorso e/o con il controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

in via preliminare il ricorrente ha dedotto che le disposizioni del contratto collettivo da egli citate a sostegno delle proprie rivendicazioni “sono quelle applicabili alla data di presentazione del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado (c.c.n.l. 12 febbraio 2005)”, come poi aggiornate dalle corrispondenti disposizioni del contratto collettivo in data 19 gennaio 2012;

con il primo motivo è stata denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., nonchè dell’art. 74, in relazione all’art. 73, del contratto collettivo 12 Febbraio 2005 per i quadri direttivi ed il personale delle aree professionali dipendenti dalle imprese creditizie, finanziarie e strutturali, precisando che tale violazione era stata determinata dall’erronea interpretazione dell’espressione “elevate responsabilità funzionali”di cui all’art. 73, comma 2, del c.c.n.l. 12 Febbraio 2005, ai fini del riconoscimento della qualifica di quadro direttivo a seguito del reiterato svolgimento di mansioni superiori;

con il secondo motivo è stata denunciata la carenza e/o la contraddittorietà della motivazione per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, costituito nel caso di specie dalla sussistenza dei requisiti per il riconoscimento della qualifica di quadro direttivo, avuto riguardo alla contraddittoria motivazione a causa dell’erronea interpretazione delle risultanze istruttorie e in particolare dell’omesso esame delle funzioni concretamente svolte da esso ricorrente in relazione alle disposizioni asseritamente violate, laddove la Corte etnea nell’interpretare l’acquisito materiale probatorio aveva escluso che le pratiche evase dall’ufficio cui esso ricorrente era stato addetto fossero di notevole complessità. Infatti, mentre la Corte d’Appello aveva ritenuto documentalmente provato che l’ufficio del P. si occupava soltanto delle consulenze meno complesse, definite di primo livello, laddove quelle più complesse venivano trasmesse all’ufficio legale di (OMISSIS), per contro tale interpretazione non trovava conferma nelle citate disposizioni contrattuali di categoria, nella misura in cui la relativa declaratoria non era prevista alcuna distinzione tra attività di consulenza legale di primo e secondo livello ai fini del riconoscimento della qualifica di quadro direttivo. Per giunta, il confine tra i due tipi di consulenza, di primo e secondo livello, risultava labile ed evanescente, come pure a tal riguardo riferito dal teste F.. Ad ogni modo, qualsiasi attività di consulenza legale non poteva considerarsi elementare, nè tanto meno standardizzata, in quanto richiedente particolari conoscenze giuridiche, di guisa che era anch’essa di tipo specialistico. Inoltre, la Corte catanese aveva totalmente omesso ogni valutazione in merito ai numerosi pareri redatti da esso ricorrente già prodotti in primo grado. A fronte della cospicua produzione documentale l’impugnata sentenza si era limitata ad affermare che l’appellante non aveva indicato il contenuto dei menzionati parrei, idoneo ad attestarne la rilevanza;

tanto premesso, entrambe le doglianze vanno disattese;

in primo luogo, va subito rilevata l’inammissibilità del secondo motivo, evidentemente formulato ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, censura che nel caso di specie non è consentita per effetto della preclusione da c.d. doppia conforme ex art. 348-ter c.p.c., u.c., in relazione al penultimo, qui ratione temporis applicabile, visto che la sentenza, di rigetto, pronunciata in primo grado il 10 ottobre 2013 è stata confermata con il respingimento dell’appello in data 20 dicembre 2013 dalla pronuncia qui impugnata (n. 1131/15 – r.g. n. 1220/2013), laddove d’altro canto la difesa dell’avv. P. nemmeno ha specificamente allegato, con il suo ricorso alcuna significativa diversità di valutazioni in punto di fatto da parte delle due pronunce di merito (“… stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata…”), sicchè a nulla rilevano, tra l’altro, le nuove deduzioni sul punto di parte ricorrente, inerenti in effetti a questioni di diritto e comunque tardivamente svolte, per la prima volta, con l’anzidetta memoria illustrativa;

del resto, pure ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non è consentito sindacare in sede di legittimità quanto apprezzato e accertato dal giudice del merito riguardo alle acquisite emergenze istruttorie, la cui valutazione e selezione compete esclusivamente allo stesso giudice di merito, essendo possibile soltanto denunciare l’omesso oggettivo esame di fatti, in senso storico, rilevanti e decisivi, e non già criticare, quindi, il contenuto delle relative valutazioni ovvero il c.d. ragionamento decisorio seguito nella sentenza impugnata;

peraltro, la censura di cui all’anzidetto secondo motivo neanche può ritualmente considerarsi ammissibile, ove diversamente qualificata sotto un eventuale profilo di error in procedendo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non essendo stata dedotta univocamente in proposito alcun vizio in termini di nullità, mentre, d’altro canto, avuto riguardo alle ampie, coerenti, dettagliate ed esaurienti argomentazioni svolte con la sentenza qui impugnata deve altresì indubbiamente escludersi qualsiasi violazione del c.d. minimo costituzionale, occorrente a norma dell’art. 111 Cost., art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c.;

pertanto, una volta accertati in fatti di causa nei sensi conformemente ritenuti dagli aditi giudici di merito, sfugge alle censure consentite dall’art. 360 c.p.c., n. 3, nella specie con il primo motivo, ogni possibile rilievo di carattere fattuale riguardo alle circostanze della vicenda di cui è processo;

di conseguenza, quanto all’asserita violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., nonchè delle previsioni derivanti dalla contrattazione collettiva, sono pure del tutto inammissibili le doglianze circa le motivazioni con le quali la Corte di merito ha ritenuto ingiustificato il preteso superiore inquadramento, laddove in primo luogo correttamente veniva richiamato l’onere di allegazione e probatorio interamente a carico dell’attore, precisando quindi i requisiti richiesti dalla declaratoria di cui all’art. 73 c.c.n.l. (svolgimento in via continuativa e prevalente di mansioni comportanti elevate responsabilità funzionali ed elevata preparazione professionale e/o particolari specializzazioni…), per cui lo stesso appellante a tal riguardo aveva del resto implicitamente riconosciuto la rilevanza del grado di complessità delle questioni affrontate, richiedenti per la relativa soluzione un’elevata preparazione professionale. Ed in proposito veniva evidenziato, in particolare (cfr. pag. 11 e ss. della sentenza impugnata), lo stesso accordo aziendale del 2002, “pur invocato dall’appellante”, che distingueva la figura dello specialista legale, rivendicata dall’avv. P., da quella del mero addetto legale, sicchè in base allo stesso accordo per l’assegnazione della posizione di specialista legale (con inquadramento nella categoria QD1 e, di norma dopo tre anni, nella categoria QD2) occorrevano, oltre che specifiche conoscenze giuridiche, anche una pluriennale esperienza in area crediti-legale, maturata nelle posizioni di addetto legale/addetto crediti di Gruppo per un tempo di norma 8 anni, “esperienza che l’appellante certamente non poteva vantare. La norma dell’accordo aziendale è in linea, del resto, con la previsione del c.c.n.l. (art. 73)…Nella specie, come correttamente evidenziato dal primo giudice, dalla documentazione acquisita (segnatamente, dalla lettera a firma dell’avv. Giudice del 12 febbraio 2007) e dalle deposizioni testimoniali risulta comunque smentito che le pratiche evase dall’ufficio cui il P. era addetto fossero di notevole complessità… E’ dunque documentalmente provato che l’ufficio cui il P. era addetto si occupava solo delle consulenze meno complesse, definite dallo stesso responsabile dell’ufficio – indi anche dai testi F. e R. – quali consulenze di “primo livello”, mentre quelle più complesse venivano trasmesse all’ufficio legale di (OMISSIS)…”. A tal riguardo con altre precisazioni, anche cronologiche, la Corte di merito giudicava, parimenti a quanto opinato dal Tribunale, generica la deposizione Giudice, il quale, pur avendo confermato il contenuto della sua missiva 12-2-2007, aggiungeva, tuttavia, di non escludere con ciò il fatto che a seguito del progressivo arricchimento professionale “”abbiamo cominciato ad occuparci di pratiche un pò più complesse”, senz’altro precisare”. Ulteriori argomentazioni sono state svolte in ordine alla ritenuta irrilevanza delle dichiarazioni del teste F., laddove costui aveva accennato alla mancanza di istruzioni scritte circa il criterio di qualificazione delle consulenze, se di primo o di secondo livello, in quanto il confine risultava piuttosto evanescente, sicchè la decisione in proposito era rimessa alle valutazioni dell’avv. Giudice (v. in part. pag. 13 della sentenza de qua), precisando altresì che il ricorrente aveva omesso di allegare il contenuto dei documenti prodotti con il n. 5 unitamente all’atto introduttivo del giudizio, eventualmente idoneo ad attestarne la rilevanza a fini decisori (rilievo questo, peraltro, del tutto corretto in base al principio secondo cui la mera produzione di un documento in appello non comporta automaticamente il dovere del giudice di esaminarlo, in ossequio all’onere di allegazione delle ragioni di doglianza sotteso al principio di specificità dei motivi di appello, occorrendo che alla produzione si accompagni la necessaria attività di allegazione diretta ad evidenziare il contenuto del documento ed il suo significato, ai fini dell’integrazione della ingiustizia della sentenza impugnata – così, tra le altre, Cass. I civ. n. 2461 del 29/01/2019, conforme Cass. III civ. n. 8377 del 7/4/2009, ed in senso analogo pure Cass. nn. 8599 del 2003 e 20287 del 2005. Principio del resto coerente con la natura dell’appello, anche secondo il c.d. rito lavoro, quale revisio prioris instantiae, e non già novum judicium. V. sul punto Cass. sez. un. civ. n. 3033 in data 8/2/2013, secondo cui in particolare nel vigente ordinamento processuale, il giudizio d’appello non può più dirsi, come un tempo, un riesame pieno nel merito della decisione impugnata (“novum judicium”), ma ha assunto le caratteristiche di una impugnazione a critica vincolata (“revisio prioris instantiae”). Ed analogamente, secondo Cass. lav. n. 1462 del 22/01/2013, l’appellante è tenuto a fornire la dimostrazione delle singole censure, atteso che l’appello non è più, nella configurazione datagli dal codice vigente, il mezzo per passare da uno all’altro esame della causa, ma una “revisio” fondata sulla denunzia di specifici “vizi” di ingiustizia o nullità della sentenza impugnata. In senso analogo, ancora Cass. lav. n. 4854 del 28/02/2014: nel rito del lavoro, il divieto di “nova” in appello, ex art. 437 c.p.c., non riguarda soltanto le domande e le eccezioni in senso stretto, ma è esteso alle contestazioni nuove, cioè non esplicitate in primo grado, anche per l’impossibilità di trasformare il giudizio di appello da “revisio prioris instantiae” in “iudicium novum”, estraneo al vigente ordinamento processuale. E parimenti, secondo Cass. II civ. n. 11935 – 08/08/2002, avendo il giudizio di appello natura di “revisio prioris instantiae” e non di “iudicium novum”, non è sufficiente che la sentenza di primo grado sia impugnata nella sua interezza, essendo necessaria invece l’impugnazione specifica dei singoli capi censurati, e l’esposizione analitica delle ragioni sulle quali si fonda il gravame, in contrapposizione con le ragioni addotte, nella sentenza impugnata, a giustificazione delle singole decisioni adottate). Infine, la Corte di merito non attribuiva, tra l’altro, rilievo al conferimento della procura a rendere la dichiarazione del terzo, sia in considerazione del saltuario disimpegno di tali pratiche, in base alle testimonianze a tale scopo richiamate, sia in quanto non rientravano “comunque nei poteri negoziali di rappresentanza della banca nei confronti di terzi – richiesti dalla norma collettiva per i quadri – “le facoltà di firma a carattere meramente certificativo o dichiarativo o simili” (art. 75 del c.c.n.l.; v. anche Cass. 5526/95, cit. dalla difesa dell’appellata)”);

pertanto, alla stregua delle surriferite esaurienti e puntuali argomentazioni svolte dalla Corte di merito nell’interpretazione dell’anzidetta normativa, compresa quindi quella integrativa di cui al menzionato accordo aziendale, sulla scorta delle accertate risultanze fattuali, come tali incensurabili in questa sede alla luce delle precedenti considerazioni, non è ravvisabile alcun errore ermeneutico al riguardo, per violazione dei criteri previsti dagli artt. 1361 e segg., laddove in effetti le doglianze di parte ricorrente finiscono soltanto con il contrapporsi alle motivazioni della Corte d’Appello, peraltro senza specificamente confutarne la validità del percorso argomentativo ivi seguito in diritto, ribadita comunque ancora una volta l’incensurabilità di quanto per contro appurato in fatto, soprattutto poi per ciò che concerne la rilevata distinzione tra specialista legale ed addetto legale, giusta la richiamata contrattazione integrativa aziendale, giudicata per giunta in linea con le previsioni di cui all’art. 73 del c.c.n.l., tenuto per giunta conto che in materia vale il principio (v. tra le altre Cass. III civ. n. 28319 del 28/11/2017), secondo cui la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poichè quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (conforme Cass. I civ. n. 16987 del 27/06/2018 ed in senso analogo v. anche Cass. lav. n. 25728 del 15/11/2013, nonchè Sez. 1, ordinanza n.

31899/18 del 3 ottobre – 10 dicembre 2018: “…Pur non potendo farsi a meno di ricordare che “nell’interpretazione dei contratti, l’elemento letterale, il quale assume funzione fondamentale nella ricerca della reale o effettiva volontà delle parti, deve essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, coordinando tra loro le singole clausole come previsto dall’art. 1363 c.c., giacchè per senso letterale delle parole va intesa tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato” (Cass., Sez. III, 8/06/2018, n. 14882), è dirimente nel caso che ne occupa constatare che la denuncia del ricorrente, nel modo in cui è declinata, non solo non si accorda con lo statuto della censurabilità per cassazione dell’errore ermeneutico, ma pure sfugge ad ogni giustificata ragione di vaglio da parte di questa Corte. E ciò perchè, una volta osservato che l’interpretazione dell’atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e segg. o – con i correttivi ora imposti dalla rimodulazione del vizio di motivazione (Cass., Sez. II, 13/08/2018, n. 20718) – di motivazione inadeguata, va invero evidenziato che, secondo costante deliberato di questa Corte, onde far valere l’errore ermeneutico sotto il primo profilo occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, precisando altresì in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato, ma occorre che il motivo e così gli argomenti che concorrono alla sua illustrazione non si risolvano nel contrapporre all’interpretazione accolta del giudice di merito una propria e diversa interpretazione degli indici fattuali delibati da questo e posti a fondamento dell’interpretazione contestata (Cass., Sez. IV, 30/04/2010, n. 10554), giacchè in tal modo si indurrebbe questa Corte a travalicare i limiti dei propri compiti istituzionali e a farsi inammissibilmente come qui in definitiva si chiede dalla ricorrente – interprete di un ruolo che non le compete sostituendo il proprio giudizio a quello del decidente di merito….”);

pertanto, restando nei sensi anzidetti altresì assorbita ogni altra questione, il ricorso deve disattendersi con conseguente condanna del soccombente al pagamento delle relative spese, per cui, inoltre, stante l’esito negativo dell’impugnazione, va dato anche atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento dell’ulteriore contributo unificato.

PQM

la Corte RIGETTA il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida, a favore della parte controricorrente, in complessivi Euro 4500,00, per compensi professionali ed in Euro 200,00, per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato D.P.R..

Così deciso in Roma, il 3 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 giugno 2020

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