Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12618 del 05/06/2014


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 12618 Anno 2014
Presidente: GOLDONI UMBERTO
Relatore: FALASCHI MILENA

SENTENZA
sul ricorso 5380-2013 proposto da:
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA 8018440587 in persona del
Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende, ope legis;
– ricorrente contro
DEL GENIO GELSOMINA DLGGSM55D42B740Q, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIALE ANGELICO 78, presso lo studio
dell’avvocato ALESSANDRO FERRARA, rappresentata e difesa

Data pubblicazione: 05/06/2014

dall’avvocato FERRARA SILVIO, giusta procura a margine del
controricorso;

controricorrente

avverso il decreto nel procedimento R.G. 56152/09 della CORTE

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
09/01/2014 dal Consigliere Relatore Dott. MILENA FALASCHI.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 18 giugno 2009 presso la Corte di appello di Roma
Gelsomina DEL GENIO proponeva, ai sensi della legge n. 89 del 2001,
domanda di equa riparazione del danno patrimoniale e non sofferto a causa
della non ragionevole durata del giudizio di equa riparazione del processo
introdotto dinnanzi al Pretore di Nola, con atto di citazione notificato il
1 ° .10.1998, definito in primo grado con sentenza pubblicata il 9 marzo 2004,
poi avanti alla Corte di appello di Napoli (notificato l’atto di gravame in data
27.7.2004), ove era ancora pendente.
La Corte di appello di Roma, con decreto in data 19 giugno 2012, in
accoglimento del ricorso, condannava l’Amministrazione al pagamento di €.
6.880,00 in favore del ricorrente, oltre ad interessi legali dalla domanda, per
avere il giudizio presupposto avuto una durata eccedente il termine

D’APPELLO di ROMA del 23.4.2012, depositato il 19/06/2012;

ragionevole pari a sette anni otto mesi e diciassette giorni (determinato in €.
750,00 per anno per i primi tre anni ed in €. 1.000,00 per gli anni successivi).
Avverso tale decisione ha proposto ricorso per Cassazione il Ministero della
giustizia, affidato a tre motivi, cui ha replicato l’intimato con controricorso.

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-2N1/4)-t

MOTIVI DELLA DECISIONE
Il Collegio rileva preliminarmente che non è di ostacolo alla trattazione
del ricorso la mancata presenza, alla odierna pubblica udienza, del
rappresentante della Procura generale presso questa Corte.

introdotte dall’art. 75 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con
modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98, prevede che il pubblico
ministero «deve intervenire nelle cause davanti alla Corte di cassazione nei casi
stabiliti dalla legge». A sua volta l’art. 76 del r.d. 10 gennaio 1941, n. 12, come
sostituito dall’art. 81 del citato decreto-legge n 69, al primo comma dispone
che «Il pubblico ministero presso la Corte di cassazione interviene e conclude:
a) in tutte le udienze penali; b) in tutte le udienze dinanzi alle Sezioni unite
civili e nelle udienze pubbliche dinanzi alle sezioni semplici della Corte di
cassazione, ad eccezione di quelle che si svolgono dinanzi alla sezione di cui
all’articolo 376, primo comma, primo periodo, del codice di procedura civile».
L’art. 376, primo comma, c.p.c. stabilisce che «Il primo presidente, tranne
quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 374, assegna i ricorsi ad
apposita sezione che verifica se sussistono i presupposti per la pronunzia in
camera di consiglio».
Infine, l’art. 75 del già citato decreto-legge n. 69 del 2013, quale risultante
dalla legge di conversione n. 98 del 2013, dopo aver disposto, al primo
comma, la sostituzione dell’art. 70, secondo comma, del codice di rito, e la
modificazione degli artt. 380-bis, secondo comma, e 390, primo comma, del
medesimo codice, per adeguare la disciplina del rito camerale alla disposta
esclusione della partecipazione del pubblico ministero alle udienze che si
tengono dinnanzi alla sezione di cui all’art. 376, primo comma, al secondo
comma ha stabilito che «Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano
ai giudizi dinanzi alla Corte di cassazione nei quali il decreto di fissazione
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Invero, l’art. 70, comma secondo, c.p.c., quale risultante dalle modifiche

dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio sia adottato a partire dal
giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto», e cioè a far data dal 22 agosto 2013.
Orbene, il Collegio rileva che l’esplicito riferimento contenuto sia nell’art.
76, comma primo, lett. b), del r.d. n. 12 del 1941 (come modificato dall’art. 81

che si tengano presso la Sesta sezione (e cioè quella di cui all’art. 376, primo
comma, c.p.c.), consenta di ritenere non solo che la detta sezione è abilitata a
tenere oltre alle adunanze camerali anche udienze pubbliche, ma anche che
alle udienze che si tengono presso la stessa sezione non è più obbligatoria la
partecipazione del pubblico ministero. Rimane impregiudicata, ovviamente, la
facoltà dell’ufficio del pubblico ministero di intervenire ai sensi dell’art. 70,
terzo comma, c.p.c., e cioè ove ravvisi un pubblico interesse.
Nel caso di specie, il decreto di fissazione dell’udienza odierna è stato
emesso in data 25 settembre 2013, sicché deve concludersi che l’udienza
pubblica ben può essere tenuta senza la partecipazione del rappresentante
della Procura generale presso questa Corte, non avendo il detto ufficio, al
quale pure copia integrale del ruolo di udienza è stata trasmessa, ravvisato un
interesse pubblico che giustificasse la propria partecipazione ai sensi dell’art.
70, terzo comma, c.p.c..
Del pari preliminare è l’esame dell’eccezione dedotta dalla
controricorrente ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 3 c.p.c.:
il ricorso è ammissibile nei limiti appresso indicati, dato che, contrariamente a
quanto assume la DEL GENIO, espone sommariamente i fatti di causa, sotto
i profili occorrenti per la soluzione delle questioni sollevate in questa sede, ed
inoltre, attraverso una lettura globale, consente con sufficiente specificità di
cogliere le ragioni per le quali si sollecita l’annullamento del provvedimento
impugnato.

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del decreto-legge n. 69 del 2013, sia nell’art. 75, comma 2, citato, alle udienze

Infatti pur se la ricorrente Amministrazione ha confezionato il ricorso con la
riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali, tuttavia
detto dato è contemperato dall’illustrazione, in termini argomentativi, delle
domande e delle difese hinc inde, esponendo, nella parte dedicata allo
svolgimento dei motivi di ricorso, le considerazioni alla luce delle quali i

Deve escludersi, contemporaneamente, che la ricorrente abbia omesso di
indicare le norme di diritto a suo avviso violate dal provvedimento impugnato,
atteso che i tre motivi in cui si articola il ricorso stesso sono puntualmente
indicati come proposti, il primo, sotto il profilo di cui all’art. 360 n. 3 c.p.c.,
per la denunziata “violazione o falsa applicazione dell’art. 2 della legge n. 89
del 2001, il secondo sotto il profilo di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. e con il quale si
denunzia “omessa motivazione”, il terzo sotto il profilo della “violazione e/o
falsa applicazione degli artt. 112 e 2 della legge n. 89 del 2001”.
L’eccezione di inammissibilità nei termini sopra precisati va, dunque, rigettata,
salvo quanto si andrà a precisare di seguito con riferimento ai singoli mezzi.
Premesso quanto sopra ed affermata la ammissibilità del ricorso, il
primo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2 della legge
n. 89 del 2001, per non avere la corte di appello detratto dal calcolo del ritardo
irragionevole una serie di rinvii per astensione degli avvocati, per una frazione
temporale complessiva pari ad un anno e tre mesi circa non imputabile
all’amministrazione della giustizia, bensì alle parti. Aggiunge che la durata
ragionevole doveva essere ritenuta in primo grado di quattro anni, in
considerazione della pluralità di pretese azionate e alla necessità di
scioglimento di numerose riserve.
La doglianza non può trovare ingresso.
Osserva la Corte che non può essere imputata alle parti la maggior durata del
processo derivante dall’astensione degli avvocati dalle udienze sia perché essa

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giudici del merito sono pervenuti alla conclusione oggetto di critica.

rappresenta l’esplicazione di un diritto costituzionalmente tutelato dei
difensori, sia perché si tratta di un comportamento non ascrivibile alle parti
che restano pienamente titolari del loro diritto alla durata ragionevole del
processo. Peraltro l’astensione dalle udienze non è idonea di per sé a
compromettere la durata ragionevole dei processi se non in quanto rende

dal codice di rito a causa dell’inadeguatezza del sistema giudiziario a
fronteggiare la domanda di giustizia in tempi adeguati (in termini v. Cass. 19
giugno 2013 n. 15420).
Quanto poi alla denuncia di mancato scorporo del tempo impiegato per le
numerose riserve, tenuto conto della complessità del processo presupposto,
occorre rilevare che la censura difetta del carattere di specificità, completezza e
riferibilità al provvedimento impugnato, non consentendo di comprendere le
ragioni per le quali la statuizione del giudice di merito dovrebbe ritenersi errata
ed, in definitiva, quali siano le questioni che la Corte, con riferimento alle
statuizioni impugnate, è chiamata a risolvere.
Con il secondo, nel denunciare omessa motivazione su un fatto
decisivo della controversia, l’amministrazione lamenta che la corte di appello
non abbia detratto dal calcolo del ritardo il periodo intercorso tra il deposito
della sentenza di primo grado e la data di notifica dell’appello, avvenuta a
distanza di un anno, non imputabile all’amministrazione della giustizia, bensì
alle parti. Aggiunge che erroneamente la corte ha assunto quale dies ad quem
la data di deposito del ricorso, pur mancando la prova della pendenza del
giudizio presupposto.
Il motivo è fondato nei limiti di seguito precisati.
La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali garantisce all’art. 6, par. 1 ad ogni persona il diritto che la sua
causa sia definita in un termine ragionevole, davanti a un tribunale
indipendente e imparziale costituito per legge. Si tratta di diritto soggettivo
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necessario un rinvio delle cause che non può avvenire nei tempi brevi previsti

perfetto nei confronti dello Stato, che presuppone necessariamente
l’instaurazione del rapporto processuale tra le parti del processo e il giudice.
Soltanto laddove la domanda sia stata sottoposta agli organi giurisdizionali
dello Stato, infatti, sorge il dovere di questi di darvi soddisfazione entro un
termine ragionevole. Ne deriva che la durata del processo postula la sua

conto dei periodi nei quali la controversia civile sia sottratta all’esame e alla
decisione del giudice, come avviene allorché, essendosi il giudice già
pronunciato, con provvedimento definitivo e idoneo alla formazione del
giudicato, ancorché impugnabile, alle parti sia lasciato dalla legge uno spatium
deliberandi in ordine all’eventuale impugnazione, mentre solo in conseguenza
del concreto esercizio dell’azione – in questo caso in via d’impugnazione del
provvedimento già emesso -si ripropone l’esigenza di una risposta degli organi
della giurisdizione in un tempo ragionevole (v. Cass. 10 maggio 2010 n.
11307).
È quindi compito del giudice dell’equa riparazione verificare di volta in volta,
tenuto conto delle circostanze delle singole vicende processuali, quale sia in
concreto stato il comportamento della parte che chiede l’equa riparazione tra
un grado e l’altro, e scomputare dalla durata complessiva del giudizio solo il
lasso di tempo non riconducibile, secondo il suo prudente apprezzamento,
all’esercizio del diritto di difesa. E’ evidente che, ove una parte, per perseguire
un proprio interesse, non si avvalga di una facoltà, come ad esempio quella
della notificazione della sentenza a sè favorevole a fini sollecitatori, e lasci
quindi decorrere tutto intero il termine lungo per la proposizione
dell’impugnazione, non può pretendere che il termine decorso venga tutto
intero addebitato alla organizzazione giudiziaria, dovendo al contrario, come
detto, il giudice dell’equa riparazione apprezzare in concreto il comportamento
della parte stessa anche in relazione al mancato esercizio di detta facoltà.

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pendenza davanti ad un organo della giurisdizione, e che non può tenersi

Escluso, quindi, che possa imputarsi alla parte tutto il lasso di tempo
intercorso tra un grado di giudizio e l’altro, spetta al giudice dell’equa
riparazione apprezzare nelle singole situazioni concrete quanta parte del
tempo occorso per la instaurazione del giudizio di impugnazione sia riferibile
ad esercizio del diritto di difesa, come tale non addebitabile alla parte, e

sollecitatoria di cui si è detto, con la conseguenza che il relativo lasso
temporale andrà riferito al comportamento processuale della parte (cfr., sul
punto, Cass., sentt. n. 10632 e n. 5212 del 2007).
Nella specie, la Corte di merito ha computato la durata complessiva del
processo presupposto in sette anni, otto mesi e diciassette giorni, pervenendo
a tale conclusione attraverso il computo per intero anche di tutto il periodo
compreso fra il deposito della sentenza di primo grado e la notifica
dell’impugnazione della stessa — in difformità dal principio di diritto appena
enunciato — anziché detrarre il periodo corrispondente al termine previsto
per l’impugnazione ed apprezzare la condotta tenuta dalle parti in ordine alla
notifica della sentenza.
Il decreto impugnato è quindi affetto – in parte, assumendo la ricorrente che
sia decorso un anno per l’impugnazione, mentre detto periodo è da valutare in
quattro mesi e quindici giorni (sentenza pubblicata il 9.3.2004, notificato l’atto
di gravame il 27.7.2004) – dal denunciato vizio.
Del pari fondato è il terzo mezzo – con cui l’Amministrazione denuncia
la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. e 2 della legge n. 89
del 2001 per avere la corte di merito liquidato d’ufficio interessi con
decorrenza dalla domanda, non richiesti, anziché dalla pronuncia del decreto –
giacchè dall’esame del ricorso introduttivo del giudizio di equa riparazione,
consentito in questa sede, risulta che la originaria ricorrente non ha formulato
domanda per gli interessi.

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quanta, invece, alla scelta processuale delle parti di non utilizzare la facoltà

La giurisprudenza di legittimità è costante nel ritenere che l’obbligazione
avente ad oggetto l’equa riparazione, configurandosi, non già come
obbligazione ex delicto, ma come obbligazione ex lege, riconducibile, in base
all’art. 1173 c.c., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di
obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico.

possono decorrere, sempreché richiesti, dalla data della domanda di equa
riparazione, in base al principio secondo cui gli effetti della pronuncia
retroagiscono alla data della domanda, nonostante il carattere di incertezza e
illiquidità del credito prima della pronuncia giudiziaria, mentre, in
considerazione del predetto carattere indennitario dell’obbligazione, nessuna
rivalutazione può essere invece accordata (Cass. n. 2248 del 2 febbraio 2007).
Conclusivamente, il ricorso deve essere accolto per quanto di ragione.
Il decreto impugnato va cassato e decidendo anche nel merito, non
richiedendosi a tal fine ulteriori indagini in fatto, va determinata la durata
irragionevole del giudizio presupposto in complessivi sette anni e sei mesi,
detratti dal periodo complessivamente accertato dalla Corte di appello mesi
due e giorni diciassette ulteriori rispetto ai due mesi da ritenersi congrui e
sufficienti per la proposizione dell’atto di impugnazione della sentenza di
primo grado; inoltre gli interessi sull’indennizzo come sopra determinato sono
dovuti solo a decorrere dalla data della pronuncia del decreto.
In considerazione del parziale accoglimento del ricorso, le spese del giudizio di
legittimità vengono compensate per la metà, mentre per la restante parte
vengono poste a carico dell’Amministrazionec con distrazione in favore del
difensore antistatario.

P.Q.M.

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Dal carattere indennitario di tale obbligazione discende che gli interessi legali

La Corte, rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie parzialmente il secondo
ed il terzo motivo;
decidendo nel merito, in riforma del provvedimento impugnato, condanna il
Ministero al pagamento in favore di Gelsomina DEL GENIO della somma di
C. 6.750,00, oltre ad interessi dalla pronuncia del decreto impugnato;

giudizio di Cassazione, liquidate per l’intero in complessivi C. 392,50, di cui C.
292,50 per compensi ed C. 100,00 per esborsi;
dispone la distrazione delle spese in favore del difensore antistatario;
dichiara compensate fra le parti la restante quota delle spese di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della VI-2^ Sezione Civile, il 9
gennaio 2014.

condanna, altresì, l’Amministrazione alla rifusione del 50% delle spese del

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