Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12616 del 05/06/2014


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 12616 Anno 2014
Presidente: GOLDONI UMBERTO
Relatore: FALASCHI MILENA

SENTENZA
sul ricorso 5324-2013 proposto da:
FEMIA BERNARDO FMEBRN63R24H224C, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA AURELIA 385, presso lo studio
dell’avvocato SITZIA ANDREA, rappresentato e difeso dall’avvocato
LABATE ANTONIO MARIO giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA 8018440587, in persona del
Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che 1o rappresenta e difende ope legis;

Data pubblicazione: 05/06/2014

- controricorrente avverso il decreto n. 389/2012 della CORTE D’APPELLO di
CATANZARO del 9/10/2012, depositato il 31/10/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 28 marzo 2012 presso la Corte di appello di
Catanzaro Bernardo FEMIA proponeva, ai sensi della legge n. 89 del 2001,
domanda di equa riparazione del danno patrimoniale e non sofferto a causa
della non ragionevole durata del giudizio di equa riparazione del processo
introdotto dinnanzi al Tribunale di Reggio Calabria, con il quale aveva
proposto opposizione avverso decreto di liquidazione emesso in suo favore
per una consulenza tecnica espletata su incarico del Giudice delegato, con atto
presentato in data 22.11.2004, definito in primo grado con pronuncia
pubblicata il 29 novembre 2005 ed infine avanti alla Corte di Cassazione
(notificato il ricorso ex art. 111 Cost. il 27.12.2005) con sentenza del 4
novembre 2011.
La Corte di appello di Catanzaro, con decreto in data 31 ottobre 2012,
accoglieva il ricorso, liquidando in favore del ricorrente la somma di €. 500,00,
ritenendo di individuare il ritardo in un anno, indicato il tempo ragionevole in
cinque anni (tre anni per il primo grado e due per il gravame), e tenuto conto
della scarsa entità della posta in gioco.
Avverso tale decisione il FEMIA ha proposto ricorso per Cassazione, affidato
a tre motivi, cui ha resistito il Ministero della giustizia con controricorso.

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09/01/2014 dal Consigliere Relatore Dott. NIILENA FALASCHI.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Il Collegio rileva preliminarmente che non è di ostacolo alla trattazione
del ricorso la mancata presenza, alla odierna pubblica udienza, del
rappresentante della Procura generale presso questa Corte.
Invero, l’art. 70, comma secondo, c.p.c., quale risultante dalle modifiche

modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98, prevede che il pubblico
ministero «deve intervenire nelle cause davanti alla Corte di cassazione nei casi
stabiliti dalla legge». A sua volta l’art. 76 del r.d. 10 gennaio 1941, n. 12, come
sostituito dall’art. 81 del citato decreto-legge n 69, al primo comma dispone
che «Il pubblico ministero presso la Corte di cassazione interviene e conclude:
a) in tutte le udienze penali; b) in tutte le udienze dinanzi alle Sezioni unite
civili e nelle udienze pubbliche dinanzi alle sezioni semplici della Corte di
cassazione, ad eccezione di quelle che si svolgono dinanzi alla sezione di cui
all’articolo 376, primo comma, primo periodo, del codice di procedura civile».
L’art. 376, primo comma, c.p.c. stabilisce che «Il primo presidente, tranne
quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 374, assegna i ricorsi ad
apposita sezione che verifica se sussistono i presupposti per la pronunzia in
camera di consiglio».
Infine, l’art. 75 del già citato decreto-legge n. 69 del 2013, quale risultante
dalla legge di conversione n. 98 del 2013, dopo aver disposto, al primo
comma, la sostituzione dell’art. 70, secondo comma, del codice di rito, e la
modificazione degli artt. 380-bis, secondo comma, e 390, primo comma, del
medesimo codice, per adeguare la disciplina del rito camerale alla disposta
esclusione della partecipazione del pubblico ministero alle udienze che si
tengono dinnanzi alla sezione di cui all’art. 376, primo comma, al secondo
comma ha stabilito che «Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano
ai giudizi dinanzi alla Corte di cassazione nei quali il decreto di fissazione
dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio sia adottato a partire dal
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introdotte dall’art. 75 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con

giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto», e cioè a far data dal 22 agosto 2013.
Orbene, il Collegio rileva che l’esplicito riferimento contenuto sia nell’art.
76, comma primo, lett. b), del r.d. n. 12 del 1941 (come modificato dall’art. 81
del decreto-legge n. 69 del 2013, sia nell’art. 75, comma 2, citato, alle udienze

comma, c.p.c.), consenta di ritenere non solo che la detta sezione è abilitata a
tenere oltre alle adunanze camerali anche udienze pubbliche, ma anche che
alle udienze che si tengono presso la stessa sezione non è più obbligatoria la
partecipazione del pubblico ministero. Rimane impregiudicata, ovviamente, la
facoltà dell’ufficio del pubblico ministero di intervenire ai sensi dell’art. 70,
terzo comma, c.p.c., e cioè ove ravvisi un pubblico interesse.
Nel caso di specie, il decreto di fissazione dell’udienza odierna è stato
emesso in data 25 settembre 2013, sicché deve concludersi che l’udienza
pubblica ben può essere tenuta senza la partecipazione del rappresentante
della Procura generale presso questa Corte, non avendo il detto ufficio, al
quale pure copia integrale del ruolo di udienza è stata trasmessa, ravvisato un
interesse pubblico che giustificasse la propria partecipazione ai sensi dell’art.
70, terzo comma, c.p.c..
Passando all’esame del ricorso, con il primo motivo il ricorrente
denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001 e
dell’art. 6 della CEDU, anche per omessa motivazione, per essere decorso
dalla data di deposito del ricorso ex art. 170 D.P.R. n. 115 del 2002, il
22.11.2004, e quella di pubblicazione della sentenza di Cassazione, avvenuta il
4.11.2011, sei anni, undici mesi e tredici giorni e non già solo sei anni, come
ritenuto dalla corte catanzarese. Prosegue il ricorrente che in considerazione
della natura del procedimento presupposto il tempo ragionevole di durata
avrebbe dovuto essere calcolato in un periodo non superiore a quattro anni,
anziché in cinque, trattandosi di procedimento con unico grado di merito.
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che si tengano presso la Sesta sezione (e cioè quella di cui all’art. 376, primo

Con il secondo motivo il ricorrente, nel dedurre la violazione dell’art. 2
della legge n. 89 del 2001 e dell’art. 6 della CEDU, anche per omessa
motivazione, insiste nella sommarietà del procedimento presupposto, di cui il
giudice del merito avrebbe dovuto tenere conto nella determinazione del
ritardo, determinandone la durata ragionevole in due anni, al pari dei

Con il terzo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art.
6 della CEDU, dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001 e degli artt. 1226 e 2056
c.c., oltre che per omessa motivazione, per avere incongruamente stabilito
l’indennizzo in €. 500,00 per anno.
La prima censura si rivela fondata nei termini che seguono.
Premesso che la doglianza è da scrutinare nel contesto della disciplina
anteriore alle modifiche apportate dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 55
(Misure urgenti per la crescita del Paese), non applicabile ratione temporis,
questa Corte di cassazione ha già precisato che l’interpretazione della
Convenzione dei diritti dell’uomo è di competenza della Corte EDU sicché
alla giurisprudenza da questa elaborata il giudice nazionale deve fare
riferimento, potendosene discostare, solo in presenza di particolari circostanze
(cfr Cass. 30 settembre 2004 n 19638; Cass. SS.UU. 26 dicembre 2004 n
1339). Consegue che il giudice di merito per potersi ragionevolmente e
motivatamente discostare dai parametri indennitari stabiliti dalla Corte di
Strasburgo, dovrà, al fine di determinare l’impatto dell’irragionevole ritardo
sulla psiche del richiedente e definire così il danno non patrimoniale,
procedere ad un giudizio di comparazione i cui termini sono costituiti fra
l’altro, dalla natura e dall’entità della pretesa pecuniaria avanzata dal
richiedente nel giudizio presupposto, c.d. posta in gioco, e dalle condizioni
socio – economiche del litigante. La comparazione degli indicati elementi, cui
possono aggiungersene altri secondo le singole fattispecie, che dovrà essere

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procedimenti camerali per la stessa equa riparazione.

effettuata sulla base delle allegazione delle parti, costituisce valutazione di
merito non sindacabile nel giudizio di legittimità se congruamente motivata.
Corollario di quanto fin qui esposto è che il giudice di merito potrà discostarsi
dai parametri indennitari CEDU (oscillanti mediamente tra i mille ed i
millecinquecento Euro per anno) sia in senso migliorativo che peggiorativo,

determini un indennizzo puramente simbolico.
Nella specie la Corte d’appello ha ritenuto di determinare la ragionevole durata
del processo presupposto in cinque anni, argomentando la statuizione con la
modestia della posta in gioco (liquidato in sede di opposizione un compenso
al c.t.u. di €. 1.659,39, originariamente determinato in €. 828,06), senza però
tenere in alcun conto la natura del procedimento, che è con rito camerale,
oltre alla circostanza che solitamente trattasi di questioni di estrema semplicità.
E’ pur vero che il rilievo della struttura del processo, caratterizzata dal rito
camerale, semplificata rispetto al processo ordinario di cognizione, non vale,
di per sè solo, a rendere esigibile una riduzione della durata ragionevole, da
valutare non solo in senso atomistico, con riferimento alla complessità
specifica del singolo processo in esame, ma anche su scala generale, tenuto
conto, quindi, della domanda complessiva di giustizia in un determinato
contesto nazionale (così Cass. 12 novembre 2010 n. 23012), tuttavia necessita
di una adeguata motivazione proprio per dare conto della riconduzione anche
di detta controversia nei tempi di definizione di un ordinario processo non
caratterizzato da particolare rilevanza.
Con ciò rimane superata la questione relativa all’erroneo calcolo matematico
circa i tempi di durata del processo, ad avviso dell’Amministrazione da
risolvere nell’ambito di un giudizio revocatorio.
In accoglimento del principio di diritto ricordato, il decreto deve essere
cassato, rimanendo così assorbito l’esame degli ulteriori due motivi di
doglianza, vertenti sulla statuizione della sommarietà del procedimento
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purché tale discostamento sia contenuto in limiti di ragionevolezza e non

presupposto e sul quantum dell’indennizzo, con rinvio ad altro giudice – che
viene individuato nella Corte d’appello di Catanzaro in diversa composizione che riesaminerà la controversia alla luce dei rilievi dianzi svolti.
Alla predetta Autorità è demandato anche il regolamento delle spese del

P.Q.M.

La Corte, accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti i restanti;
cassa il decreto impugnato e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di
Cassazione, alla Corte d’appello di Catanzaro in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della VI-2^ Sezione Civile, il 9
gennaio 2014.

presente giudizio di legittimità.

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