Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12615 del 05/06/2014


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 12615 Anno 2014
Presidente: GOLDONI UMBERTO
Relatore: FALASCHI MILENA

SENTENZA
sul ricorso 4710-2013 proposto da:
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA 8018440587, in persona del
Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente contro
CALABRESE CARMELA, PERNA GINO, MISSIONATI MARIA
in proprio e nella qualità di erede legittima di Perna Antonio, PERNA
CARMELIN A, in proprio e nella qualità di erede legittima di Perna
Antonio, PERNA NICOLINO, in proprio e nella qualità di erede

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Data pubblicazione: 05/06/2014

legittimo di Perna Antonio, PERNA _ANIELINDA in proprio e nella
qualità di erede di Perna Antonio, elettivamente domiciliati in ROMA,
VLE DELLE MILIZIE, 4 presso l’avvocato SIMONA
MARTINELLI STUDIO LEGALE MARTELLI, rappresentati e
difesi dagli avvocati CAVUOTO NIARIALUISA, DE NIGRIS DE

controricorso e ricorso incidentale;

– controrkorrente e ricorrenti incidentali avverso il decreto n. 3585/2008 V.G. della CORTE D’APPELLO di
ROMA del 7/02/2011, depositato 11 27/12/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
09/01/2014 dal Consigliere Relatore Dott. MILENA FALASCHI.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 6 marzo 2008 presso la Corte di appello di Roma
Carmela CALABRESE, Gino PERNA, Maria MISSIONANTI, Carmelina
PERNA, Nicolino PERNI\ ed Amelina PERN_A, in proprio e quali eredi di
Antonio Perna, proponevano, ai sensi della legge n. 89 del 2001, domanda di
equa riparazione del danno patrimoniale e non sofferto a causa della non
ragionevole durata del giudizio di equa riparazione del processo introdotto
dinnanzi al Tribunale di Benevento, nei confronti della CALABRESE e del
loro dante causa, Antonio Perna (successivamente deceduto), da avvocato, per
il pagamento di prestazioni professionali, con atto di citazione notificato il
25.1.1999, definito in primo grado con sentenza pubblicata il 26 giugno 2003,
poi avanti alla Corte di appello di Napoli con sentenza del 9 marzo 2006 ed
infine ancora pendente avanti alla Corte di Cassazione (notificato il ricorso il
16.5.2007).

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MARIA SEBASTIANO giusta procura speciale in calce al

La Corte di appello di Roma, con decreto in data 27 dicembre 2011, in
accoglimento del ricorso condannava l’Amministrazione al pagamento di E.
2.400,00 in favore di ciascun ricorrente, oltre ad interessi legali dalla domanda,
per avere il giudizio presupposto avuto una durata eccedente il termine
ragionevole di tre anni e due mesi (durata complessiva di nove anni e due

Avverso tale decisione ha proposto ricorso per Cassazione il Ministero della
giustizia, affidato a quattro motivi, cui hanno replicato gli intimati con
controricorso, i quali hanno articolato anche ricorso incidentale, formulando
un unico motivo.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Il Collegio rileva preliminarmente che non è di ostacolo alla trattazione
del ricorso la mancata presenza, alla odierna pubblica udienza, del
rappresentante della Procura generale presso questa Corte.
Invero, l’art. 70, comma secondo, c.p.c., quale risultante dalle modifiche
introdotte dall’art. 75 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con
modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98, prevede che il pubblico
ministero «deve intervenire nelle cause davanti alla Corte di cassazione nei casi
stabiliti dalla legge». A sua volta l’art. 76 del r.d. 10 gennaio 1941, n. 12, come
sostituito dall’art. 81 del citato decreto-legge n 69, al primo comma dispone
che «Il pubblico ministero presso la Corte di cassazione interviene e conclude:
a) in tutte le udienze penali; b) in tutte le udienze dinanzi alle Sezioni unite
civili e nelle udienze pubbliche dinanzi alle sezioni semplici della Corte di
cassazione, ad eccezione di quelle che si svolgono dinanzi alla sezione di cui
all’articolo 376, primo comma, primo periodo, del codice di procedura civile».
L’art. 376, primo comma, c.p.c. stabilisce che «Il primo presidente, tranne
quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 374, assegna i ricorsi ad

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mesi, detratto il tempo ragionevole di sei anni).

apposita sezione che verifica se sussistono i presupposti per la pronunzia in
camera di consiglio».
Infine, l’art. 75 del già citato decreto-legge n. 69 del 2013, quale risultante
dalla legge di conversione n. 98 del 2013, dopo aver disposto, al primo
comma, la sostituzione dell’art. 70, secondo comma, del codice di rito, e la

medesimo codice, per adeguare la disciplina del rito camerale alla disposta
esclusione della partecipazione del pubblico ministero alle udienze che si
tengono dinnanzi alla sezione di cui all’art. 376, primo comma, al secondo
comma ha stabilito che «Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano
ai giudizi dinanzi alla Corte di cassazione nei quali il decreto di fissazione
dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio sia adottato a partire dal
giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto», e cioè a far data dal 22 agosto 2013.
Orbene, il Collegio rileva che l’esplicito riferimento contenuto sia nell’art.
76, comma primo, lett. b), del r.d. n. 12 del 1941 (come modificato dall’art. 81
del decreto-legge n. 69 del 2013, sia nell’art. 75, con-ima 2, citato, alle udienze
che si tengano presso la Sesta sezione (e cioè quella di cui all’art. 376, primo
comma, c.p.c.), consenta di ritenere non solo che la detta sezione è abilitata a
tenere oltre alle adunanze camerali anche udienze pubbliche, ma anche che
alle udienze che si tengono presso la stessa sezione non è più obbligatoria la
partecipazione del pubblico ministero. Rimane impregiudicata, ovviamente, la
facoltà dell’ufficio del pubblico ministero di intervenire ai sensi dell’art. 70,
terzo comma, c.p.c., e cioè ove ravvisi un pubblico interesse.
Nel caso di specie, il decreto di fissazione dell’udienza odierna è stato
emesso in data 25 settembre 2013, sicché deve concludersi che l’udienza
pubblica ben può essere tenuta senza la partecipazione del rappresentante
della Procura generale presso questa Corte, non avendo il detto ufficio, al
quale pure copia integrale del ruolo di udienza è stata trasmessa, ravvisato un
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modificazione degli artt. 380-bis, secondo comma, e 390, primo comma, del

interesse pubblico che giustificasse la propria partecipazione ai sensi dell’art.
70, terzo comma, c.p.c..
Passando all’esame del ricorso principale, il Collegio ritiene superfluo
riferirne i motivi, in quanto esso appare inammissibile — come eccepito dalle
controricorrenti – innanzitutto perché non osserva il requisito di cui all’art. 366

che la ricostruzione dello svolgimento processuale fatta nel su esteso “fatto” è
stata compilata procedendo alla ricerca dei riferimenti negli atti processuali
senza che il ricorso fornisca le opportune indicazioni. Onde l’avervi proceduto
non esclude che lo si sia fatto in una situazione in cui l’esposizione del fatto
nel ricorso mancava o comunque era insufficiente.
In proposito si osserva che la struttura del ricorso è la seguente: a) nella
seconda metà della seconda pagina, dopo l’indicazione delle parti, fino alla
quinta pagina si riporta in fotocopia l’atto introduttivo del giudizio,
intercalandolo a pagina quattro (nel mezzo) e a pagina cinque (nell’ultima
parte) da annotazioni in (corsivo) stampatello circa la vicenda dei ricorrenti,
segue l’integrale riproduzione in fotocopia del provvedimento impugnato alle
pagine sei, sette, otto e nove; b) si enunciano, di seguito (dalla pagina dieci) i
motivi di ricorso, riportati in (corsivo) stampatello, in cui le ragioni di censura
vengono esposte facendo richiamo al ricorso introduttivo, indicando le
pagine, precisando, nel primo mezzo, che vi era stato un ‘doppio periodo
annuale di stasi processuale’ di un anno circa ciascuno, da scomputare; c)
dopo al secondo mezzo si rileva che ‘erroneamente la corte ha liquidato un
indennizzo con criterio moltiplicativo’ per avere preso parte al giudizio gli
eredi di Antonio Perna, mentre parti originarie erano solo Carmela Calabrese,
Gino ed Antonio Perna; d) nel successivo terzo motivo si dice che il giudizio
presupposto potesse definirsi tutt’altro che di complessità media, sia per la
pluralità di parti, per l’oggetto (riguardante richiesta di surroga nella petizione
ereditaria e contestuale richiesta di apertura della successione e divisione di
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n. 3 c.p.c., cioè l’esposizione sommaria dei fatti di causa. Si precisa all’uopo

beni ereditari), nonché segnalata una c.t.u., oltre a non meglio precisati ritardi
ricollegabili alla ‘complessità della trattazione’; e) infine segue il quarto motivo
(formulato subordinatamente) sul riconoscimento degli interessi sulle somme
esposte a titolo indennitario.
Il Collegio rileva che l’esposizione del fatto sostanziale e processuale così

insufficiente a far comprendere, sia pure riassuntivamente, i termini dello
svolgimento del giudizio presupposto nel rispetto del requisito di cui all’art.
366 c.p.c. n. 3.
In proposito, in punto di rilievo del requisito della esposizione sommaria dei
fatti di causa, si osserva che per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366
c.p.c., comma 1, n. 3 il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione
chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di
causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i
presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le
difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo
svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni
essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda il provvedimento impugnato e
sulle quali si richiede alla Corte di Cassazione una valutazione giuridica diversa
da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito, anche tenendo
conto della particolare natura del giudizio di equa riparazione in sede di
legittimità (ex multis, Cass. n. 7825 del 2006; n. 12688 del 2006).
Nello stesso ordine di idee si è, inoltre, sempre ribadendo lo stesso concetto,
precisato che il requisito della esposizione sommaria dei fatti di causa,
prescritto, a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione, dall’art. 366
c.p.c. n. 3 postula che il ricorso per cassazione, pur non dovendo
necessariamente contenere una parte relativa alla esposizione dei fatti
strutturata come premessa autonoma e distinta rispetto ai motivi o tradotta in
una narrativa analitica o particolareggiata dei termini della controversia, offra,
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fornita dall’Amministrazione ricorrente sia del tutto inadeguata ed

almeno nella trattazione dei motivi di impugnazione, elementi tali da
consentire una cognizione chiara e completa non solo dei fatti che hanno
ingenerato la lite, ma anche delle varie vicende del processo e delle posizioni
eventualmente particolari dei vari soggetti che vi hanno partecipato, in modo
che si possa di tutto ciò avere conoscenza esclusivamente dal ricorso

il provvedimento impugnato. E, in applicazione di tale principio si è dichiarato
inammissibile il ricorso in cui risultavano omesse: la descrizione dei fatti che
avevano ingenerato la controversia, la posizione delle parti e le difese spiegate
in giudizio dalle stesse, le statuizioni adottate dal primo giudice e le ragioni a
esse sottese, avendo, per tali fondamentali notizie, il ricorrente fatto rimando
alla citazione in appello (Cass. n. 4403 del 2006; ma anche
Cass. n. 15808 del 2008; Cass. n. 2831 del 2009; Cass. n. 5660 del 2010). In
altri termini, è indispensabile che dal contesto del ricorso sia possibile
desumere una conoscenza del “fatto”, sostanziale e processuale, sufficiente per
intendere correttamente il significato e la portata delle critiche rivolte alla
pronuncia oggetto di impugnazione.
Va, altresì, ricordato che costituisce principio altrettanto consolidato che, ai
fini della detta sanzione di inammissibilità, non è possibile distinguere fra
esposizione del tutto omessa ed esposizione insufficiente (Cass. n. 1959 del
2004).
Nella specie l’esposizione del fatto che si è sopra riferita è del tutto carente
non già con riferimento al livello di informazione che è dovuto a questa Corte
riguardo ai documenti ed agli atti processuali sui quali fonda il ricorso, cioè si
fondano i suoi motivi, ma ancora prima riguardo alle informazioni essenziali
dirette a fornire le tappe della vicenda relativa al giudizio presupposto, oggetto
del processo cui il ricorso si riferisce e sul suo divenire nelle fasi di merito.
L’esposizione de qua, infatti, non è in alcun modo chiara ed esauriente,
sebbene senza pretesa di analiticità o di carattere particolareggiato, quanto ai
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medesimo, senza necessità di avvalersi di ulteriori elementi o atti, ivi compreso

fatti di causa, giacché non è articolato alcun pur sommario riferimento
individuatore ai fatti costitutivi posti a fondamento della pretesa indennitaria;
non si individuano le difese svolte dalla Amministrazione, e le conclusioni di
ciascuna parte, sicché riesce incomprensibile il riferimento, nel primo motivo,
ai tempi computati per la proposizione delle impugnazioni, nonché, al terzo

eredi di Antonio Perna, al secondo motivo, oltre al difetto di domanda per gli
accessori, di cui al quarto motivo.
Del resto di recente, nel senso di cui sopra, si sono espresse le Sezioni Unite di
questa Corte che ancora più esplicitamente, con riferimento a ricorso
confezionato col sistema definito del c.d. dell’assemblaggio, come quello di
specie, hanno statuito che in tema di ricorso per cassazione, ai fini del
requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3, la pedissequa riproduzione dell’intero,
letterale contenuto degli atti processuali è, per un verso, del tutto superflua non essendo affatto richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti
nei quali la vicenda processuale si è articolata – per altro verso, è inidonea a
soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale
ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui
non occorre sia informata), la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine
ai motivi di ricorso, come nella specie (Cfr. anche Cass. SS.UU. n. 5698 dell’11
aprile 2012) .
In tale situazione il ricorso risulta, dunque, inammissibile per palese
inosservanza del requisito di cui all’art. 366 n. 3 c.p.c. e di specifiche
argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in
qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nel provvedimento
gravato debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della
fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di
legittimità e/o dalla prevalente dottrina, diversamente non ponendosi la Corte
regolatrice in condizione di adempiere al suo istituzionale compito di
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motivo, alla complessità del giudizio presupposto e la diversa posizione degli

verificare il fondamento della lamentata violazione. Manca, infatti, una
circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito, nel
risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante
specifiche e puntuali contestazioni delle soluzioni stesse nell’ambito di una
valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nei motivi e non

motivazione del provvedimento impugnato (cfr., a plurimis, Cass. n. 1063 del
2005, n. 21896 del 2004, n. 13830 del 2004, n. 2707 del 2004, n. 5581 del
2003, n. 2312 del 2003, n. 15177 del 2002 e n. 6123 del 2001).
Passando all’esame del ricorso incidentale, con unico motivo, i
ricorrenti incidentali denunciano omessa motivazione su un fatto decisivo per
avere la corte di appello non argomentato la sua decisione di disattendere la
richiesta dei ricorrenti di verificare la durata del giudizio considerando anche il
Tasso di tempo intercorso fra il deposito del ricorso de quo e quello di
emissione del decreto impugnato, essendo ancora pendente la lite.
Il motivo è inammissibile.
Infatti, la censura si colloca certamente tra i vizi denunciabili ai sensi dell’art.
360 n. 4 c.p.c. mentre parte ricorrente incidentale ha, sia formalmente sia
sostanzialmente, denunciato la omessa “motivazione” circa il lasso di tempo
intercorso fra il deposito del ricorso de quo e l’emissione del decreto
impugnato. Ora, è vero che le Sezioni unite hanno recentemente ribadito un
indirizzo meno formalistico quanto all’onere della specificità ex art. 366 c.p.c.,
n. 4, secondo cui il ricorso deve indicare “i motivi per i quali si chiede la
cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano”, nel
senso che lo stesso non debba essere inteso quale assoluta necessità di formale
ed esatta indicazione della ipotesi, tra quelle elencate nell’art. 360 c.p.c.,
comma 1, cui si ritenga di ascrivere il vizio, nè di precisa individuazione, nei
casi di deduzione di violazione o falsa applicazione di norme sostanziali o
processuali, degli articoli, codicistici o di alti testi normativi. Nondimeno, le
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attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla

SSUU hanno precisato che il ricorso deve essere articolato in specifici motivi
immediatamente ed inequivocabilmente riconducili ad una delle cinque ragioni
di impugnazione previste dalla citata disposizione, pur senza la necessaria
adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle
predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa

o eccezioni formulate, non è necessario che faccia espressa menzione della
ricorrenza dell’ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (con riferimento
all’art. 112 c.p.c.), “purché nel motivo si faccia inequivocabilmente riferimento
alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione. Va invece
dichiarato inammissibile il motivo allorquando, in ordine alla suddetta
doglianza, il ricorrente sostenga che la motivazione sia stata omessa o
insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge” (Cass. SS.UU.
n. 17931 del 24 luglio 2013).
Conclusivamente il ricorso principale va dichiarato inammissibile e quello
incidentale va rigettato.
La reciproca soccombenza giustifica l’integrale compensazione delle spese del
giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, dichiara inammissibile il ricorso principale e rigetta quello
incidentale;
dichiara interamente compensate fra le parti le spese del giudizio di
Cassazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della VI-2^ Sezione Civile, il 9
gennaio 2014.

pronunzia da parte della impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande

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