Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12611 del 17/06/2016


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Cassazione civile sez. VI, 17/06/2016, (ud. 11/05/2016, dep. 17/06/2016), n.12611

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28908-2014 proposto da:

P.F., elettivamente domiciliata in ROMA, V. GERMANICO

172, presso lo studio dell’avvocato S.G., che lo

rappresenta e difende giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE SPA 97103880585, elettivamente domiciliato in ROMA,

V.LE MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO,

rappresentato e difeso dall’avvocato PAOLO TOSI giusta procura a

margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 241/2014 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 29/05/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

11/05/2016 dal Consigliere Relatore Dott. ROSA ARIENZO.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 11.5.2016, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., sulla base della seguente relazione, redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:

“Con sentenza del 29.5.2014, la Corte di appello di Trieste confermava la decisione del Tribunale di Udine che, sul presupposto dell’avvenuta cessazione del rapporto di lavoro per mutuo consenso, aveva respinto le domande proposte da P.F., intese ad ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto ai contratti stipulati con P.I. s.p.a. nel periodo dal 13.6.2001 al 30.9.2001 e dal 11.6.2002 al 11.8.2002 e la conversione in un unico rapporto a tempo indeterminato, con ricostituzione dello stesso, oltre che la condanna al pagamento delle retribuzioni maturate fino alla ripresa del lavoro.

Rilevava la Corte che doveva essere respinto il motivo di gravame relativo al ritenuto scioglimento del rapporto per mutuo consenso, in quanto la P., dopo la conclusione del rapporto di lavoro, non aveva assunto alcuna iniziativa dimostrativa di interessamento per ulteriori assunzioni presso P.I. fino all’impugnazione stragiudiziale del contratto in data 16.11.2009, dopo circa sette anni, ed in considerazione della circostanza che la stessa aveva trovato altra occupazione, prima a tempo parziale e poi quale co.co.co., presso altri datori di lavoro.

Riteneva, pertanto, che l’instaurazione di un distinto rapporto di lavoro a tempo pieno con altro datore di lavoro già in epoca antecedente alla instaurazione del giudizio di primo grado, unitamente alle altre evidenziate circostanze, fosse tale da fare ritenere validamente e fondatamente integrata la fattispecie della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro per facta concludentia.

Per la cassazione di tale decisione ricorre la P., affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso, la società.

Viene denunziata, con il primo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c. e, con il secondo, la violazione degli artt. 1321, 1362 e 1372 c.c., sul rilievo che sono stati valorizzati elementi inidonei a dimostrare la chiara e certa volontà delle parti di risolvere e porre fine ad ogni rapporto lavorativo, non essendo la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto sufficiente a far considerare sussistente la ritenuta risoluzione del rapporto, dovendo essere accertata una chiara e certa comune volontà risolutoria. Aggiunge la ricorrente che erronea deve ritenersi anche la ritenuta incompatibilità con la volontà di proseguire il rapporto, e quindi come comportamento interpretabile come tacita dichiarazione di rinunzia, della condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque a cercare altra occupazione dopo avere perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni.

Con riguardo ad entrambi i motivi – da trattarsi congiuntamente per l’evidente connessione delle questioni che ne costituiscono l’oggetto – deve richiamarsi quanto reiteratamente affermato da questa Corte, secondo cui “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata –

sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v, Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-122004 n. 23554, nonchè più di recente, Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4/8/2011 n. 16932, Cass. 28.1.2014 n. 1780).

La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, “è di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso” (v. Cass. 15/11/2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887, e, da ultimo, Cass. 28.1.2014 n. 1780, Cass. 1.7.2015 n. 13535, Cass. 3.12.2015 n. 24665), mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisca tale risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre, Cass. 1- 2-2010 n. 2279).

Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli artt. 1372 e 1321 c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto e non potendo attribuirsi significatività alla percezione del tfr senza riserve o a prestazioni lavorative presso terzi.

In via di principio, è ipotizzabile una risoluzione del rapporto di lavoro per fatti concludenti (cfr., ad es., Cass. 6 luglio 2007 n. 15264, 7 maggio 2009 n. 10526); l’onere di provare circostanze significative al riguardo grava sul datore di lavoro che deduce la risoluzione per mutuo consenso (cfr. ad es. Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070 e 2 dicembre 2000 n. 15403); la relativa valutazione da parte del giudice costituisce giudizio di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità, se non sussistono vizi logici o errori di diritto (v. Cass. 10 novembre 2008 n. 26935, Cass. 28 settembre 2007 n. 20390); la mera inerzia del lavoratore nel contestare la clausola appositiva del termine, così come la ricerca medio tempore di una occupazione, non sono sufficienti a far ritenere intervenuta la risoluzione per mutuo consenso.

In particolare, come precisato nella più recente Cass. 12 aprile 2012, n. 5782, “quanto al decorso del tempo, si tratta di dato di per sè neutro, come sopra chiarito (per un’ipotesi analoga a quella oggi in esame, vale a dire di decorso di circa sei anni fra cessazione del rapporto a termine ed esercizio dell’azione da parte del lavoratore v., da ultimo, Cass. n. 16287/2011). In ordine, poi, alla percezione del t.f.r., questa S.C. ha più – volte avuto modo di rilevare che non sono indicative di un intento risolutorio nè l’accettazione del t.f.r. nè la mancata offerta della prestazione, trattandosi di comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione del termine (cfr., Cass., n. 15628/2001, in motivazione). Lo stesso dicasi della condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni (cfr. Cass. n.839/2010, in motivazione, nonchè, in senso analogo, Cass., n. 15900/2005, in motivazione)” – si vedano, in termini, anche le recenti Cass. 7 aprile 2014, n. 8061, Cass. 20 marzo 2014, n. 6632 -.

Ciò premesso, deve ritenersi che la Corte di merito non abbia fatto corretta applicazione di tali regole, laddove ha evidenziato che il ritardo con cui la lavoratrice ha agito in giudizio per far valere l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso costituisca una inequivoca manifestazione di rinuncia alla sua prosecuzione o comunque una volontà diretta alla modifica del rapporto. Invero, la mancanza di contestazione al momento della cessazione del contratto, in uno con la accettazione senza riserva del t.f.r., è circostanza comunque incentrata sulla complessiva inerzia del lavoratore, mentre la breve durata del contratto è circostanza sostanzialmente estranea al comportamento successivo delle parti. La medesima estraneità sussiste anche con riguardo allo svolgimento di altra attività lavorativa. Ed infatti, la ricerca di un nuovo lavoro è imposta al lavoratore dalla elementare necessità di sopperire comunque ai bisogni della vita.

In conclusione, sono stati disattesi i principi reiteratamente affermati, che hanno ritenuto il mero decorso del tempo privo di significatività ai fini considerati, dovendo attribuirsi portata neutra al lasso temporale di non attuazione del rapporto, analogamente che allo svolgimento di attività lavorativa presso tersi dopo la scadenza del rapporto.

Si propone pertanto l’accoglimento del ricorso, la cassazione della decisione impugnata ed il rinvio al giudice del merito per l’esame della questione alla luce dei principi richiamati.

La causa deve essere rimessa al giudice del rinvio anche per l’eventuale esame delle questioni rimaste assorbite.

Al riguardo si ritiene, invero, che debba essere rimesso al giudice di rinvio, oltre che l’esame della questione esaminata, anche l’accertamento della sussistenza – e di conseguenza la disamina – di tutte le questioni che risultino (eventualmente) ancora aperte, in quanto non implicitamente rinunciate ex art. 346 c.p.c., ossia delle questioni che, rimaste assorbite in primo grado, siano state riproposte in appello dalla parte vittoriosa”.

Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio. Entrambe le parti hanno depositato memorie, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 2.

Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla richiamata giurisprudenza di legittimità, e che le stesse conducano all’accoglimento del ricorso, non essendo le osservazioni della società – che nella sostanza replicano il contenuto del ricorso – idonee a scalfire i passaggi argomentativi sui quali si fonda la relazione, che ha ribadito il principio già ripetutamente affermato da questa Corte, secondo il quale la risoluzione per mutuo consenso costituisce pur sempre una manifestazione negoziale, che, seppur tacita, non può essere configurata su un piano esclusivamente oggettivo, in conseguenza della mera cessazione della funzionalità di fatto del rapporto di lavoro (cfr., da ultimo, Cass. 20.1.2014 n. 1780, Cass. 14.10.2015 n. 20704).

Alla cassazione della decisione impugnata consegue il rinvio della causa alla Corte del merito designata per nuovo esame alla luce dei principi giurisprudenziali richiamati, nonchè per la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il ricorso, cassa la decisione impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Trieste in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 11 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 17 giugno 2016

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