Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12578 del 17/06/2015


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 12578 Anno 2015
Presidente: MAZZACANE VINCENZO
Relatore: ABETE LUIGI

SENTENZA
sul ricorso 27374 – 2009 R.G. proposto da:
CAPANCIONI MARIA FRANCA – c.f. CPNMFR46P50G873P – elettivamente domiciliata
in Roma al viale Bruno Buozzi, n. 87, presso lo studio dell’avvocato Massimo Colarizi che
congiuntamente e disgiuntamente all’avvocato Mario Vittorio Guarnati la rappresenta e
difende in virtù di procura speciale a margine del ricorso.
RICORRENTE
contro
ROMANI GIUDITTA — c.f. RMNGTT35A65E848B – elettivamente domiciliata in Roma, al
viale Parioli, n. 180, presso lo studio dell’avvocato Francesco Luigi Braschi che
congiuntamente e disgiuntamente all’avvocato Maurizio Sartori la rappresenta e difende in
virtù di procura speciale a margine del controricorso.
CONTRORICORRENTE — RICORRENTE INCIDENTALE
e
TRIMELONI MARIA

-(5–

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1

Data pubblicazione: 17/06/2015

..

INTIMATA
Avverso la sentenza n. 1662 dei 15.4/17.12.2008 della corte d’appello di Venezia,
Udita la relazione della causa svolta all’udienza pubblica del 18 marzo 2015 dal consigliere
dott. Luigi Abete,

ricorrente;
Udito l’avvocato Gianpaolo Ruggiero per delega dell’avvocato Francesco Luigi Braschi per la
controricorrente, Giuditta Romani;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale dott. Lucio Capasso,
che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, in tal guisa assorbita ogni decisione in
ordine al ricorso incidentale,
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso ex art. 703 c.p.c. al pretore di Verona depositato in data 12.5.1999 Giuditta
Romani esponeva
che era proprietaria e possessore alla località S. Antonio del comune di Malcesine di un fondo
rustico, confinante, a nord — ovest, con terreno di proprietà di Maria Trimeloni e, a sud, con
terreno di proprietà di Maria Franca Capancioni,
che il suo fondo era posto, causa la morfologia del suolo, ad un livello più elevato rispetto al
terreno della Trimeloni ed era da questo separato da un muro con recinzione in filo spinato,
che nel mese di aprile del 1999 sul terreno di proprietà della Trimeloni, terreno sul quale
gravava servitù di passaggio a favore del fondo della Capancioni, costei aveva intrapreso la
costruzione di un terrapieno parallelamente – per circa 20 m. – al muro di confine tra il fondo
di ella ricorrente ed il fondo della Trimeloni,
che il terrapieno era sorretto, da un lato, dal muro di confine e, dall’altro, da un muro in
calcestruzzo costruito ex novo,
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Udito l’avvocato Fabrizio Mozzillo per delega dell’avvocato Massimo Colarizi per la

che alla sommità del terrapieno era stato realizzato un piano viabile lungo oltre 40 m. e largo
circa 3 m., piano che, dipartendosi dalla strada comunale “Delle Capre”, giungeva sino al
fondo di proprietà della Capancioni,
che le norme tecniche di attuazione del p.r.g. del comune di Malcesine, per le costruzioni

confine,
che, viceversa, la distanza tra il fronte esterno del muro posto sul confine tra la sua proprietà e
la proprietà della Trimeloni ed il paramento esterno del nuovo muro costruito dalla
Capancioni era ampiamente inferiore.
Chiedeva pertanto ordinarsi la sospensione dei lavori e condannarsi Maria Franca
Capancioni e la proprietaria del fondo limitrofo al ripristino dello status quo ante.
Veniva decretata la comparizione delle parti.
Si costituiva Maria Franca Capancioni, che instava per il rigetto dell’avversa domanda.
Si costituiva Maria Trimeloni, che del pari invocava il rigetto dell’avversa istanza; altresì
deduceva di essere estranea alla realizzazione dell’opera.
Disposta e espletata c.t.u., all’esito della fase sommaria il tribunale di Verona — divenuto
nelle more competente — denegava ogni tutela interdittale.
A conclusione della fase a cognizione piena con sentenza n. 3288/2003 il tribunale di
Verona rigettava la domanda e condannava la ricorrente a rimborsare alle controparti le spese
di lite.
Interponeva appello Giuditta Romani.
Resisteva Maria Franca Capancioni.
Non si costituiva e veniva dichiarata contumace Maria Trimeloni.
Con sentenza n. 1662 dei 15.4/17.12.2008 la corte d’appello di Venezia accoglieva il
gravame ed in totale riforma della statuizione di prime cure condannava in solido le appellate
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realizzate nella zona ove erano siti i terreni, prescriveva la distanza minima di 5 m. dal

ad arretrare alla distanza di m. 5 dal confine con il fondo dell’appellante il muro ed il
parapetto dalle medesime appellate eretti e meglio descritti nella relazione di consulenza
tecnica d’ufficio depositata in data 25.10.1999; condannava in solido le appellate a rimborsare
all’appellante le spese del doppio grado.

25.10.1999 emerge, in particolare, che il fondo dell’appellata Trimeloni ha subito le
modificazioni evidenziate (…) nell’allegato n. 3 con innalzamento del terrapieno rispetto al
naturale declivio del terreno” (così sentenza d’appello, pag. 5); che, “poiché il dislivello
sorretto dal muro di contenimento in oggetto deriva dall’opera dell’uomo, devono
considerarsi costruzioni il muro di sostegno e il terrapieno” (così sentenza d’appello, pag. 5);
che “il mancato rispetto della distanza di m. 5 dal confine, pacificamente prescritta per le
costruzioni nella zona dalle N.T.A. del regolamento comunale, integra molestia, tutelabile ex
art. 1170 c.c., comprimendo le facoltà di godimento del fondo dell’appellante” (così sentenza
d’appello, pag. 5); che conseguentemente entrambe le appellate, autrici materiale e morale
della molestia, andavano in solido “condannate ad arretrare alla distanza di m. 5 dal confine
muro e terrapieno” (così sentenza d’appello, pag. 5).
Esplicitava inoltre la corte distrettuale, in relazione all’ulteriore motivo di gravame, con
cui l’appellante aveva dedotto che “la creazione di una strada sopraelevata rispetto al
precedente declivio naturale finisce per creare o aggravare la servitù di veduta a carico del
proprio fondo” (così sentenza d’appello, pagg. 4 – 5), che trattavasi di nuova prospettazione
operata dall’appellante unicamente in sede di gravame.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso Maria Franca Capancioni; ne ha chiesto sulla
scorta di sette motivi la cassazione con ogni conseguente statuizione in ordine alle spese di
lite.

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Esplicitava la corte territoriale che “dalla relazione del C.T.U. (…), depositata il

Giuditta Romani ha depositato controricorso contenente ricorso incidentale condizionato
fondato su di un unico motivo; ha chiesto dichiararsi inammissibile ovvero rigettarsi l’avverso
ricorso con il favore delle spese del presente grado; in ipotesi di accoglimento del ricorso
principale ha chiesto accogliersi il ricorso incidentale e dunque cassarsi la sentenza della corte

L’intimata Maria Trimeloni non ha svolto difese.
Maria Franca Capancioni ha notificato controricorso onde resistere all’avverso ricorso
incidentale condizionato.
La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Giuditta Romani del pari ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente principale deduce “violazione dell’art. 360 n. 3 e 5 per
erronea e falsa interpretazione dell’art. 26 delle N.T.A. del Comune di Malcesine in relazione
all’art. 12 delle preleggi” (così ricorso principale, pag. 5).
Adduce che l’art. 26 delle n.t.a. del p.r.g. del comune di Malcesine impone il rispetto della
distanza di 5 m. dal confine unicamente per i fabbricati, termine con il quale “si intendono
solitamente solo gli edifici o quei manufatti agli stessi riconducibili non certo i terrapieni”
(così ricorso principale, pag. 5); che la corte di merito nemmeno ha “motivato tale sua
interpretazione contro il testo letterale della norma essendosi limitata a dire che tale distanza è
pacificamente prescritta dalla disposizione in esame” (così ricorso principale, pag. 5); che ciò
tanto più che la corte veneziana ha ordinato “l’arretramento del , opera mai
costruita dalla ricorrente ed attinente ad un’ipotetica servitù di veduta la cui domanda è stata
ritenuta tardiva” (così ricorso principale, pag. 6).

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d’appello di Venezia con ogni susseguente provvedimento.

Con il secondo motivo la ricorrente principale deduce “violazione dell’art. 360 n. 3 e 5
per erronea e falsa applicazione dell’art. 26 delle N.T.A. del Comune di Malcesine in
relazione agli artt. 873 e 1170 c.c.” (così ricorso principale, pag. 6).
Adduce che “l’errata interpretazione della norma non può che portare alla falsa

dalla norma tecnica” (così ricorso principale, pag. 6); che invero “le opere per cui è causa,
(…) non essendo fabbricati, non possono ritenersi soggette alla distanza dal confine né in
forza del citato art. 26 delle N.T.A. né in forza dell’articolo 873 c.c.” (così ricorso principale,
pag. 6); che “la mancanza di una distanza dal confine da applicare, esclude ex se la
sussistenza della lesione possessoria” (così ricorso principale, pag. 7);
Il primo ed il secondo motivo sono strettamente connessi.
Se ne giustifica, perciò, la disamina congiunta.
Ambedue i motivi, comunque, sono immeritevoli di seguito.
Si rileva esaustivamente – e contrariamente a quanto assume la ricorrente – che
l’insegnamento di questa Corte è nel senso che il muro di sostegno di un terrapieno, in quanto
costituente vera e propria costruzione, è da considerare alla stregua di un muro di fabbrica ai
fini delle distanze legali (cfr. Cass. 26.11.1987, n. 8787; cfr. altresì Cass. 13.5.2013, n.
11388, secondo cui, in tema di distanze legali, rientrano nel concetto di “costruzione”, agli
effetti dell’art. 873 c. c., il terrapieno ed i locali in esso ricompresi, avendo il medesimo
terrapieno la funzione essenziale di stabilizzare il piano di campagna posto a quote differenti
dal fondo confinante, mediante un manufatto eretto a chiusura statica del terreno; Cass.
15.6.2001, n. 8144, secondo cui il muro di sostegno di un terrapieno, in quanto costituente
vera e propria costruzione ai fini delle distanze legali, deve considerarsi come muro di
fabbrica e non come muro di cinta che, a norma dell’art. 878 c.c., è quello destinato alla

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applicazione della stessa attesa la diversa fattispecie oggetto di causa rispetto a quella regolata

protezione e delimitazione del fondo con altezza non superiore a tre metri e con le due facce
isolate).
Con il terzo motivo la ricorrente principale deduce “violazione dell’art. 360 n. 3 e 5 e
falsa applicazione dell’art. 873 c.c. e per errata interpretazione delle N.T.A. vigenti nel
Comune (art. 26) in relazione all’art. 1170 c.c.” (così ricorso principale, pag. 7).

contempo prescrivono, sicché “l’unica distanza ritenuta inderogabile dallo strumento
urbanistico locale è quella fra fabbricati e non dal confine” (così ricorso principale, pag. 7);
che al contempo “sul fondo Romani (…) non esisteva e non esiste alcuna costruzione che
potesse e possa impedire (…) la costruzione in confine” (così ricorso principale, pag. 7); che
“la costruzione Capancioni, in ogni caso, sconta (…) il diritto del preveniente, regolato
dall’art. 873 c.c.” (così ricorso principale, pag. 7).
Con il quarto motivo la ricorrente principale deduce “violazione dell’art. 360 n. 3 – 5 per
omessa applicazione degli artt. 877 e 873 c.c. in relazione all’art. 1170 c.c.” (così ricorso
principale, pag. 8).
Adduce che la corte territoriale non ha considerato che la nuova costruzione è stata
realizzata sul confine “in aderenza ad opera preesistente” (così ricorso principale, pag. 8)
ovvero in aderenza al “muro di confine che sorregge il fondo superiore” (così ricorso
principale, pag. 8), “il tutto come prescrive l’art. 873 c.c. e come l’art. 877 consente in ogni
momento” (così ricorso principale, pag. 8); che, “a fronte di tale possibilità la natura
artificiale del terrapieno (…), appare irrilevante viste le norme citate” (così ricorso principale,
pag. 8).
11 terzo ed il quarto motivo del pari sono strettamente correlati.

Il che analogamente ne suggerisce l’esame contestuale.
Entrambi i motivi, in ogni caso, non sono meritevoli di seguito.
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Adduce che le n.t.a. consentono la costruzione in deroga alla distanza dal confine che al

Segnatamente, in relazione al terzo motivo, è sufficiente il riferimento — siccome prospetta
la controricorrente (cfr. controricorso, pag. 10) — al testuale dettato dell’art. 26, 3 0 co., delle
n.t.a. del p.r.g. del comune di Malcesine, alla cui stregua “le distanze da confini di proprietà
possono essere diminuite a condizione che tra i confinanti venga determinata una servitù di

immobiliari, in modo che la distanza minima tra fabbricati prescritta dalle norme di zona sia
sempre rispettata”.
E’ senz’altro possibile, quindi, che si costruisca a distanza dal confine inferiore a quella
prescritta, subordinatamente tuttavia ad una duplice condizione.
Ovvero alla condizione per cui sia in ogni caso rispettata la distanza minima tra i
fabbricati ed alla condizione per cui sia stata siglata dai confinanti un’apposita convenzione —
da trascriversi nei registri immobiliari — costitutiva evidentemente di una servitù a carico del
fondo le cui eventuali sovrastanti costruzioni dovranno essere posizionate a distanza dal
confine superiore a quella minima, sì che sia in ogni caso garantita l’osservanza del distacco
minimo tra i fabbricati.
Orbene, siccome la controricorrente ha debitamente posto in risalto, non si è acquisito
alcun riscontro della stipula dell’imprescindibile convenzione.
Né, ulteriormente, vi è margine, al cospetto della disciplina dettata dall’art. 26 cit.,
indiscutibilmente diretta ad assicurare comunque la sussistenza di uno spazio libero tra le
costruzioni, perché operi il principio della prevenzione.
Segnatamente, in relazione al quarto motivo, non può non condividersi il profilo di
contraddittorietà ed incongruenza che la controricorrente ha puntualmente posto in luce
(l’affermazione secondo cui la costruzione è “avvenuta in confine (…) in aderenza ad opera
preesistente” — così ricorso, pag. 8 — “appare del tutto contraddittoria ed incoerente con
quanto afferms to in precedenza laddove l’edificazione a confine è sostenuta sul presupposto

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inedificabilità sul terreno vicino con apposita convenzione da trascriversi nei registri

dell’assenza di fabbricati a distanza inferiore di ml. 10 posti sulla proprietà della resistente”:
così controricorso, pag. 11).
In ogni caso, non vi è motivo per negare che “a confine tra le due proprietà non esiste
alcun corpo di fabbrica nei confronti del quale costruire in aderenza, trattandosi del naturale

(così controricorso, pag. 12), giacché è la medesima ricorrente che parla di “un terrapieno
costruito in aderenza al muro di sostegno del fondo superiore, ossia ad un altro terrapieno
sovrastante” (così ricorso, pag. 10).
Su tale scorta è sufficiente ribadire l’insegnamento di questa Corte secondo cui non può
essere considerato come costruzione, ai fini dell’osservanza delle distanze legali, il muro che,
nel caso di dislivello naturale, oltre a delimitare il fondo, assolve anche alla funzione di
sostegno e contenimento del declivio naturale (cfr. Cass. 15.6.2001, n. 8144).
Con il quinto motivo la ricorrente principale deduce “erronea e falsa applicazione
dell’art. 873 c.c. e degli artt. 112 e 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 – 5 c.p.c.” (così
ricorso principale, pag. 9).
Adduce che non vi è margine per far luogo all’applicazione dell’art. 873 c.c., allorché
“l’entità, l’ubicazione e le caratteristiche strutturali delle opere realizzate risultino
obiettivamente tali da non essere in contrasto con la (…) finalità” (così ricorso principale,
pag. 9) di evitare l’insorgere di intercapedini; che, in questi termini, la realizzazione di un
terrapieno in aderenza al muro di sostegno del fondo superiore in nessun modo vale a
determinare l’insorgere di una intercapedine; che conseguentemente tale omessa valutazione,
da un lato, induce a ritenere che la corte territoriale non ha “a sufficienza e logicamente
motivato la sua decisione” (così ricorso principale, pag. 10), dall’altro, che se tale valutazione
fosse stata compiuta, si sarebbe acquisita “conferma che nessun pregiudizio può derivare alla

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declivio del terreno rivestito nella parte finale da pietre per evitare fenomeni di smottamento”

posizione della Romani e pertanto l’insussistenza di qualsiasi turbativa” (così ricorso
principale, pag. 10).

Con il sesto motivo la ricorrente principale deduce “errata applicazione dell’art. 873 c.c.
ed insufficiente ed omessa motivazione in ordine a fatto decisivo per la decisione del giudizio
in relazione all’art. 360 n. 3 – 5 c.p.c.” (così ricorso principale, pag. 11).

ricorrente, “ha però omesso di trarre (…) la giuridica conseguenza della possibilità di
costruire in aderenza” (così ricorso principale, pag. 11); che invero la corte di Venezia “ha
(…) omesso di motivare in ordine (…) alla susseguente idoneità dell’opera a creare
intercapedini” (così ricorso principale, pag. 11).
Il quinto ed il sesto motivo parimenti sono in stretta connessione.

Se ne giustifica dunque il vaglio simultaneo.
Ambedue i motivi, comunque, sono immeritevoli di seguito.
Ed invero si ammetta pure che il terrapieno artificiale costruito da Maria Franca
Capancioni “in aderenza al muro di sostegno del fondo superiore” (così ricorso, pag. 10) non
abbia dato luogo ad alcuna intercapedine.
E’ fuor di dubbio, nondimeno e per un verso, che l’art. 26 delle n.t.a. del p.r.g. del comune
di Malcesine impone il rispetto della distanza di 5 m. dal confine, con possibilità di deroga
che — siccome premesso in sede di vaglio del terzo e del quarto motivo — non si configura
però nella fattispecie.
E’ fuor di dubbio, nondimeno e per altro verso, che in materia di distanze legali sussiste
un diritto soggettivo al rispetto delle stesse, che sorge indipendentemente dalla possibilità di
costruire e sussiste senza riguardo all’effettiva esistenza di un danno attuale e concreto (cfr.
Cass. 13.10.1976, n. 3417; cfr. altresì Cass. 17.4.1998, n. 3886, secondo cui le norme sulle
distanze sono rivolte alla tutela di interessi pubblicistici, sicché non lasciano alcun margine

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Adduce che la corte territoriale, pur considerando unitariamente l’opera realizzata da ella

di valutazione in ordine ai pregiudizi prodotti dalla loro inosservanza, onde nessuna indagine
è ammissibile per accertare se il fondo del vicino sia o non edificabile, sussistendo il diritto al
rispetto delle distanze indipendentemente dalla possibilità di costruire e dall’esistenza di un
danno attuale e concreto).

legali nelle costruzioni integra una molestia al possesso del fondo finitimo, contro la quale è
data l’azione di manutenzione, perché, anche quando non ne comprime di fatto l’esercizio,
apporta automaticamente modificazione o restrizione delle relative facoltà

(cfr. Cass.

19.3.1991, n. 2927).
Con il settimo motivo la ricorrente principale deduce “violazione art. 360 n. 4 in
relazione all’art. 91 c.p.c.” (così ricorso principale, pag. 12).
Adduce che, limitatamente alla liquidazione delle spettanze del giudizio di primo grado, la
corte territoriale o non ha provveduto a liquidare le spese “vive” o, viceversa, le ha liquidate
congiuntamente agli importi liquidati per diritti ed onorari; che nondimeno “sia nell’un caso
che nell’altro, la liquidazione relativa al primo grado non deve ritenersi ammissibile perché lo
stesso articolo 91 c.p.c. dispone che il giudice condanni la parte soccombente al rimborso
delle spese e ne liquidi l’ammontare insieme agli onorari di difesa” (così ricorso principale,

pag. 13).
Il motivo è inammissibile.
Si dà atto, previamente, con riferimento alla condanna in solido delle appellate al
rimborso all’appellante delle spese del primo grado — condanna specifico oggetto della
censura de qua agitur — che la corte di merito ha liquidato la somma di euro 969,83 a titolo di
“diritti” e la somma di euro 1.750,00 a titolo di “onorari”. Altresì, che indiscutibilmente
l’importo di euro 2.659,83, costituente l’ammontare della liquidazione delle complessive e
globali spese del primo grado, non è pari alla somma di euro 969,83 e di euro 1.750,00.

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E’ fuor di dubbio, nondimeno e per altro verso ancora, che la violazione delle distanze

In questi termini è ben evidente che la corte veneziana nulla ha liquidato — limitatamente
al primo grado – a titolo di rimborso di eventuali spese “vive”.
Ciò nonostante, parte ricorrente non ha interesse alcuno a censurare in parte qua agitur la
statuizione di secondo grado.
Invero l’omessa liquidazione delle spese “vive” si risolve in un vantaggio per la medesima

24.11.1983, n. 7021, secondo cui l’interesse ad impugnare una sentenza, che può discendere
anche dalla motivazione della stessa quando contenga affermazioni pregiudizievoli per la
parte impugnante suscettibili di passare in giudicato, va desunto dall’utilità che l’eventuale
accoglimento dell’impugnazione possa determinare a favore della parte che la propone, di
modo che l’impugnazione va dichiarata inammissibile per difetto di interesse, ove non
sussista la possibilità per la parte di conseguire un risultato utile, giuridicamente
apprezzabile dalla riforma o dall’annullamento della sentenza impugnata).

Si tenga conto, per altro verso, che relativamente alla liquidazione delle complessive
spese del primo grado si è propriamente al cospetto di un errore di calcolo della corte di
merito, consistente in una erronea utilizzazione delle regole matematiche sulla base di
presupposti numerici esattamente determinati.
Un errore siffatto non è denunciabile con il ricorso per cassazione e può essere fatto
valere unicamente con l’apposita procedura di correzione contemplata dagli artt. 287 e ss.
c.p.c. (cfr. Cass. 5.8.2002, n. 11712; Cass. 17.7.1985, n. 4211).

Con 1′ unico motivo la ricorrente incidentale deduce “violazione o falsa applicazione (ex
art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c.) dell’art. 345 c.p.c. per avere la corte d’appello escluso il
profilo della servitù passiva in relazione all’esercizio dell’azione di manutenzione ex art. 1170
c.c.” (così ricorso incidentale, pag. 16).
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Maria Franca Capancioni e ad ogni modo per nulla le è pregiudizievole (cfr. Cass.

Adduce che la realizzazione del terrapieno “ha reso possibile (…), o comunque ben più
agevole, le possibilità di e a favore dei fondi di proprietà delle
controparti” (così ricorso incidentale, pagg. 16 – 17); che “il profilo della lamentata turbativa
con la pretesa costituzione di una servitù passiva non appare dunque assumere i connotati del

grado” (così ricorso incidentale, pag. 16).
E’ ben evidente che l’esito infausto del ricorso principale assorbe e rende vana la
disamina del ricorso incidentale espressamente esperito in via condizionata.

Il rigetto del ricorso principale giustifica la condanna della ricorrente al rimborso in favore
delle controricorrente, Giuditta Romani, delle spese del grado di legittimità. La liquidazione
segue come da dispositivo.
Maria Trimeloni non ha svolto difese. Nonostante il rigetto del ricorso principale,
pertanto, nessuna statuizione nei suoi confronti va assunta in ordine alle spese.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso principale, in tal guisa assorbita la disamina del ricorso
incidentale condizionato; condanna la ricorrente a rimborsare alla controricorrente, Giuditta
Romani, le spese del grado di legittimità che si liquidano in euro 3.000,00, di cui euro 200,00
per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali, i.v.a. e cassa come per legge.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della II sez. civ. della Corte Suprema di

novum, ma, invece, una doglianza immediatamente e logicamente conseguente al decisum di I

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