Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12568 del 12/05/2021

Cassazione civile sez. I, 12/05/2021, (ud. 21/01/2021, dep. 12/05/2021), n.12568

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25342/2017 proposto da:

SIN S.p.a. – Sistema Informativo Nazionale per lo Sviluppo

dell’Agricoltura, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, Via Lazzaro Spallanzani n. 22/a,

presso lo studio dell’avvocato Rizza Vincenzo, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato Nuzzo Antonio, giusta procura in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

G.P., elettivamente domiciliato in Roma, Via S. Agnese, n.

16, presso lo studio dell’avvocato Santorelli Stefano, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato Racioppi Filomena,

giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

Almaviva The Italian Innovation Company S.p.a., B.F.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2016/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 27/03/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

21/01/2021 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Almaviva s.p.a. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Roma G.P. e B.F. proponendo nei confronti dei medesimi l’azione risarcitoria di cui all’art. 2393 bis c.c.; prospettava la responsabilità dei medesimi, nelle rispettive qualità di direttore generale e di presidente del consiglio di amministrazione di SIN s.p.a., per la violazione dei doveri di diligenza stabiliti dalla legge e dallo statuto sociale: violazione consistita nell’appropriazione di denaro mediante l’utilizzo di carte di credito aziendali per finalità proprie dei convenuti, estranee agli interessi sociali, nonchè per aver usufruito di rimborsi non dovuti, per essere incorsi in infrazioni al C.d.S. per le quali SIN era stata oggetto di sanzioni pecuniarie e per aver omesso di svolgere il doveroso controllo sulla gestione sociale; l’attrice domandava così il risarcimento del danno patrimoniale, oltre che di quello non patrimoniale, dato dalla lesione dell’immagine conseguente alla divulgazione, nella cronaca giornalistica, dei comportamenti illeciti attuati dai convenuti.

Si costituiva in giudizio G., che contestava il fondamento della domanda attrice, mentre B. restava contumace. Si costituiva pure SIN s.p.a., la quale si rimetteva a giustizia.

Il Tribunale di Roma condannava il solo B. al risarcimento in favore di SIN e liquidava il danno in complessivi Euro 277.833,03;

respingeva la domanda proposta nei confronti di G. con riguardo al profilo di responsabilità afferente l’omesso controllo delle condotte illecite di B. e dichiarava estinta, quanto al resto, la domanda stessa, rilevando che, per tale residua parte, la pretesa risarcitoria era stata trasferita nel processo penale in cui G. era imputato e nel quale SIN si era costituita parte civile.

2. – Seguiva il giudizio di appello: proponevano gravame, infatti, sia G., sia Almaviva, che SIN. Con sentenza del 27 marzo 2017 la Corte di appello di Roma rigettava l’impugnazione di G.; in accoglimento del gravame di Almaviva, regolava poi le spese dei due gradi di merito ponendole a carico del predetto ex direttore generale; dichiarava infine inammissibile l’appello proposto da SIN.

3. – Questa ricorre per cassazione contro la nominata pronuncia facendo valere quattro motivi di impugnazione. Resiste con controricorso G.P.. La ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il controricorrente ha eccepito che la Delibera circa l’azione sociale di responsabilità nei confronti del direttore generale adottata da SIN il 27 marzo 2014 riguarderebbe i soli danni causati dallo stesso per spese non riconducibili ai fini aziendali sostenute tramite carta di credito per il periodo dal 2007 al 2011; ha quindi rilevato che le domande risarcitorie avanzate per la prima volta in appello nei confronti di G. eccedevano quanto deliberato dalla società, riguardando anche altre spese rimborsate da SIN a G., nonchè le somme corrisposte dalla società per infrazioni al C.d.S. poste in essere dal direttore generale e le condotte compiute da B.. Lo stesso controricorrente ha poi dedotto che la Delibera assembleare non aveva conferito al presidente del consiglio di amministrazione della società il potere di proporre impugnazioni.

L’eccezione è anzitutto ammissibile.

In termini generali, m il giudice innanzi al quale sia stata proposta un’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori deve verificare, anche d’ufficio, la sussistenza della deliberazione assembleare che tale azione approva: la verifica deve essere svolta in via preliminare, costituendo quella deliberazione un presupposto (ancorchè suscettibile di successiva regolarizzazione ex tunc) che attiene alla legittimazione di colui che ha agito nel processo, ossia alla stessa efficacia della costituzione in giudizio della società in nome e per conto della quale l’azione di responsabilità è stata esercitata (Cass. 11 novembre 1996, n. 9849): infatti, la legittimazione processuale del legale rappresentante della società necessita, nell’ipotesi di azione sociale di responsabilità, di un indispensabile presupposto, costituito dalla deliberazione assembleare, che ha dunque la funzione di un elemento integratore di detta legittimazione processuale (sent. cit., in motivazione; in termini analoghi, cfr. Cass. 6 giugno 2003, n. 9090, secondo cui la deliberazione assembleare richiesta dell’art. 2393 c.c., comma 1, per l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità è un elemento indispensabile al fine di integrare la legittimazione di colui che, in qualità di legale rappresentante della società, agisce nel processo; in tema cfr. pure Cass. 10 settembre 2007, n. 18939, che peraltro definisce l’autorizzazione assembleare al promovimento dell’azione di responsabilità come una condizione dell’azione).

L’inerenza della questione in oggetto al tema della legittimazione processuale importa che la questione, incidente sulla regolare costituzione del rapporto processuale, possa essere rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, salvo il giudicato interno formatosi sul punto (sul regime delle questioni relative alla legittimazione processuale possono citarsi risalenti arresti di questa Corte: Cass. 23 aprile 1969, n. 1285; Cass. 7 dicembre 1977, n. 5307; Cass. 21 giugno 1979, n. 3461; più di recente, con riguardo a un particolare profilo di legitimatio ad processum: Cass. Sez. U. 16 novembre 2009, n. 24179; Cass. 31 luglio 2015, n. 16274).

Il giudicato interno, nella fattispecie in esame, non risulta essersi poi formato, dal momento che nel precorso giudizio di merito non si è dibattuto della suddetta legittimazione (cfr., se pure in tema di legittimazione ad agire, Cass. Sez. U. 20 marzo 2019, n. 7925, secondo cui la decisione della causa nel merito non comporta la formazione del giudicato implicito sulla legittimazione ad agire ove tale quaestio juris, pur avendo costituito la premessa logica della statuizione di merito, non sia stata sollevata dalle parti, posto che una questione può ritenersi decisa dal giudice di merito soltanto ove abbia formato oggetto di discussione in contraddittorio).

Contrariamente a quanto ritenuto da SIN, dunque, l’eccezione sollevata dal controricorrente non trova ostacolo nella mancata proposizione di impugnazione sul punto.

L’eccezione svolta da G. è comunque infondata.

Pur non mancando, in dottrina come in giurisprudenza, affermazioni nel senso dell’ammissibilità di un’azione di responsabilità incentrata su fatti diversi da quelli che l’assemblea abbia preso in considerazione allo scopo di precisare i contorni dell’iniziativa giudiziale da intraprendere, è difficile negare che l’organo amministrativo debba conformarsi alla deliberazione che intenda fissare i precisi limiti entro cui l’azione di responsabilità vada modulata. Infatti, l’ampiezza dei poteri spettanti agli amministratori, quanto all’individuazione delle condotte illecite da denunciare con l’azione di responsabilità, dipende dalle concrete determinazioni dell’assemblea, giacchè è quest’ultima a definire, col proprio deliberato, la legittimazione processuale del soggetto che deve agire in giudizio in nome e per conto della società.

Ciò non significa, però, che ove la Delibera rechi menzione di alcuni comportamenti, sia precluso prospettarne in giudizio di ulteriori. A prescindere dall’eventualità della successiva scoperta di fatti ignorati dall’assemblea – fattispecie che qui non ricorre (sicchè è inutile soffermarsi sulla soluzione dottrinale che suggerisce, in presenza di una tale ipotesi, di fare applicazione dell’art. 1711 c.c., comma 2) – va osservato che l’identificazione, nel corpo della Delibera, di alcuni fatti non è, di necessità, un elemento rappresentativo della volontà dell’assemblea di basare su di essi, e su di essi soltanto, l’azione di responsabilità che viene deliberata; siffatta menzione può infatti avere valore esemplificativo, o essere finalizzata a precisare che la domanda giudiziale da proporsi non possa prescinderne, o indicare, più semplicemente, il rilievo che l’assemblea assegna a quella condotta sul piano delle motivazioni che l’hanno spinta a deliberare l’azione di responsabilità (senza tuttavia escludere che questa possa avere ad oggetto anche altri comportamenti).

A tal fine, è da rilevare che le delibere soggiacciono alle regole ermeneutiche dettate per i contratti quando se ne deve interpretare il contenuto dispositivo (Cass. 10 gennaio 2018, n. 375; Cass. 12 dicembre 2005, n. 27387). Ebbene, in materia di interpretazione dei contratti il carattere prioritario dell’elemento letterale non va inteso in senso assoluto, atteso che il richiamo nell’art. 1362 c.c., alla comune intenzione delle parti impone di estendere l’indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici anche laddove il testo dell’accordo sia chiaro ma incoerente con indici esterni rivelatori di una diversa volontà dei contraenti (Cass. 2 luglio 2020, n. 13595; Cass. 26 luglio 2019, n. 20294; Cass. 28 giugno 2017, n. 16181); infatti, il significato delle dichiarazioni negoziali non è un prius, ma l’esito di un processo interpretativo che non può arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore (Cass. 15 luglio 2016, n. 14432).

Ciò posto, la Delib. assemblea 27 marzo 2014, cui la Corte ha accesso (posto che la questione sollevata dal controricorrente ha natura processuale) riguardava la proposta sottoposta dagli amministratori all’organo deliberativo, avente ad oggetto l’avvio dell’azione di responsabilità ex art. 2393 c.c., “per i danni a qualunque titolo causati alla società ed ai suoi azionisti” dall’ex direttore generale (pag. 3). Nel corso della successiva discussione, non veniva espressa alcuna volontà di restringere l’azione di responsabilità ai soli danni derivanti dall’uso delle carte di credito e anzi, il socio Almaviva, alle cui considerazioni si univa altro azionista, faceva presente che il pregiudizio occorso non era limitato a tale profilo. Sulla base di tali emergenze, è possibile affermare che la volontà assembleare non fosse nel senso di circoscrivere rigidamente l’iniziativa giudiziale deliberata ai danni derivanti dall’uso improprio dalle carte di credito (anche se quello fu evidentemente considerato il tema di responsabilità più significativo).

A maggior ragione deve negarsi fondamento all’assunto, espresso dal controricorrente, per cui la Delibera in questione non avrebbe conferito al presidente del consiglio di amministrazione il potere di proporre impugnazioni. La Delibera non contiene alcuna indicazione in tal senso ed è del resto da escludere che l’assemblea fosse tenuta a pronunciarsi sul punto, visto che l’intervento dell’organo assembleare è previsto, oltre che per la proposizione dell’azione di responsabilità, per i soli casi di rinuncia all’esercizio della detta azione e di transazione (cfr. art. 2393 c.c., comma 6).

2. – Col primo motivo di ricorso viene eccepita la nullità del procedimento e della sentenza per violazione degli artt. 100,112,329 e 345 c.p.c.. Viene lamentato che la Corte di appello abbia omesso di pronunciarsi sulle domande proposte dall’odierna ricorrente, reputandole inammissibili in quanto domande nuove. Viene dedotto che la società istante aveva riproposto le domande già formulate da Almaviva in primo grado, le quali erano state ingiustamente respinte dal Tribunale. E’ osservato che il giudice del gravame avrebbe dovuto pronunciarsi sul merito delle dette domande posto che la “rimessione a giustizia” rappresentata dalla stessa SIN avanti al giudice di prima istanza non implicava acquiescenza alla sentenza del Tribunale e non ne precludeva, quindi, l’impugnazione.

Con il secondo mezzo è dedotta la nullità del procedimento e della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., avendo la Corte di appello omesso di pronunciarsi sulle domande proposte da SIN anche con riguardo alla responsabilità di G. per omesso controllo sulle spese effettuate da B.. Sono inoltre denunciate la violazione e falsa applicazione dell’art. 75 c.p.p., artt. 112,116 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, nonchè degli artt. 2396 e 2392 c.c., per avere il giudice del gravame ritenuto erroneamente trasferite in sede penale le domande svolte nei confronti del predetto G. per danni patrimoniali subiti da SIN nonostante il petitum e la causa petendi delle medesime fossero diversi. Viene sottolineato che il giudizio civile aveva ad oggetto l’azione sociale di responsabilità dei danni cagionati a SIN dall’amministratore e dal direttore generale, mentre la costituzione di parte civile nel procedimento penale era finalizzata all’ottenimento del risarcimento dei danni morali derivati dalla condotta delittuosa posta in essere da G. quale incaricato di pubblico servizio. E’ inoltre osservato che in sede penale si era fatta questione del risarcimento del solo danno morale, non anche di quello patrimoniale e che, in ogni caso, l’accertamento di responsabilità di G. demandato al giudice civile investiva profili diversi rispetto a quelli trattati – sede penale, ove si dibatteva dell’indebito utilizzo delle carte di credito aziendali da parte del nominato soggetto. La ricorrente deduce, in tal senso, che la Corte di appello di Roma avrebbe dovuto quindi condannare G. al rimborso delle spese ingiustificate, poste in essere dal medesimo, che risultavano essere differenti da quelle derivanti dall’arbitrario utilizzo delle carte di credito.

I due motivi si prestano a una trattazione congiunta.

Occorre premettere che la Corte di appello ha rilevato che, successivamente all’introduzione del giudizio civile da parte di Almaviva, SIN si era costituita parte civile nel procedimento penale a carico di B. e G., domandando il risarcimento dei danni cagionati ad essa dalle condotte illecite oggetto del giudizio penale: le stesse che avevano formato oggetto di doglianza da parte di Almaviva in sede civile. In conseguenza, la Corte di merito ha ritenuto che, in dipendenza della duplicazione delle azioni, che avevano identica natura, presentavano lo stesso contenuto e si basavano sugli stessi presupposti in fatto in diritto, la domanda di Almaviva dovesse dichiararsi improcedibile con riguardo alla posizione di G. (per la quale non vi era stata pronuncia di condanna da parte del Tribunale) e, limitatamente ai danni non patrimoniali, anche per la posizione di B.. Ha osservato, infatti, che era venuta meno, nel corso del giudizio, la condizione di esperibilità dell’azione risarcitoria ex art. 2393 bis c.c., avendo SIN fatto valere la stessa pretesa attraverso la propria costituzione di parte civile in sede penale. Ha rilevato, inoltre, che quest’ultima società aveva formulato i medesimi motivi di gravame sollevati da Almaviva: le censure di SIN dovevano, però, dichiararsi inammissibili giacchè la società, in primo grado, era rimasta “remissiva a giustizia”: ragion per cui doveva escludersi che detta società potesse proporre, in appello, domande nuove rispetto al primo grado.

Ora, la mera conclusione di rimettersi alla giustizia indica soltanto la volontà che la causa venga decisa secondo diritto (Cass. 19 gennaio 1979, n. 398; Cass. 12 marzo 1960, n. 488). Nella neutralità che esprime, la formula non consentiva pertanto di escludere l’intendimento della parte di vedere accolte le conclusioni di Almaviva. In tal senso, non può condividersi l’assunto della Corte di merito secondo cui, con la prestata adesione, in appello, alle domande dell’originaria attrice, SIN avrebbe introdotto in giudizio domande nuove.

E’ certo, d’altra parte, che la rimessione a giustizia non importi preventiva accettazione della decisione resa, nè impedimento alla sua impugnazione (Cass. 27 gennaio 2014, n. 1553; Cass. 9 novembre 2007, n. 23379). E’ pure da escludere, dunque, che la proposizione dell’appello da parte di SIN trovasse ostacolo in una ipotetica acquiescenza alla decisione di primo grado.

Va pure osservato che il socio che agisce in giudizio ex art. 2393 bis c.c., è munito di una legittimazione straordinaria riconducibile alla generale previsione dell’art. 81 c.p.c.: egli ricopre, cioè, la posizione di sostituto processuale della società. Quest’ultima, quindi, ben può impugnare la sentenza sfavorevole al sostituto e coltivare, in appello, le domande da lui proposte in primo grado: tali poteri processuali sono correlati alla titolarità, in capo ad essa, del diritto azionato dal sostituto processuale, che non viene meno per effetto dell’iniziativa di quest’ultimo. Una preclusione, nel senso indicato (quanto, cioè, all’impugnazione della pronuncia e alla riproposizione, in appello, delle conclusioni rassegnate dal sostituto processuale) si sarebbe potuta configurare ove SIN avesse concluso, in primo grado, per il rigetto delle stesse: in tale ipotesi, infatti, essa non avrebbe potuto svolgere impugnazione, e ciò per l’impossibilità di associare una propria soccombenza alla pronuncia reiettiva resa. All’opposto, in presenza delle conclusioni di rimettersi a giustizia, rassegnate in primo grado – le quali non riflettono, come si è visto, una volontà contraria di SIN quanto all’accoglimento delle domande proposte da Almaviva, nè una sua preventiva acquiescenza nei confronti della sentenza di rigetto della domanda risarcitoria proposta dal sostituto processuale – l’odierna ricorrente era pienamente titolata a proporre appello avverso la pronuncia di primo grado e ad insistere per l’accoglimento della domanda risarcitoria.

Per la medesima ragione SIN era legittimata a impugnare la pronuncia della Corte di merito nella parte in cui essa, prendendo in considerazione l’appello incidentale di Almaviva, ha ritenuto che la pretesa fatta valere da quest’ultima trovasse ostacolo nell’azione civile svolta dalla stessa ricorrente in sede penale. Tale preclusione, infatti, opera nei confronti non solo di Almaviva, ma anche di SIN, di cui la prima, nel giudizio intrapreso a norma dell’art. 2393 bis c.c., è sostituto processuale ex art. 81 c.p.c.: l’odierna ricorrente non potrebbe aspirare ad alcuna decisione di merito in sede civile se, come affermato dal giudice di appello, la correlativa azione era stata trasferita in sede penale, a norma dell’art. 75 c.p.p., comma 1.

Con riguardo al trasferimento dell’azione civile in sede penale, il secondo motivo pone due questioni, entrambe implicate dal principio per cui, per aversi detto trasferimento, deve esservi effettiva coincidenza delle azioni per petitum e causa petendi (Cass. 27 dicembre 2019, n. 34529; Cass. 28 gennaio 2005, n. 1812).

La prima di esse concerne la contestata identità dei giudizi (quello civile, conclusosi, in sede di merito, con la sentenza impugnata, e quello penale, in cui risultano essere imputati G. e B.) avendo riguardo al tema, in generale, dei danni patrimoniali.

La Corte di appello ha conferito rilievo al fatto che nel procedimento penale sia stata domandata anche la condanna al risarcimento di tali danni, su cui, poi, si era pronunciato il giudice. La ricorrente ha opposto che in sede di costituzione di parte civile era stato domandato il risarcimento dei soli danni morali e che la propria pretesa doveva considerarsi cristallizzata in tali termini, risultando per tale ragione irrilevante il successivo ampliamento dell’originaria pretesa ai danni patrimoniali.

La lettura degli atti processuali, consentita dalla natura processuale del vizio denunciato, permette di rilevare che con l’atto di costituzione di parte civile SIN richiese i soli danni morali derivanti dalle condotte descritte nel capo di imputazione (con cui era ascritto a G. il reato di peculato per l’indebito utilizzo di carte di credito), e che avanti al giudice dell’udienza preliminare la stessa società rassegnò le proprie conclusioni chiedendo che l’odierno controricorrente fosse condannato, in termini più estesi, “al risarcimento dei danni morali e materiali patiti dalla parte offesa”.

E’ da credere che, alla luce di tale ampliamento della domanda, il giudizio penale abbia pure riguardato i danni patrimoniali correlati alla condotta delittuosa da accertarsi in quella sede. Deve del resto escludersi che al giudice civile competa di effettuare una complessa prognosi quanto alla decisione che adotterà il giudice penale circa l’ammissibilità, nel procedimento penale, della domanda risarcitoria che sia stata in quella sede comunque fatta valere: soluzione – questa – che riverserebbe sullo stesso giudice un compito esorbitante rispetto a quello di verificare, a mente dell’art. 75 c.p.p., se siano state riproposte, in sede penale, delle domande già avanzate nel giudizio civile di danno; e che favorirebbe, in definitiva, il rischio del formarsi di plurimi giudicati sugli stessi fatti (giacchè ben può accadere, nell’indicata prospettiva, che alla delibazione del giudice civile di inammissibilità della domanda di danni proposta in sede penale si contrapponga un giudizio di segno contrario del giudice penale: per modo che sulla medesima pretesa vengano a pronunciarsi sia il giudice civile che quello penale).

Sul punto, dunque, la sentenza impugnata resiste alla censura e va confermata.

L’ulteriore questione sollevata col secondo motivo di ricorso riguarda l’asserita carenza di identità tra le domande di danno patrimoniale svolte in sede civile e quelle riproposte in sede penale. Deduce SIN che, in ogni caso, il giudizio penale aveva ad oggetto il solo indebito utilizzo delle carte di credito, sicchè la Corte di appello non poteva ritenere trasferite in detta sede domande risarcitorie riferite a inadempienze diverse di G..

La doglianza è fondata.

E’ pacifico che col proprio atto di appello SIN abbia fatto valere le domande proposte da Almaviva ex art. 2393 bis c.c., in primo grado. Nella citazione introduttiva del giudizio avanti al Tribunale detta società aveva domandato il risarcimento allegando il danno derivante non solo dalle spese sostenute da G. con carta di credito aziendale, ma anche quello dipendente dall’omissione di vigilanza dello stesso direttore generale rispetto alle condotte poste in essere dall’amministratore B. e quello commisurato alle somme impiegate da SIN per far fronte al pagamento di sanzioni derivanti da violazioni al C.d.S. di cui dovevano rispondere, in via diretta e per omessa vigilanza, gli stessi B. e G. (pagg. 23 ss.; il tema, nell’atto, è significativamente introdotto dalla rubrica “I danni patrimoniali subiti da SIN”).

Il giudizio penale aveva per contro ad oggetto – come si è detto – il solo accertamento delle appropriazioni poste in essere con l’indebito utilizzo delle carte di credito ed è conseguentemente escluso che i profili di responsabilità civile di cui era chiamato a decidere il giudice penale esulassero da tale ambito. In conseguenza, le ulteriori voci di pregiudizio patrimoniale, che sono state sopra richiamate, risultano estranee al trasferimento dell’azione civile in sede penale, onde per esse la costituzione di parte civile da parte del danneggiato non può costituire espressione della litispendenza che, come chiarito da Cass. Sez. U. 5 aprile 2013, n. 8353, giustifica quella vicenda estintiva incidente sul processo civile che è programmata, allo scopo di evitare giudicati contrastanti, dall’art. 75 c.p.p..

3. – Col terzo motivo è lamentata la violazione la falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c.. Deduce l’istante che la Corte territoriale aveva erroneamente compensato le spese di lite tra le parti costituite, laddove invece, preso atto dell’ammissibilità delle domande di SIN e della circostanza per cui non si era prodotta alcuna estinzione del giudizio civile di danno ex art. 75 c.p.p., avrebbe dovuto condannare G., siccome responsabile delle condotte distrattive e degli omessi controlli, all’integrale rifusione delle spese di lite in conformità al principio di soccombenza.

Il quarto motivo oppone la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater. La censura investe la sentenza impugnata nella parte in cui il giudice di appello ha dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento del contributo di cui alla norma citata. Viene affermato che la Corte di merito avrebbe dovuto accogliere l’appello di essa ricorrente che avrebbe escluso l’applicazione della disposizione in questione.

I profili fatti valere con i due motivi restano assorbiti, stante l’accoglimento del ricorso per cassazione.

4. – La sentenza impugnata va dunque cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Roma che, in diversa composizione, deciderà sulle spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

La Corte;

accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il primo e il secondo motivo e dichiara assorbiti i restanti; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Roma, che giudicherà in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 21 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2021

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