Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12568 del 09/06/2011

Cassazione civile sez. lav., 09/06/2011, (ud. 18/05/2011, dep. 09/06/2011), n.12568

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE RENZIS Alessandro – rel. Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.B.D., elettivamente domiciliato in Roma, Via Caio

Mario n. 13, presso lo studio dell’Avv. Cappelleri Mario, che lo

rappresenta e difende come da procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

CISIM FOOD S.p.A. in Amministrazioni Straordinaria, in persona dei

Commissari Straordinari Avv.ti F.L. – Fr.Lu.

– Z.A., elettivamente domiciliata in Roma, Via del

Corso n. 160, presso lo studio dell’Avv. Alessandrini Raffaello, che

la rappresenta e difende come da procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza n. 862/08 della Corte di Appello di

Roma del 31.01.2008/16.10.2008 nella causa iscritta al n. 1264 R.G.

dell’anno 2006;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18.05.20id dal Pres. Dott. Alessandro De Renzis;

udito l’Avv. Mario Cappelleri per il ricorrente e l’Avv. Raffaello

Alessandrini per la controricorrente;

sentito il P.M., in persona del Sost. Proc. Gen. Dott. MATERA

Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso, ritualmente depositato, D.B.D. conveniva in giudizio la CISIM FOOD S.p.A., di cui era stato dipendente come addetto alla casa, per sentir dichiarare l’illegittimità del licenziamento intimatogli con lettera del 4.01.2002 in relazione ad alcune irregolarità di cassa, con le conseguenti statuizioni di carattere restitutorio e retributivo.

La convenuta costituendosi contestava le avverse deduzioni e chiedeva il rigetto del ricorso.

All’esito dell’istruzione, escussi i testi ammessi, il Tribunale di Roma con sentenza del 31.05.2005 rigettava il ricorso. Tale decisione, appellata dal D.B., è stata confermata dalla Corte di Appello di Roma con sentenza n. 862 del 2008.

La Corte ha ritenuto corretta l’utilizzazione dei controlli investigativi in sede giudiziale e ha considerato irrilevante il proscioglimento in sede penale del lavoratore ai fini dell’esclusione della responsabilità disciplinare; in ogni caso ha ribadito la responsabilità dell’appellante con riguardo agli addebiti di mancata registrazione di alcune vendite sulla base delle dichiarazioni dei testi escussi in primo grado. La stessa Corte ha riscontrato la sussistenza della proporzionalità della sanzione inflitta, e ciò in relazione alla gravità della condotta, quale si desumeva dal verificarsi degli episodi di mancata registrazione delle vendite in un arco di tempo strettissimo. Il che aveva comportato il venir meno del rapporto fiduciario tra le parti e la conseguente inaffidabilità del dipendente.

Contro la sentenza di appello il D.B. propone ricorso per cassazione con cinque motivi. La società resiste con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, artt. 2 e 3 sostenendo che il giudice di appello ha errato nel ritenere ammissibile l’utilizzo di una agenzia investigativa da parte del datore di lavoro per verificare e, successivamente, per provare in giudizio l’inosservanza delle procedure di cassa e la mancata registrazione fiscale delle relative operazioni. Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata ha fatto richiamo al costante orientamento di questa Corte, che si condivide, secondo cui le disposizioni dell’art. 2 dello statuto dei lavoratori, nel limitare la sfera di intervento delle persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest’ultimo di ricorrere ad agenzie investigative – purchè non sconfinino nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata dall’art. 3 dello statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori-, restando giustificato l’intervento in questione non solo per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (cfr. Cass. n. 3590 del 14 febbraio 2011; Cass. n. 18821 del 9 luglio 2008; Cass. n. 9167 del 7 giugno 2003 ed altre conformi). Orbene il giudice di appello, proprio in relazione a tale orientamento, ha precisato che nella fattispecie in esame il controllo dell’agenzia si era mantenuto nei limiti anzidetti non investendo l’inadempimento dell’obbligazione, ma i comportamenti del dipendente, aventi autonoma rilevanza rispetto al contenuto dell’obbligazione del lavoratore ed integranti violazioni di tipo fiscale ed anche penale.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, artt. 2 e 3 e vizio di motivazione, osservando che il giudice di appello non ha tenuto nella debita considerazione il fatto che dagli elementi di prova (vengono riportati i verbali delle dichiarazioni dei testi addotti dall’azienda a sostegno delle ipotesi risolutorie non si rinviene alcun tratto, se non meramente deduttivo, in cui venga riferito dell’appropriazione da parte del dipendente di somme di denaro frutto delle operazioni per cui è causa.

Il motivo è inammissibile ex art. 366 bis c.p.c., perchè il relativo quesito (come formulato a pag. 19 del ricorso) non è conferente al caso di specie, giacchè fa riferimento all’ipotesi di appropriazione indebita, che non ha costituito oggetto di contestazione disciplinare.

Il motivo è comunque infondato, in quanto il ricorrente si limita a contrapporre alla valutazione della sentenza impugnata, sorretta da congrua logica motivazione, un diverso apprezzamento degli elementi di prova testimoniali, non consentito in sede di legittimità.

3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione circa un fatto decisivo del giudizio, con riguardo al profilo della omessa valutazione delle prove ed in particolare della testimonianza rese dal teste B.T.. Il motivo è inammissibile ex art. 366 bis c.p.c., in quanto il relativo quesito (come formulato a pag.

24 del ricorso) non contiene la chiara indicazione del fatto controverso. Si richiama sul punto l’orientamento di questa Corte secondo cui, l’art. 366 bis c.p.c., non può essere interpretato nel senso che il quesito del diritto (e simmetricamente la formulazione del fatto controverso nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5) possa desumersi implicitamente dalla formulazione del motivo del ricorso, perchè tale interpretazione si risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma, che ha introdotto, a pena di inammissibilità, il rispetto di un requisito formale, da formularsi in maniera esplicita ((in particolare Sezioni Unite sentenza n. 7258 del 26 marzo 2007, seguita da successiva giurisprudenza). Il motivo è anche infondato, avendo il giudice di appello valorizzato le dichiarazioni dei testi escussi in primo grado, valutandone la attendibilità e la concludenza, sicchè il convincimento di tale giudice – fondato sugli anzidetti elementi di prova, non viene inficiato dal mancato riferimento alle dichiarazioni del teste B. (sul potere del giudice di merito di individuare le fonti del proprio convincimento e di scegliere,tra le risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, si richiama l’indirizzo costante di questa Corte: ex plurimis Cass. sentenza n. 9834 del 1995; Cass. sentenza n. 10896 del 1998;. Cass. n. 17477 del 9 agosto 2007; Cass. n. 27162 del 23 dicembre 2009).

4. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta vizio di motivazione circa un fatto decisivo del giudizio, con riguardo al profilo dell’ammissibilità ad essere escussi come testi i dipendenti della agenzia investigativa Lodge Service.

Il motivo in questione è connesso al primo e per la sua infondatezza si fa riferimento alle argomentazioni sviluppate in precedenza, ribadendosi che il controllo per mezzo di agenzia investigativa è lecito, qualora, come nel caso di specie, il controllo non investa l’inadempimento dell’obbligazione, ma i comportamenti del dipendente, aventi autonoma rilevanza rispetto al contenuto dell’obbligazione del lavoratore ed integranti violazioni di tipo fiscale ed anche penale.

Corretta è pertanto l’affermazione del giudice di appello circa l’ammissibilità ed attendibilità dei dipendenti dell’agenzia investigativa ad essere sentiti come testi, non avendo gli stessi alcun interesse diretto alla controversia.

5. Con il quinto motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione circa il giudizio di proporzionalità della sanzione del licenziamento in relazione alla gravità del fatto addebitato al lavoratore; aggiunge che la sanzione irrogata non era giustificata anche perchè egli non aveva alcun precedente disciplinare.

La censura è priva di pregio e va disattesa. Il giudice di appello ha ricostruito la condotta del D.B. in tutti i suoi profili (soggettivo ed oggettivo) evidenziandone la gravità in relazione alla natura del rapporto di lavoro e alla delicatezza delle mansioni svolte dal lavoratore, addetto alla cassa, sicchè l’addebito mosso (omessa registrazione di merce) era tale da far venir meno la fiducia del datore di lavoro nell’operato del dipendente (in tal senso ex plurimis Cass. sentenza n. 14507 del 29 settembre 2003; Cass. sentenza n. 6609 del 28 aprile 2003).

In questo quadro la sanzione espulsiva è ampiamente giustificata ed è adeguata alla gravità della condotta, per cui la mancanza di precedenti disciplinari nel periodo pregresso di lavoro non assume decisiva rilevanza. In definitiva la censura del ricorrente si risolve in un diverso apprezzamento della condotta da lui tenuta rispetto alla valutazione del giudice di appello, sorretta da congrua e logica motivazione, non censurabile come tale in sede di legittimità.

6. In conclusione il ricorso è destituito di fondamento e va rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 32,00, oltre Euro 2000,00 per onorari ed oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, il 18 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2011

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