Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12561 del 21/05/2010

Cassazione civile sez. trib., 21/05/2010, (ud. 04/02/2010, dep. 21/05/2010), n.12561

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PAPA Enrico – Presidente –

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere –

Dott. MERONE Antonio – Consigliere –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i

cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, e’ domiciliata;

– ricorrente –

contro

M.T.;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia, Sezione distaccata di Brescia, n. 53/67/04, depositata in

data 17 maggio 2004;

Sentita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dal

consigliere Dott. Campanile Pietro;

Sentito l’Avv. Generale dello Stato, Diego Giordano;

Sentite le richieste del Procuratore generale, in persona del

Sostituto Dott. De Nunzio Wladimiro, il quale ha concluso per

l’accoglimento del secondo motivo del ricorso.

 

Fatto

1.1 – M.T. impugnava il silenzio rifiuto formatosi in relazione alle istanze di rimborso delle somme versata a titolo di IRAP, quale consulente del lavoro, relativamente agli anni dal 1998 al 2001, sostenendo di essere priva di autonoma organizzazione, non avvalendosi di dipendenti o di collaboratori continuativi ed utilizzando beni strumentali di valore non significativo.

1.2 – La Commissione tributaria provinciale di Mantova accoglieva il ricorso.

1.3 – L’Ufficio interponeva appello; la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, Sezione distaccata di Brescia, con la decisione indicata in epigrafe, lo respingeva, confermando la sentenza impugnata e compensando le spese processuali.

Si escludeva, in particolare, che la M. svolgesse la sua attivita’ di consulente in forma autonomamente organizzata, avuto riguardo alla presenza di “compensi per oltre L. 200.000.000 sui quali gravano 15.000.000 di canoni e/o di noleggio, nessuna spesa per lavoro dipendente, e quasi 50.000.000 per compensi corrisposti a terzi (diversi dai collaboratori coordinati e continuativi), spiegati dalla ricorrente – in tutta attendibilita’ – come compensi per elaborazione dati “lavorati all’esterno”, e cio’ in ancor piu’ credibile esclusione della esistenza di una “organizzazione”, nel senso giuridicamente e sostanzialmente apprezzabile del termine”.

1.4 – Avverso detta decisione ha proposto ricorso per Cassazione, affidato a due motivi, l’Agenzia delle Entrate. L’intimata non ha svolto attivita’ difensiva.

Diritto

2.1 – La ricorrente, con il primo motivo di ricorso, denuncia violazione e falsa applicazione della L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 3, comma 144; del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, artt. 2, 3, 8, 27 e 36 nonche’ omessa, illogica ed incoerente motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione, rispettivamente, all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Si sostiene, in primo luogo, che l’esigenza di un’attivita’ “autonomamente organizzata”, come si desumerebbe dalla relazione parlamentare al D.Lgs. n. 137 del 1998, non dovrebbe intendersi nel senso di escludere tout court gli esercenti di arti o professioni non “autonomamente organizzati” dal punto di vista “materiale”, non potendosi prescindere, come chiarito anche dalla Corte Costituzionale con ordinanza n. 426 del 2002, dal reale presupposto impositivo costituito dalla produzione di valore aggiunto.

Si deduce che, in ogni caso, la Commissione tributaria regionale sarebbe incorsa in vizio di motivazione, per aver equiparato l’assenza di strutture all’assenza di organizzazione, senza valutare il complesso dei dati che avrebbe consentito alla contribuente di conseguire una piu’ cospicua redditivita’.

2.2 – Il motivo e’ fondato, nei limiti che saranno appresso precisati, anche alla luce dei principi recentemente ribaditi dalle Sezioni Unite di questa Corte, che il Collegio condivide ad ai quali intende dare continuita’.

Si e’ infatti affermato (Cass., 26 maggio 2009, n. 12108) che, in tema di i.r.a.p., il requisito dell’autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed e’ insindacabile in sede di legittimita’ se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilita’ ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attivita’ in assenza dell’organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui.

E’ stato altresi’ precisato che costituisce onere del contribuente, il quale chieda il rimborso dell’imposta asseritamente non dovuta, dare la prova dell’assenza delle predette condizioni.

2.3 – Con riferimento al significato e alla portata della modifica apportata al testo originario della norma contenuta nel D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 2, questa Corte ha gia’ avuto modo di precisare che il dato inerente all’attivita’ “autonomamente organizzata”, assunto dalla legge quale connotato indefettibile dell’attivita’ abituale tassabile, e’ da interpretare necessariamente in senso oggettivo, non solo perche’ l’elemento dell’autonomia, se inteso in senso soggettivo, si risolve in una mera tautologia (il professionista e’ autonomamente organizzato perche’ e’ un soggetto capace di organizzazione autonoma), che non avrebbe richiesto un apposito intervento legislativo di precisazione; ma soprattutto perche’ e’ l’unica interpretazione “costituzionalmente orientata”, quindi obbligatoria per l’interprete (C. cost., ord. nn. 452/2005, 361/2005, 283/2005, 433/2004; sent. nn. 198/2003, 107/2003, 316/2001, 113/2000), essendo stato evidenziato dal giudice delle leggi, con la sentenza n. 156 del 2001, e non certamente smentito – come sembra ritenere la ricorrente dalla successiva ordinanza n. 426/2002 (di manifesta infondatezza delle identiche eccezioni gia’ rigettate con detta sentenza), che, se la norma fosse accolta nel senso di ritenere applicabile l’imposta anche nel caso d’inesistenza del suddetto elemento oggettivo, risulterebbero violati i principi di eguaglianza e di capacita’ contributiva, garantiti appunto dall’equiparazione dell’attivita’ professionale a quella imprenditoriale sul file dell’autonoma organizzazione, connaturata a quest’ultima e soggetta ad accertamento nella prima; e che, pertanto, “nel caso di una attivita’ professionale che fosse svolta in assenza di elementi di organizzazione … risultera’ mancante il presupposto stesso dell’imposta” (Cass., 16 febbraio 2007, n. 3674; Cass., 16 febbraio 2007, n. 3672).

2.4 – Premesso, quindi, che non puo’ condividersi l’assunto secondo cui i lavoratori autonomi esercenti arti e professioni, indipendentemente dal grado di intensita’ organizzativa impresso alla propria attivita’, possano considerarsi in ogni caso soggetti passivi dell’imposta in esame, deve ribadirsi l’esigenza – affermata dalla Corte costituzionale e dalla giurisprudenza ormai consolidata di questa Corte – di una valutazione di merito, da effettuarsi sulla base dei criteri sopra richiamati, valutati complessivamente e logicamente coordinati.

Sotto tale profilo appare evidente come la commissione regionale sia incorsa nella violazione delle norme contenute nel D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 2 e 3 fornendo al riguardo una motivazione inadeguata, non solo per aver attribuito all’erogazione di compensi a terzi, nella cospicua entita’ di cinquanta milioni di lire, una valenza del tutto neutra, nel senso che tale dato non comproverebbe la ricorrenza di un’attivita’ autonomamente organizzata, ma, addirittura, per aver interpretato tale circostanza, senza tornire al riguardo una congrua giustificazione, come fattore di esclusione della stessa autonoma organizzazione.

Mette conto di rimarcare che, proprio in funzione di quel “contesto organizzativo anche minimo, derivante dal l’impiego di capitali e/o di lavoro altrui”, cioe’ di “una struttura riferibile alla combinazione di fattori produttivi, funzionale all’attivita’ del titolare”, tale da determinare quel valore aggiunto in cui si ravvisa l’ubi consistam dell’imposizione de qua (Cass., 16 febbraio 2007, n. 3675), l’interprete non puo’ rimanere insensibile al dato costituito dai compensi a terzi, soprattutto quando, non potendosi desumere dalla loro esiguita’ che si tratti di erogazioni per prestazioni occasionali e marginali (cfr. Cass., 26 giugno 2009, n. 15113), debba ritenersi che essi siano significativi dell’utilizzo non occasionale di lavoro altrui (Cass., 33 marzo 2010, n. 7779; Cass., 8 marzo 2010, n. 5577; Cass., 5 marzo 2010, n. 5465; Cass., 10 febbraio 2010, n. 2994), non essendosi mai dubitato, del resto (cfr, per tutte, Cass., 16 febbraio 2007, n. 3680), che l’indicata espressione “lavoro altrui” non implica necessariamente un riferimento a lavoro dipendente.

2.2 – Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 546 del 1992, art. 19, comma 1, lett. g) , in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in quanto il rimborso richiesto con il ricorso introduttivo sarebbe stato esteso anche alle somme versate nell’anno 1998 e (a titolo di saldo) nell’anno 2001, senza che in precedenza fosse stata formulata la relativa istanza.

Il motivo e’ fondato, nel senso della parziale improponibilita’ del ricorso, relativamente alle somme per le quali non era stata preventivamente presentata istanza di rimborso.

Come affermato costantemente da questa Corte, la sussistenza di un provvedimento impositivo o di diniego (esplicito o implicito, in quanto desumibile dal silenzio della p.a.) dell’istanza di rimborso costituisce il presupposto di ammissibilita’ del ricorso che introduce il procedimento tributario, secondo le situazioni tassative elencate dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19. Conseguentemente, poiche’ il giudizio tributario e’ caratterizzato dalla necessaria impugnazione di un atto amministrativo, l’inesistenza di un atto impositivo o di un provvedimento negativo sull’istanza di rimborso comporta L’inammissibilita’ del ricorso per difetto dell’atto impugnabile e cioe’ per difetto di un presupposto processuale (Cass. 1 dicembre 2004, n. 22564). Come perspicuamente posto in evidenza dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., 11 novembre 1997, n. 11217), il difetto dell’atto impugnabile attiene alla proponibilita’ della domanda e – trattandosi di materia disciplinata da un regime legale che esclude qualsiasi potere di disposizione delle parti – e’ rilevabile d’ufficio, anche in sede di gravame, salvo che si sia gia’ formato sul punto un giudicato interno (cfr. anche Cass. 2 ottobre 1996 n. 8606). Sotto quest’ultimo profilo, e considerato che la stessa parte ricorrente riconosce che la questione viene sollevata per la prima volta in sede di legittimita’, deve condividersi, il principio secondo cui il potere d’ufficio di rilevare le condizioni di proponibilita’ della domanda impedisce di’ ravvisare un giudicato interno nella mancata contestazione esplicita della sussistenza di tali condizioni, in difetto di una pronuncia sul merito, passata in giudicato, che tale legittimazione presupponga. Deve escludersi, in particolare, che possa rilevarsi il c.d. “giudicato implicito” in relazione a una questione costituente l’antecedente logico di una statuizione di merito che abbia formato oggetto di gravame (Cass. 8 marzo 1999, n. 1981; Cass., 13 marzo 2000, n. 2868; Cass., 29 aprile 2004, n. 8204; Cass., 7 novembre 2005, n. 21490; Cass. 31 marzo 2006, n. 7667; Cass., 29 marzo 2009, n. 10027, in cui si esclude qualsiasi incidenza, in parte qua, del recente orientamento espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte in tema di giudicato implicito sulla giurisdizione), per la semplice ragione che il giudicato implicito suppone il passaggio in giudicato della decisione sulla questione dipendente espressamente decisa.

Deve quindi rilevarsi l’’improponibilita’ del ricorso relativamente alle somme versate a titolo di IRAP nell’anno 1998 e, limitatamente al secondo acconto, nell’anno 2001 (addirittura in epoca successiva alla presentazione dell’istanza di rimborso), in quanto dall’esame degli atti, consentito dalla natura procedurale del vizio denunciato, si apprezza l’insussistenza del presupposto processuale costituito da un provvedimento (anche implicito) di diniego in relazione al rimborso di tali pagamenti.

3. la decisione impugnata, va pertanto cassata, con rinvio ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Lombardia, che si atterra’ ai principi sopra enunciati, provvedendo, altresi’, in merito alle spese processuali anche del presente giudizio di legittimita’.

PQM

LA CORTE Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Lombardia.

Cosi’ deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile – Tributaria, il 4 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2010

 

 

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