Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12556 del 12/05/2021

Cassazione civile sez. II, 12/05/2021, (ud. 28/01/2021, dep. 12/05/2021), n.12556

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana (da remoto) – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26144/2019 proposto da:

J.I., rappresentato e difeso dall’Avvocato ANTONIO GREGORACE,

ed elettivamente domiciliato presso il suo studio, in ROMA, VIA

della GIULIANA 32;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso i cui uffici in ROMA, VIA dei PORTOGHESI 12, è

domiciliato;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 14588/2019 del TRIBUNALE di ROMA del

30/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

28/01/2021 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

J.I. proponeva opposizione avverso il provvedimento di diniego della protezione internazionale emesso dalla competente Commissione Territoriale, chiedendo il riconoscimento dello status di rifugiato o, in subordine, della protezione sussidiaria o, in ulteriore subordine, di quella umanitaria.

Sentito dalla Commissione Territoriale, il ricorrente aveva riferito di essere originario di (OMISSIS); di essere andato via dal suo Paese nel (OMISSIS) temendo per la sua incolumità in quanto gli appartenenti a un gruppo criminale chiamato (OMISSIS), e di cui già faceva parte suo fratello, volevano costringerlo, con violente aggressioni e minacce, a unirsi a loro; inoltre, temeva di essere arrestato dalla Polizia in quanto, essendo già il fratello membro del gruppo, anche lui poteva essere considerato un loro membro.

Con decreto n. 14588/2019, depositato in data 30.7.2019, il Tribunale di Roma rigettava il ricorso.

Avverso detto decreto propone ricorso per cassazione J.I. sulla base di quattro motivi, illustrati da memoria difensiva del 18.1.2021, in cui il difensore del ricorrente specifica che per mero errore materiale, nel primo motivo di ricorso, era indicato quale vizio di motivazione la mancata audizione del ricorrente, mentre dal corpo del ricorso e dalla richiesta conclusiva si evinceva come “il vizio di motivazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio riguardasse la mancata valutazione della richiesta di protezione internazionale”. Resiste il Ministero dell’Interno con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo (dato atto dell’errore circa la esatta identificazione da parte del richiedente del thema decidendum), il medesimo lamenta ex “art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – (un) Vizio di motivazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti riguardante la mancata valutazione della richiesta di protezione internazionale”, che deduce l’omessa motivazione del Tribunale circa la richiesta di protezione internazionale, in quanto il Giudice di merito si limitava a rilevare che il racconto non integrava alcuna ipotesi per il riconoscimento dello status di rifugiato, trattandosi di questione di competenza della giustizia ordinaria del Paese di provenienza.

1.1. – Il motivo non è ammissibile.

1.2. – Il ricorrente, nel denunciare vizi di violazione di legge e motivazionale, si duole del diniego della protezione internazionale, svolgendo argomentazioni del tutto generiche e senza confrontarsi con l’iter motivazionale del decreto impugnato (cfr. Cass. n. 20910 del 2017). Il Tribunale ha congruamente spiegato, ripercorrendo i fatti salienti della vita del richiedente, che il medesimo non aveva offerto alcun supporto documentale alla propria domanda e ne aveva per questo valutato la sua credibilità alla luce delle dichiarazioni rese evidenziando le contraddizioni del racconto e dei motivi che lo avevano indotto ad espatriare e la non verosimiglianza del narrato mettendo in risalto la non corrispondenza dei dati cronologici con la sequela degli accadimenti. Il relativo accertamento, integrando un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nei limiti di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è stato attinto da censure congruenti.

2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce ex “art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – (l’)Omesso esame delle dichiarazioni rese dal ricorrente alla Commissione Territoriale e delle allegazioni portate in giudizio per la valutazione delle condizioni del Paese d’origine” poichè le fonti autonomamente utilizzate dal Giudice sono smentite dalle notizie pubblicate sui maggiori organi di stampa e siti web, dal sito ufficiale del Ministero degli Esteri e dalla giurisprudenza di merito, che evidenziano come la regione dell’Edo State, di provenienza del ricorrente, sia caratterizzata da uno stato di insicurezza derivante dalla contrapposizione tra frange di ribelli indipendentisti e l’esercito regolare.

2.1. – Il motivo è inammissibile.

2.2. – Il Tribunale, giudice del rinvio, ha fornito ampio conto delle dichiarazioni rese dal ricorrente, riportando integralmente il loro contenuto e valutandole come inverosimili. Inoltre, ha dato conto della situazione della Nigeria, ritenendola non tale da esibire un conflitto armato generalizzato.

Dunque fatti non già omessi, ma considerati e valutati. In particolare da numerose fonti qualificate, risulta sì una situazione di scarsa sicurezza nel Paese, ma risulta altresì che siffatta situazione è concentrata solo in alcune zone. Laddove, la situazione di violenza descritta nelle informazioni pubblicate nel giugno del 2017 dall’EASO mostrano invero una situazione di violenza legata allo sfruttamento del petrolio e con connotati politici, che tuttavia non assume le caratteristiche del conflitto armato interno.

3. – Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta ai sensi “dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – (la) Mancata concessione della protezione sussidiaria in ragione delle attuali condizioni socio-politiche del Paese d’origine: violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14”. Si ribadisce da parte del richiedente la grave condizione di pericolo per la sicurezza individuale nella regione di provenienza del ricorrente, caratterizzata da forte instabilità e dalla sussistenza di un conflitto armato.

3.1. – Il motivo è inammissibile.

3.2. – Ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 18306 del 2019) Non basta dunque riferire di situazioni di violenza o di repressione da parte dello Stato o di altri soggetti pubblici, ma occorre che il conflitto sia tanto generalizzato da essere un pericolo per i cittadini in quanto semplicemente residenti nel paese, o nell’area del paese di provenienza, e dunque un pericolo che non discende da appartenenze politiche, religiose o altro, ma che è legato alla sola presenza sul territorio.

4. – Con il quarto motivo, il ricorrente deduce ex “art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – Errata applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione alla mancata concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Errata applicazione in relazione alla Direttiva 2004/83/CE, recepita dal D.Lgs. n. 251 del 2007 – Violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione alle dichiarazioni rese dal ricorrente e al mancato supporto probatorio”. Tribunale avrebbe violato il criterio di comparazione cui fare ricorso per valutare il diritto alla protezione umanitaria, ossia considerando, da un lato, il livello di integrazione raggiunto, e dall’altro, il pericolo che, data la situazione del paese di origine, tale livello venga perduto. Adduce a sostegno di tale motivo che egli ha imparato l’italiano, ha svolto corsi di formazione durante la permanenza nel centro di accoglienza, ed ha un lavoro di cui documenta lo svolgimento.

4.1. – Il motivo è infondato.

4.2. – Questa Corte ha già avuto occasione di chiarire (cfr. Cass. n. 17072 del 2018; Cass. n. 22979 del 2018) che, se assunto isolatamente, il contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani nel paese di provenienza non integra, di per sè solo ed astrattamente considerato, i seri motivi di carattere umanitario, o derivanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui la legge subordina il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria (…) (cfr. Corte EDU, sent. 08.04.2008, ric. 21878/06, caso Nnyan.zi c. Regno Unito, par. 72 ss.)”.

La protezione umanitaria costituisce, dunque, una misura atipica e residuale, nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l’espulsione e debba provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Cass. n. 23604 del 2017; Cass. n. 252 del 2019). Ciò che si demanda al giudice è “una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e cui egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio. I seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa (art. 2 Cost.).

4.3. – A tale fine, peraltro, non è sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, dovendo il riconoscimento di tale diritto allo straniero fondarsi su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, allo scopo di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza (Cass. n. 12537 del 2020; cfr. Cass. n. 4455 del 2018). Nella specie, il Tribunale (lungi dall’omettere la doverosa attività istruttoria) ha correttamente posto in rilievo come non fossero stati addotti motivi e/o documenti dai quali ricavarsi che il ricorrente fosse affetto da stati patologici di rilievo o presenti specifici caratteri di vulnerabilità tali da far concludere che un rientro nel paese di origine lo avrebbe esposto a situazioni umanitarie di particolare complessità tali da giustificare l’applicazione della pronuncia residuale. Ciò influendo sulla praticabilità stessa della suddetta valutazione comparativa.

5. – Il ricorso va dichiarato inammissibile. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Va emessa la dichiarazione ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare alla controparte le spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.100,00, a titolo di compensi, oltre eventuali spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 28 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2021

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