Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12552 del 12/05/2021

Cassazione civile sez. II, 12/05/2021, (ud. 06/10/2020, dep. 12/05/2021), n.12552

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26539/2019 proposto da:

U.H., rappresentato e difeso dall’avv. PAOLO SASSI, e

domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO la CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO;

– intimato –

e contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– resistente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di CAMPOBASSO, depositato il

25/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

06/10/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con decreto del 25.07.2019 il Tribunale di Campobasso respingeva il ricorso proposto da U.H., cittadino della (OMISSIS), avverso il provvedimento con cui la Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Salerno – Sezione distaccata di Campobasso aveva rigettato la domanda del ricorrente volta al riconoscimento della protezione internazionale. Il Tribunale riteneva non credibile la storia riferita dal richiedente, che aveva riferito di essere di fede cristiana ed omosessuale; di essere stato sorpreso dal fratello in atteggiamento intimo con il suo compagno, che il fratello aveva aggredito causandone la morte; che a seguito di questo evento i membri della comunità del compagno avevano minacciato sia lui che il fratello, i quali erano entrambi fuggiti per tema di ritorsioni.

Propone ricorso per la cassazione di tale decisione di rigetto U.H., affidandosi a tre motivi.

Il Ministero dell’Interno, intimato, ha depositato atto di costituzione per la partecipazione all’udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 9, 14, art. 27, comma 10 e art. 35-bis, commi 9 e 11, D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 1,3,5,7,14,16 e 19, nonchè l’omesso esame di fatti decisivi, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, perchè il Tribunale di Campobasso avrebbe condotto una valutazione eccessivamente superficiale della storia riferita dal richiedente asilo, svalutandone il contenuto, non apprezzandola in riferimento al contesto di violenza generalizzata esistente in Nigeria, e senza disporre l’audizione per consentire all’interessato di chiarire i punti salienti della predetta storia.

La censura è inammissibile, nella parte in cui si riferisce alla mancata audizione del richiedente asilo.

Il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, prevede, al comma 10, che “E’ fissata udienza per la comparizione delle parti esclusivamente quando il giudice: a) visionata la videoregistrazione di cui al comma 8, ritiene necessario disporre l’audizione dell’interessato; b) ritiene indispensabile richiedere chiarimenti alle parti; c) dispone consulenza tecnica ovvero, anche d’ufficio, l’assunzione di mezzi di prova”. Il successivo comma 11, dispone a sua volta che “L’udienza è altresì disposta quando ricorra almeno una delle seguenti ipotesi: a) la videoregistrazione non è disponibile; b) l’interessato ne abbia fatto motivata richiesta nel ricorso introduttivo e il giudice, sulla base delle motivazioni esposte dal ricorrente, ritenga la trattazione del procedimento in udienza essenziale ai fini della decisione; c) l’impugnazione si fonda su elementi di fatto non dedotti nel corso della procedura amministrativa di primo grado”.

Questa Corte ha inizialmente interpretato la norma in esame affermando che, in assenza di videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi la Commissione territoriale, è indispensabile la fissazione dell’udienza (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 17717 del 05/07/2018, Rv. 649521; conf. Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 27182 del 26/10/2018, Rv. 651513; Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 14148 del 23/05/2019, Rv. 654198) anche nel caso in cui il predetto colloquio sia stato effettuato davanti alla Commissione territoriale in data anteriore alla consumazione del termine di 180 giorni dall’entrata in vigore del D.L. n. 13 del 2017, convertito nella L. n. 46 del 2017, “… essendo l’udienza di comparizione delle parti, anche in tale ipotesi, conseguenza obbligata della mancanza della videoregistrazione” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 32029 del 11/12/2018, Rv. 651982); a meno che, ovviamente, “… il richiedente non abbia dichiarato di non volersi avvalere del supporto contenente la registrazione del colloquio” (Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 17076 del 26/06/2019, Rv. 654445). Con l’ulteriore precisazione, però, che ciò non implica anche l’automatica necessità di ripetere l’audizione del richiedente asilo (Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 2817 del 31/01/2019, Rv. 652463), a condizione che sia comunque assicurata al richiedente asilo la facoltà di rendere le proprie dichiarazioni, davanti alla Commissione o al Tribunale (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5973 del 28/02/2019, Rv. 652815; conf. Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 1088 del 20/01/2020, Rv. 658369). Si è anche ulteriormente precisato che a nulla rileva il fatto che il ricorrente, nel contestare la nullità del decreto per omessa fissazione dell’udienza nel caso di indisponibilità della videoregistrazione del primo colloquio, “… abbia omesso di prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato un pregiudizio per la decisione di merito, in quanto la mancata videoregistrazione del colloquio, incidendo su un elemento centrale del procedimento, ha palesi ricadute sul suo diritto di difesa” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 10786 del 17/04/2019, Rv. 653473; conf. Cass. Successivamente questa Corte ha acceduto ad una lettura del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, maggiormente orientata in conformità con quanto disposto dall’art. 46, par. 3, della Direttiva 2013/32/UE, nell’interpretazione che di quest’ultima norma era stata negli anni fornita dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, valorizzando anche il fatto che la normativa nazionale, nel prevedere la videoregistrazione del colloquio svolto dinanzi la Commissione territoriale, ha introdotto un quid pluris rispetto alla normativa Eurounitaria.

La Corte di Giustizia, nella sentenza 26.7.2017, resa nella causa C-348/16, Moussa Sacko, ha affermato che il giudice nazionale investito del ricorso avverso un provvedimento amministrativo di diniego della protezione internazionale ha la facoltà di respingere la domanda anche in assenza di audizione del richiedente, a condizione che quest’ultima si sia svolta nella fase amministrativa del procedimento, che siano stati messi a disposizione del giudice il verbale o la trascrizione di detto colloquio, e che al giudice sia comunque consentito di disporre una nuova audizione dell’interessato, ove la ritenga necessaria ai fini del completo esame degli elementi di fatto e diritto della domanda. Con questa decisione, la Corte di Giustizia ha in sostanza operato una netta saldatura tra le due fasi, amministrativa e giurisdizionale, del procedimento di riconoscimento della protezione internazionale, fissando il principio generale per cui l’obbligo di completo esame della domanda, sancito dall’art. 46, par. 3, della Direttiva 2013/32/UE (cd. “Direttiva procedure”) dev’essere interpretato non soltanto con riferimento alla seconda fase, giurisdizionale, bensì all’intero procedimento.

Con l’ulteriore sentenza del 19 marzo 2020, resa nella causa C-406/18, LH c/ Bevandorlasi es Menekultugyi Hivatal, la Corte di Giustizia, pur ribadendo la tendenziale necessità di ascoltare il richiedente asilo nella fase giurisdizionale, ha precisato che l’assenza del colloquio non si riflette automaticamente in una compressione dei diritti fondamentali dell’individuo, posto che questi ultimi possono soggiacere a restrizioni, a condizione che queste ultime siano giustificai” da obiettivi interessi di natura generale e non costituiscano un intervento sproporzionato e inaccettabile, come tale idoneo a ledere la sostanza del diritto garantito.

Infine, con la sentenza del 6 luglio 2020, resa nella causa C-517/17, Mikiyos Addis, la Corte di Giustizia ha affermato l’incompatibilità con la Direttiva procedure di una decisione di rigetto della domanda di asilo assunta dal giudice nazionale in mancanza di qualsiasi audizione del richiedente asilo, tanto nella fase giurisdizionale che in quella precedente, amministrativa, posta la natura fondamentale della garanzia del contraddittorio cui l’ascolto dell’interessato è preposto nell’ambito della legislazione dell’Unione.

In sostanza, la Corte di Giustizia ha complessivamente affermato che:

1) nella procedura di riconoscimento della protezione internazionale è necessaria e sufficiente almeno una audizione del richiedente asilo;

2) ove questa si svolga nella fase amministrativa, il relativo verbale o trascrizione deve essere messo a disposizione del giudice competente a decidere sulla impugnazione del provvedimento di rigetto dell’istanza di protezione;

3) detto giudice deve sempre essere libero di fissare una nuova audizione, ove lo ritenga necessario al fine di assicurare il completo esame degli elementi di fatto e diritto della domanda.

Questa Corte, in perfetta aderenza con la linea interpretativa seguita dalla Corte di Giustizia – ed, anzi, anticipandone in un certo senso il definitivo approdo – ha precisato che “ove il ricorso contro il provvedimento di diniego di protezione contenga motivi o elementi di fatto nuovi, il giudice, se richiesto, non può sottrarsi all’audizione del richiedente, trattandosi di strumento essenziale per verificare, anche in relazione a tali nuove allegazioni, la coerenza e la plausibilità del racconto, quali presupposti per attivare il dovere di cooperazione istruttoria” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 27073 del 23/10/2019, Rv. 656871). E, ancor più di recente, che “In tema di protezione internazionale è nullo, per violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, commi 10 e 11, il provvedimento del giudice di merito che, in assenza della videoregistrazione del colloquio del richiedente innanzi alla Commissione territoriale, fissi l’udienza di comparizione escludendo, in via preventiva, la necessità di procedere all’audizione del cittadino straniero; tuttavia, in tal caso è onere di quest’ultimo procedere all’immediata contestazione della nullità, ex art. 157 c.p.c., comma 2, dovendosi, in difetto, ritenere integrata la sanatoria del vizio” (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 15954 del 24/07/2020, Rv. 658247). Nella motivazione di detto ultimo provvedimento si è precisato che poichè la valutazione sulla credibilità della storia personale riferita dal richiedente asilo è “… fondata anche su un giudizio di verosimiglianza nel quale assumono rilievo centrale le modalità con cui, in concreto, viene narrato il racconto, è evidente che la ratio della norma che impone la fissazione dell’udienza in ogni caso in cui non sia disponibile la videoregistrazione del colloquio svoltosi in sede amministrativa risiede nell’esigenza di consentire l’effettivo incontro tra richiedente e giudice, al fine di consentire al primo la facoltà di esercitare pienamente il diritto al contraddittorio ed al secondo la possibilità di esercitare, in concreto, il potere-dovere di cooperazione istruttoria. Ne consegue che è contrario allo spirito della norma l’atto con il quale il giudice di merito, non avendo a sua disposizione la videoregistrazione, decida comunque di escludere a priori la possibilità stessa dell’ascolto del richiedente, con ciò di fatto svuotando di significato concreto le disposizioni di cui del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, già richiamati commi 10 e 11”. Con queste decisioni la Corte, partendo dal fatto che l’ordinamento nazionale prevede – come già detto – un quid pluris rispetto a quello Eurounitario, consistente nella videoregistrazione del colloquio svolto dinanzi la Commissione territoriale, ha in sostanza ritenuto che il giudice investito dell’impugnazione del provvedimento di diniego non possa esimersi dal valutare se sussistono, in concreto ed alla luce del contenuto del ricorso proposto dal richiedente asilo, le condizioni affinchè una seconda audizione sia necessaria al fine di assicurare il completo esame degli elementi di fatto e diritto della domanda, in aderenza al disposto del già richiamato art. 46, par. 3, della Direttiva procedure. La fissazione dell’udienza di comparizione con contestuale preventiva esclusione della nuova audizione, dunque, se non sostenuta da adeguata e specifica motivazione, è contraria allo spirito della norma, nazionale ed Eurounitaria, poichè preclude a priori il completo esame degli elementi di fatto e diritto della domanda di asilo e si pone pertanto in contrasto tanto con la ratio del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, commi 10 e 11, quanto con l’art. 46, par. 3, della Direttiva procedure.

Approfondendo la disamina del rapporto tra colloquio (o audizione) e videoregistrazione, questa Corte ha ulteriormente chiarito (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 21584 del 07/10/2020) che anche la presenza della videoregistrazione del primo colloquio non toglie che l’audizione rappresenti comunque un momento centrale per la valutazione della credibilità e della coerenza del racconto del richiedente asilo, come dimostrato proprio dalla disposizione di cui del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 10, lett. a). Dunque, la predetta disposizione va necessariamente interpretata nel senso che, fermo il principio per cui l’obbligo di fissazione dell’udienza non implica automaticamente anche quello di rinnovare l’audizione del richiedente, tuttavia il giudice è tenuto a disporla quando:

a) nel ricorso vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda di asilo (ipotesi prevista dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 11, lett. c)), poichè in tal caso va assicurato il confronto tra il giudice ed il richiedente, ed il diritto di quest’ultimo di essere ascoltato, su detti nuovi elementi, non preventivamente dedotti ed approfonditi nella fase amministrativa;

b) il giudice ritenga necessaria una nuova audizione, anche in assenza di nuove deduzioni, per acquisire chiarimenti in ordine alle incongruenze e contraddizioni rilevate dalla Commissione nelle dichiarazioni del richiedente asilo (ipotesi prevista dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 10, lett. a) e b));

c) il ricorso contenga l’istanza del richiedente di essere ascoltato, con la precisazione degli aspetti in ordine ai quali egli intende fornire chiarimenti, e sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile (ipotesi prevista dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 11, lett. b)).

La censura in esame non rientra nel paradigma suindicato, in quanto il ricorrente non specifica di aver dedotto, nel ricorso proposto al giudice di merito, alcuno specifico tema o elemento nuovo, non previamente approfondito in occasione dell’audizione innanzi la Commissione territoriale, nè di aver proposto con il predetto atto specifica istanza di essere ascoltato, corredata dall’indicazione degli aspetti in relazione ai quali egli intendeva rendere chiarimenti. La sola deduzione secondo cui il Tribunale “… avrebbe dovuto altresì disporre l’audizione del ricorrente ai sensi del D.Lgs n. 25 del 2008, art. 35-bis, al fine di richiedere eventuali ulteriori precisazioni ritenute opportune e in tal modo verificare l’attendibilità del ricorrente” contenuta a pag. 5 del ricorso non è sufficiente ad attribuire alla censura la necessaria specificità, posto che il ricorrente non indica, in concreto, su quali aspetti della sua storia egli sarebbe stato pronto a riferire a chiarimento, ed avrebbe specificamente chiesto di essere sentito, nel ricorso introduttivo della fase di merito.

Del pari inammissibile è la parte della doglianza relativa alla mancata valutazione del contesto interno della Nigeria, posto che il giudice di merito, al contrario di quanto allegato dal ricorrente, esamina in modo specifico questo profilo, indicando le fonti informative citate e le notizie da esse tratte (cfr. pag. 4 del decreto). Il ricorrente non deduce, nel motivo in esame, l’esistenza di fonti informative diverse, più specifiche e più aggiornate, di quelle richiamate dal giudice di merito, e dunque non assolve l’onere di specificità previsto per il giudizio in Cassazione. Sul punto, è opportuno ribadire che “In tema di protezione internazionale, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito, non può procedersi alla mera prospettazione, in termini generici, di una situazione complessiva del Paese di origine del richiedente diversa da quella ricostruita dal giudice, sia pure sulla base del riferimento a fonti internazionali alternative o successive a quelle utilizzate dal giudice e risultanti dal provvedimento decisorio, ma occorre che la censura dia atto in modo specifico degli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, dovendo la censura contenere precisi richiami, anche testuali, alle fonti alternative o successive proposte, in modo da consentire alla S.C. l’effettiva verifica circa la violazione del dovere di collaborazione istruttoria” (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 26728 del 21/10/2019, Rv. 655559). Ove manchi tale specifica allegazione, è precluso a questa Corte procedere ad una revisione della valutazione delle risultanze istruttorie compiuta dal giudice del merito. Solo laddove nel motivo di censura vengano evidenziati precisi riscontri idonei ad evidenziare che le informazioni sulla cui base il predetto giudice ha deciso siano state effettivamente superate da altre e più aggiornate fonti qualificate, infatti, potrebbe ritenersi violato il cd. dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice del merito, nella misura in cui venga cioè dimostrato che quest’ultimo abbia deciso sulla scorta di notizie ed informazioni tratte da fonti non più attuali. In caso contrario, la semplice e generica allegazione dell’esistenza di un quadro generale del Paese di origine del richiedente la protezione differente da quello ricostruito dal giudice di merito si risolve nell’implicita richiesta di rivalutazione delle risultanze istruttorie e nella prospettazione di una diversa soluzione argomentativa, entrambe precluse in questa sede.

In definitiva, va data continuità al principio secondo cui “In tema di protezione internazionale, il motivo di ricorso per cassazione che mira a contrastare l’apprezzamento del giudice di merito in ordine alle cd. fonti privilegiate, di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, deve evidenziare, mediante riscontri precisi ed univoci, che le informazioni sulla cui base è stata assunta la decisione, in violazione del cd. dovere di collaborazione istruttoria, sono state oggettivamente travisate, ovvero superate da altre più aggiornate e decisive fonti qualificate” (v. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 4037 del 18/02/2020, Rv. 657062).

E’ invece fondato, il primo motivo, nella parte in cui attinge la valutazione della storia personale condotta dal giudice di merito. Sul punto, quest’ultimo ha ritenuto che il narrato fosse generico e che il richiedente non avesse fatto “… alcuno sforzo argomentativo al fine di colmare le numerose lacune e discrasie emerse” ricollegando poi, in sostanza, tale asserita assenza di collaborazione al fatto che “Il ricorrente non è riuscito a raccontare nulla in merito al proprio vissuto ed al proprio orientamento sessuale, nè ha saputo descrivere un verosimile percorso personale di scoperta della sessualità, omettendo qualsiasi considerazione in punto di sentimenti e di interiorità” ed al fatto che egli sarebbe stato “… superficiale ed evasivo in merito alla relazione che avrebbe intrattenuto, per circa un anno, con il suo compagno, senza riferire alcun dettaglio o alcuna informazione circostanziata riguardo alla propria quotidianità o ai momenti vissuti insieme”. Infine, il giudice di merito ha affermato che “Le vicende rappresentate, peraltro, ineriscono esclusivamente alla sfera privatistica e personale, certamente non riconducibili al fondato rischio di persecuzione che giustifica il riconoscimento dello status di rifugiato”(cfr. pag. 3 del decreto impugnato).

Il percorso motivazionale seguito dal Tribunale di Campobasso si presta ad una duplice censura. Da una parte, esso rimane su un piano astratto, senza offrire alcun aggancio con il piano concreto della storia riferita dal richiedente asilo. Dall’altra parte, esso riduce erroneamente la questione dell’orientamento sessuale dell’istante a vicenda meramente privata, senza considerare che in taluni contesti l’omosessualità è considerata illecita in quanto tale. Sul punto, occorre considerare che l’orientamento sessuale dell’individuo rientra a pieno titolo nell’ambito del nucleo essenziale e ineludibile dei diritti fondamentali dell’individuo, che nel nostro ordinamento riceve riconoscimento in forza della previsione di cui all’art. 2 Cost., secondo cui “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità…”.

La circostanza che nel Paese di provenienza del richiedente la protezione internazionale sia previsto il reato di omosessualità rende di per sè il predetto soggetto vulnerabile in ragione del suo orientamento sessuale, che non è frutto di scelta consapevole ma di inclinazione naturale. Proprio l’esistenza di una legislazione contraria alla libera e piena esplicazione dei diritti fondamentali della persona nel Paese di origine – tra i quali rientra certamente quello di coltivare di una relazione affettiva, etero od omosessuale, che (come detto) costituisce elemento essenziale e ineludibile della piena estrinsecazione della personalità umana – espone infatti il richiedente la protezione non soltanto al rischio, ma alla certezza di subire, a causa del suo orientamento sessuale, un trattamento umanamente degradante, in ogni caso non paritetico e comunque non in linea con gli standard internazionali in tema di diritti umani.

Sul punto, questa Corte ha affermato, con principio che il Collegio condivide ed al quale intende dare continuità, che “Ai fini della concessione della protezione internazionale, la circostanza per cui l’omosessualità sia considerata un reato dall’ordinamento giuridico del Paese di provenienza (nella specie, Senegal) è rilevante, costituendo una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini omosessuali, che compromette grandemente la loro libertà personale e li pone in una situazione oggettiva di persecuzione, tale da giustificare la concessione della protezione richiesta” (Cass. Sez. 6- 1, Ordinanza n. 15981 del 20/09/2012, Rv. 624006; conf. Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 26969 del 24/10/2018, Rv. 651511). In termini analoghi, cfr. anche Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 2875 del 06/02/2018, Rv. 647344, che con specifico riferimento ad un cittadino del Gambia accusato di omosessualità ha affermato che ove il richiedente adduca il rischio di persecuzione, al fine di ottenere la protezione internazionale, il giudice non deve valutare nel merito la sussistenza o meno del fatto, ossia la fondatezza dell’accusa, ma deve limitarsi ad accertare, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, comma 2 e art. 14, lett. c), se tale accusa sia reale, cioè effettivamente rivolta al richiedente nel suo Paese, e dunque suscettibile di rendere attuale il rischio di persecuzione o di danno grave in relazione alle conseguenze possibili secondo l’ordinamento straniero. L’allegazione di un profilo di esposizione ai rischio collegata all’esplicazione di un diritto fondamentale dell’individuo, infatti, “impone che il giudice si ponga in una prospettiva dinamica e non statica”, con la conseguenza che lo stesso debba verificare la concreta esposizione a rischio del richiedente la protezione internazionale, sia in relazione alla rilevazione di un vero e proprio atto persecutorio, ove nel paese di origine l’omosessualità sia punita come reato e sia prevista una pena detentiva sproporzionata o discriminatoria, sia in relazione alla configurabilità della protezione sussidiaria, che può verificarsi anche in mancanza di una legislazione esplicitamente omofoba, quando il soggetto sia comunque “esposto a gravissime minacce da agenti privati e lo Stato non sia in grado di proteggerlo, dovendosi evidenziare che tra i trattamenti inumani e degradanti lesivi dei diritti fondamentali della persona omosessuale non vi è solo il carcere ma vi sono anche gli abusi medici, gli stupri ed i matrimoni forzati, tenuto conto che non è lecito pretendere che la persona tenga un comportamento riservato e nasconda la propria omosessualità (CGUE 7/11/2013 C-199/2012 e C-201/2012)” (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 9815 del 26/05/2020, Rv. 657835; conf. Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 24007 del 30/10/2020, Rv. 659523).

Poichè in Nigeria l’omosessualità è prevista come reato, il giudice di merito avrebbe dovuto apprezzare questa circostanza e considerare la rilevanza dell’orientamento sessuale dichiarato dal richiedente ai fini del riconoscimento della protezione invocata. Tale valutazione è invece mancata, avendo il Tribunale condotto una valutazione di non credibilità del racconto fondata sull’enfatizzazione di elementi astratti della storia che, come tali, non consentono di apprezzare alcuna verifica in concreto circa la veridicità, e quindi l’attendibilità effettiva, della storia individuale del richiedente. Particolarmente equivoci risultano, sul punto, i riferimenti al “proprio vissuto ed al proprio orientamento sessuale”, al “verosimile percorso personale di scoperta della sessualità”, alle “considerazioni in punto di sentimenti e di interiorità” ed al fatto che il richiedente non avrebbe riferito “alcun dettaglio o alcuna informazione circostanziata riguardo alla propria quotidianità o ai momenti vissuti insieme” al compagno, con il quale egli aveva riferito di aver intrattenuto una relazione durata oltre un anno. Con essi, invero, il giudice di merito ha attinto direttamente non già agli elementi di fatto della storia personale, bensì al percorso intimo di avvicinamento dell’individuo alla propria sessualità ed alle modalità con cui detto fondamentale aspetto della personalità umana viene vissuto dall’individuo stesso. In tal modo il sindacato si è inevitabilmente spostato, dal piano dei fatti – che rimangono sempre liberamente valutabili dal giudice di merito, con il solo limite della coerenza interna e della non apparenza della motivazione del provvedimento conclusivo del giudizio – a quello delle intenzioni, degli orientamenti personali e delle modalità con cui la singola personalità individuale si estrinseca: aspetti, questi, che per la loro stretta inerenza alla sfera intima della persona umana e la loro connessione con i suoi diritti fondamentali, rientrano nell’ambito della tutela riconosciuta dall’art. 2 Cost.. Tale disposizione, infatti, mira a proteggere la personalità dell’individuo in tutte le sue manifestazioni estrinseche, “sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità nelle formazioni sociali”; a maggior ragione rientra nell’ambito di detta protezione la sfera intima della personalità umana, che riguarda non già il momento in cui quest’ultima si manifesta all’esterno, bensì la fase precedente, in cui l’orientamento individuale si forma e si costruisce, e quindi in ultima analisi l’essenza stessa dell’individuo. Ammettere un sindacato su detto livello intimo, in altre parole” equivarrebbe a sottoporre le scelte individuali alla valutazione di un organo giurisdizionale” con conseguente sostanziale azzeramento del nucleo ineludibile dei diritti fondamentali dell’individuo.

Partendo dalle riferite erronee premesse logiche, il giudice molisano ha finito per travisare i termini della questione sottoposta a suo esame, adottando una motivazione del tutto apparente e giungendo ad affermare la natura privata di una vicenda che, invece, attinge la richiamata sfera dei diritti ineludibili della persona umana, e quindi rileva di per sè su piano della tutela dell’individuo, della sua persona e dei suoi diritti fondamentali.

Ciò non esclude, naturalmente, la possibilità del giudice di merito di concludere per l’inverosimiglianza del racconto, ma non già sulla scorta di considerazioni astratte, bensì di fatti concreti e di contraddizioni incidenti sui tratti salienti della storia stessa, se del caso all’esito di tutti gli accertamenti istruttori ulteriori che il Tribunale ritenesse opportuni.

Di conseguenza, i primo motivo merita di essere accolto in relazione al profilo appena indicato.

Con i secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 e l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, perchè, giudice molisano avrebbe escluso il riconoscimento della protezione umanitaria ritenendo applicabile al caso di specie il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, nel testo modificato ed integrato a seguito dell’entrata in vigore della novella di cui al D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018.

La censura è fondata.

Il Tribunale ha errato nel ritenere direttamente applicabile alla domanda dell’odierno ricorrente la normativa sopravvenuta di cui al richiamato D.L. n. 113 del 2018, senza considerare il principio – già affermato da questa Corte al momento del deposito del provvedimento impugnato – secondo cui “La normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e delle altre disposizioni consequenziali, sostituendola con la previsione di casi speciali di permessi di soggiorno, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5/10/2018) della nuova legge. Tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, all’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, farà seguito il rilascio da parte del Questore di un permesso di soggiorno contrassegnato con la dicitura “casi speciali”, soggetto alla disciplina e all’efficacia temporale prevista dall’art. 1, comma 9, di detto D.L.” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4890 del 19/02/2019, Rv. 652684, successivamente confermata da Cass. Sez. U., Sentenza n. 29459 del 13/11/2019, Rv. 656062, sulla base dell’ulteriore argomento logico secondo cui “Il diritto alla protezione umanitaria, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta ad ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile”).

Il giudice molisano ha quindi errato nel momento in cui, ritenendo applicabile la nuova normativa al caso di specie, ha omesso di svolgere “… una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e cui egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio. I seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa (art. 2 Cost.)” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv.647298, in motivazione, pag. 10).

L’accoglimento dei primi due motivi implica l’assorbimento del terzo, con il quale il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 28 bis.

In definitiva, vanno accolti il primo motivo, in parte qua, ed il secondo motivo, mentre va dichiarato assorbito il terzo. La decisione impugnata va di conseguenza cassata in relazione alle censure accolte e la causa rinviata al Tribunale di Campobasso, in differente composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

la Corte accoglie il primo motivo di ricorso, nei limiti di cui in motivazione, dichiarandolo inammissibile per il resto; accoglie inoltre il secondo motivo di ricorso; dichiara assorbito il terzo; cassa il decreto impugnato in relazione alle censure accolte e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, al Tribunale di Campobasso in differente composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 6 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2021

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