Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12514 del 21/05/2010

Cassazione civile sez. lav., 21/05/2010, (ud. 29/04/2010, dep. 21/05/2010), n.12514

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6662-2007 proposto da:

C.P., nella qualità di padre esercente la patria

potestà sulla figlia C.B., elettivamente domiciliato

in ROMA, VIA DELLA STAZIONE DI MONTE MARIO 9, presso lo studio

dell’avvocato GULLO ALESSANDRA, rappresentato e difeso dall’avvocato

MAGARAGGIA GIUSEPPE, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati, RICCIO

ALESSANDRO, GIANNICO GIUSEPPINA, VALENTE NICOLA, giusta mandato in

calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1479/2006 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 25/07/2006 r.g.n. 3227/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/04/2010 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;

udito l’Avvocato PULLI CLEMENTINA per delega ALESSANDRO RICCIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 10-12-2004 C.P., quale esercente la potestà sulla figlia minore B., proponeva appello avverso la sentenza pronunciata dal Giudice del lavoro del Tribunale di Lecce il 11-12-2003, con la quale era stata rigettata la domanda diretta ad ottenere l’indennità di frequenza in favore della minore, richiesta in via amministrativa il 2-12-1999.

Il ricorrente deduceva l’erroneità della decisione in quanto ispirata ad una CTU non sufficientemente consapevole della gravità della patologia psicologica da “immaturità cognitiva”, tale da necessitare lo specifico supporto di terzi e concludeva per l’accoglimento della domanda proposta in primo grado.

L’INPS ed il Comune di Lecce, sebbene regolarmente citati, non si costituivano, mentre il Ministero dell’Economia e delle Finanze, si costituiva concludendo per il rigetto dell’appello.

La Corte d’Appello di Lecce, con sentenza depositata il 25-7-2006, rigettava l’appello e compensava le spese.

In sintesi la Corte territoriale sulla scorta delle conclusioni della CTU espletata in secondo grado, affermava che la minore non presentava “difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni della propria età”.

Per la cassazione di tale sentenza il C.P. nella qualità ha proposto ricorso con due motivi.

L’INPS ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente, denunciando vizi di motivazione, nel censurare la valutazione della Corte d’Appello in particolare sulle osservazioni di parte formulate nei confronti delle conclusioni della CTU, in sostanza ribadisce che il mancato riconoscimento, nel caso di specie, dei requisiti sanitari dell’indennità di frequenza risulterebbe contraddetto dalle attestazioni del Servizio riabilitativo della USL Le/(OMISSIS) e della Scuola Media, dalle quali è emerso un quadro di “funzionamento intellettivo ai limiti inferiori della norma per strategie rallentate negli aspetti operativi …” con necessità “di supporto e mediazione dell’adulto”, nonchè di “lento ritmo di apprendimento …” (“esegue con lentezza i compiti che le vengono richiesti e assegnati, presenta difficoltà nel memorizzare e riepilogare gli argomenti”).

Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando violazione della L. n. 289 del 1990, art. 1. in sostanza sostiene che la Corte territoriale “si è limitata a riportare alcuni passi della relazione della consulenza di 2^ grado, non richiamando la ratio normativa al fine di accertare se il quadro patologico in atti rispondesse alla detta ratio” ed aggiunge che i requisiti previsti da tale norma, andavano riscontrati proprio nelle difficoltà e nelle lentezze emerse nelle attestazioni di cui al primo motivo.

I motivi, che in quanto connessi possono essere trattati congiuntamente, risultano in parte inammissibili e in parte infondati.

In primo luogo la Corte d’Appello ha considerato e valutato anche le osservazioni di parte relative agli “stati di immaturità emozionale riscontrati nella minore (influenzanti il suo rendimento scolastico ed il comportamento)”, fondando però il proprio giudizio sugli accertamenti e sulle valutazioni del CTL (“anche sulla scorta di test e prove grafiche somministrati alla minore dalla dott. Z., psicologa-psicoterapeuta”), che in sostanza hanno evidenziato: che la minore “possiede, complessivamente, un patrimonio culturale scolastico e verbale in linea con la sua scolarità”, pur esprimendo “una certa immaturità (in relazione alla sua età)”; che “il livello intellettivo si situa al limiti della norma senza tuttavia alcuna instaurazione di danno neurologico grazie alla terapia sostitutiva tempestivamente attuata”: che nella specie non sussiste la necessità di “apposita indennità per l’altrui specifico supporto”, in quanto “un semplice programma pedagogico mirato è sufficiente a superare le difficoltà di apprendimento, giacchè la minore è di per sè in condizione di prendere coscienza dei propri mezzi anche intellettivi in una dimensione di completa normalità”.

Tale accertamento di fatto, riservato al giudice del merito, non è in contrasto con la ratio della norma di legge (che attribuisce la provvidenza in favore dei minori riconosciuti con “difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni della propria età”) e risulta congruamente motivato, non potendo, peraltro il ricorrente invocare, attraverso la denuncia di vizi di motivazione, una revisione del “ragionamento decisorio”, inammissibile in questa sede (v. fra le altre Cass. 7-6-2005 n. 11789, Cass. 6-3-2006 n. 4766).

In particolare, in base alla giurisprudenza consolidata di legittimità “qualora il giudice di merito fondi la sua decisione sulle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, facendole proprie, affinchè i lamentati errori e le lacune della consulenza determinino un vizio di motivazione della sentenza è necessario che essi si traducano in carenze o deficienze diagnostiche, o in affermazioni illogiche e scientificamente errate, o nella omissione degli accertamenti strumentali dai quali non possa prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, non essendo sufficiente la mera prospettazione di una semplice difformità tra le valutazioni del consulente e quella della parte circa l’entità e l’incidenza del dato patologico; al di fuori di tale ambito, la censura di difetto di motivazione costituisce un mero dissenso diagnostico non attinente a vizi del processo logico, che si traduce in una inammissibile richiesta di revisione del merito del convincimento del giudice” (v.

fra le altre Cass. 17-4-2004 n. 7341, Cass. 28-10-2003 n. 16223, Cass. 25-6-2004 n. 11894). Le conclusioni, quindi, “del consulente tecnico d’ufficio sulle quali si fonda la sentenza impugnata possono essere contestate in sede di legittimità se le relative censure contengano la denuncia di una documentata devianza dai canoni fondamentali della scienza medico-legale o dai protocolli praticati per particolari assicurazioni sociali che, in quanto tale, costituisce un vero e proprio vizio della logica medico-legale e rientra tra i vizi deducibili con il ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5; in mancanza di detti elementi – come nel caso di specie – le censure configurano un mero dissenso diagnostico e quindi, sono inammissibili in sede di legittimità” (v. Cass. 1-8- 2002 n. 11467, Cass. 3-7-2003 n. 10552, Cass. 13-8-2004 n. 15796).

Il ricorso va pertanto respinto.

Infine, sulle spese non si provvede, ratione temporis, in base al testo originario dell’art. 152 disp. att. c.p.c., vigente anteriormente al D.L. n. 269 del 2003, conv. in L. n. 326 del 2003, essendo la nuova disciplina applicabile ai soli ricorsi conseguenti a fasi di merito introdotte in epoca posteriore all’entrata in vigore dell’indicato D.L. (2 ottobre 2003) (v. Cass. 30-3-2004 n. 6324, Cass. 12-12-2005 n. 27323).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 29 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2010

 

 

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