Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 12485 del 24/06/2020

Cassazione civile sez. lav., 24/06/2020, (ud. 02/04/2019, dep. 24/06/2020), n.12485

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7812/2017 proposto da:

CREDIT AGRICOLE CARIPARMA S.P.A. (già CASSA DI RISPARMIO DI PARMA E

PIACENZA S.P.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FRANCESCO DENZA, 15, presso

lo studio dell’avvocato NICOLA PAGNOTTA, rappresentata e difesa

dagli avvocati CESARE POZZOLI, ANGELO GIUSEPPE CHIELLO;

– ricorrente –

contro

G.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BASENTO 37,

presso lo studio dell’avvocato PAOLO PIZZUTI, rappresentato e difeso

dall’avvocato MARCELLO ZIVERI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 834/2016 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 30/09/2016 R.G.N. 5/2013.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Premesso:

che G.M. ha agito in giudizio, avanti al Tribunale di Parma, chiedendo che fosse accertata la responsabilità, sia contrattuale che extracontrattuale, per violazione dell’art. 2103 e dell’art. 2087 c.c., della Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza S.p.A. in relazione al demansionamento e/o alla dequalificazione subiti nel corso del rapporto nonchè accertata la illegittima lesione del proprio equilibrio psico-fisico e della propria personalità morale, con la condanna della società datrice di lavoro al risarcimento del danno professionale, biologico ed esistenziale, che ne era derivato;

– che il Tribunale, all’esito di C.T.U., ha condannato la società al risarcimento del danno biologico quantificato in complessivi Euro 40.842,00;

– che la Corte di appello di Bologna, con sentenza n. 834/2016, depositata il 30 settembre 2016, respinto il gravame della Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza,

e in parziale accoglimento del gravame incidentale del G., ha condannato la società al pagamento delle spese mediche sostenute dal lavoratore in conseguenza della patologia insorta a seguito dell’illecito datoriale;

– che la Corte, nel disattendere il primo motivo dell’appello principale, ha osservato come il primo giudice avesse ritenuto sufficientemente provata la dequalificazione sulla base di fatti pacifici o non contestati, quali “i dodici trasferimenti in nove anni” e il passaggio “da una valutazione di ottimo fino al 1999 a quella di parzialmente adeguato nel 2004”; ha inoltre rilevato come non fosse contestato che il G. era stato lasciato “completamente inattivo, privato di ogni compito e mansione” da parte della Cassa “(ad es. nel periodo dal dicembre 1999 a marzo aprile 2001, nonchè alla stessa epoca dell’interrogatorio libero all’udienza del 21.04.2009”);

– che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, con due motivi, Credit Agricole Cariparma S.p.A. (già Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza S.p.A.);

– che il G. ha resistito con controricorso;

rilevato:

che con il primo motivo viene dedotta dalla ricorrente violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., per avere la sentenza impugnata erroneamente ritenuto provata la dequalificazione del G. sulla base dei trasferimenti disposti nei suoi confronti e del passaggio da una valutazione professionale di “ottimo” ad una di “parzialmente adeguato”, nonostante che – secondo consolidato orientamento nè la variazione delle mansioni nè il mutamento della sede di lavoro implichi di per sè un demansionamento del lavoratore;

– che con il secondo motivo viene dedotta la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, avendo la sentenza impugnata omesso l’esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti: in particolare, avendo la Corte di appello trascurato di considerare che la Cassa aveva “contestato” il fatto che il G. sarebbe stato lasciato “completamente inattivo” e “privato di ogni compito e mansione” e che, anche con riferimento alle mansioni svolte “alla stessa epoca dell’interrogatorio libero”, la rappresentante della Cassa aveva contestato l’inattività del dipendente;

osservato:

che il primo motivo è inammissibile, non confrontandosi con il completo sviluppo motivazionale della sentenza impugnata, là dove la Corte di appello, dopo di avere richiamato i plurimi trasferimenti e il passaggio da una valutazione di “ottimo” (fino al 1999) ad una di “parzialmente adeguato” (nel 2004), ha posto in rilievo, quale circostanza incontestata (anche all’esito dell’interrogatorio libero delle parti), che il G. era rimasto, per un prolungato periodo, del tutto inattivo, “privato di ogni compito e mansione” da parte della datrice di lavoro (cfr. sentenza, p. 10, ultimo capoverso): accertamento, quest’ultimo, evidentemente destinato ad assumere essenziale rilevanza per un motivo che – come il presente – sia volto a denunciare la violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., posto che il lavoratore, cui detta norma riconosce esplicitamente il diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza diminuzione della retribuzione, ha altresì diritto, a maggior ragione, a non essere allontanato da ogni mansione, cioè ha il diritto all’esecuzione della prestazione lavorativa, e che la violazione di tale diritto all’esecuzione della prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, salvo che l’inattività del lavoratore sia riconducibile ad un lecito comportamento del datore di lavoro stesso, in quanto giustificata dall’esercizio dei poteri imprenditoriali, garantiti dall’art. 41 Cost., o dall’esercizio dei poteri disciplinari (Cass. n. 4766/2006, fra le numerose conformi); – che il secondo motivo risulta egualmente inammissibile;

– che al riguardo, e in primo luogo, è da rilevare che la deduzione del motivo in esame – a fronte di giudizio di appello introdotto con ricorso depositato nel 2013 non è più ammissibile, in forza di quanto disposto dall’art. 348 ter c.p.c., u.c. (c.d. “doppia conforme”);

– che, d’altra parte, la ricorrente, pur richiamando Cass. n. 5528/2014, non offre, in termini effettivi, la richiesta dimostrazione della difformità tra le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, limitandosi, nell’inosservanza del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, a proporre, a sostegno dell’ammissibilità del motivo, taluni passi della sentenza di primo grado, sulla base dei quali esclusivamente sarebbe stata affermata l’esistenza della dequalificazione, e peraltro senza fornire, del percorso logico-argomentativo seguito nella sentenza medesima, una compiuta e pur necessaria ricostruzione;

– che parimenti non risultano trascritte le dichiarazioni rese dal rappresentante della società nella sede dell’interrogatorio libero, pur contestandosi dalla ricorrente le conseguenze che da tale mezzo di chiarimento dei fatti di causa la Corte ha inteso trarre con riferimento alla condizione di completa inattività del lavoratore;

– che, in ogni caso, il motivo risulta inammissibile, avendo ad oggetto non un “fatto storico” ma una deduzione difensiva (Cass. n. 14802/2017; conf.: n. 26305/2018), quale la contestazione della verità di un fatto allegato dalla controparte a sostegno del proprio assunto (nella specie, la condizione di totale inattività, cui il G. era stato sottoposto, e la sottrazione di ogni suo compito e mansione da parte della datrice di lavoro) e l’affermazione di circostanze di segno contrario;

– che è stato precisato in proposito che l’art. 360 c.p.c., n. 5, nella sua attuale formulazione, “riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, nozione da intendersi come riferita a un preciso accadimento o a una precisa circostanza in senso storico-naturalistico e non ricomprendente questioni o argomentazioni, dovendosi di conseguenza ritenere inammissibili le censure irritualmente formulate che estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo” (Cass. n. 22397/2019);

ritenuto:

conclusivamente che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;

– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, da liquidarsi, a favore del controricorrente, in Euro 4.250,00 per compensi professionali ed in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15%, Iva e Cpa come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 2 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 giugno 2020

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